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P ER FANTASIAS VIDERE

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 43-69)

LE CAUSE DI VISIONI E ALLUCINAZIONI NELLE VERSIONI LATINA E SIRIACA

DELLE RECOGNITIONES PSEUDO-CLEMENTINE

(REC. II 64, P. 89, 28-90, 11 REHM) Amneris Roselli

Il problema e i testi

I contenuti e le forme della riflessione sul problema delle allucinazioni e delle visioni distorte nella letteratura antica greca e latina si ricostruiscono a partire da tre tipi di fonti: a) la letteratura medica, che affronta il tema direttamente, ricercandone le cause e allo scopo di fornire adeguate terapie, b) la letteratura filosofica, che riflette sulla facoltà immaginativa e utilizza il fenomeno delle allucinazioni nelle discussioni epistemologiche sulla relazione tra esperienza e conoscenza e sulla veridicità delle nostre rappresentazioni, e infine c) la documentazione letteraria vera e propria, che presenta personaggi affetti da disturbi allucinatori, si pensi ad Eracle che uccide i suoi figli che gli appaiono come i figli di Euristeo (Euripide, Heracles furens), o alla follia di Oreste (Euripide,

Orestes) che vede un’Erinni nella sorella Elettra.1 I dati forniti da questa letteratura sono confluiti, soprattutto in età imperiale e tardoantica, nelle dossografie e nella cosiddetta letteratura dei problemi dove si presentano nella forma di brevi monografie riassuntive delle diverse opinioni che sono state espresse sul tema; a qualcosa del genere credo possa essere assimilato il cap. 64 del secondo libro delle

Recognitiones pseudoclementine (Rec. II 64, p. 89, 28-90, 11 Rehm) che propone una

breve trattazione del tema delle allucinazioni nel contesto di uno di quegli excursus eruditi che non sono rari nella letteratura romanzesca greca.2

Le Recognitiones, che leggiamo nella versione latina di Rufino di Aquileia (inizio del V secolo), appartengono alla letteratura apocrifa cristiana. Si tratta di una narrazione in prima persona in cui Clemente Romano, il discepolo di Pietro che sarà suo successore sulla cattedra di Roma, nel quadro della storia della sua conversione, riferisce della predicazione di Pietro a Cesarea e poi in altre città della costa siro-palestinese. I dati storici e dottrinali relativi all’insegnamento di Pietro sono intrecciati ad elementi romanzeschi relativi alla biografia di Clemente e alle avventurose vicende della sua famiglia, perduta e ritrovata proprio al seguito di Pietro e per opera sua.3 Il testo da cui derivano le Recognitiones latine dovrebbe

1 Per un’efficace sintesi critica delle diverse teorie sviluppate nell’antichità su visioni fantastiche e allucinazioni, si veda Pigeaud, 1987, cfr. in particolare le pp. 95-127 (cap. III, “Quelques remarques sur l’hallucination et l’illusion dans la philosophie stoïcienne épicurienne, sceptique et la médecine antique”) = pp. 109-145 della traduzione italiana.

2 Cfr. Fusillo, 1989, pp. 68-77.

3 Sul carattere romanzesco delle Recognitiones la bibliografia è molto ricca; mi limiterò a segnalare alcuni titoli recenti: Edwards, 1992; Pervo, 1994,poi rielaborato in Pervo, 1996; Hansen, 1997; Vielberg, 2000 (non vidi); Calvet-Sébasti, 2001; Pouderon, 2001; Amsler, 2003 (non vidi).

essere stato composto in greco nella prima metà del III secolo, probabilmente in Siria,4 e in greco ha successivamente avuto più redazioni; Rufino, nella prefazione alla sua traduzione (par. 8, p. 4, 11-14 Rehm) ne menziona due, ma di questa fase greca della storia del testo non restano che pochi excerpta nella forma di citazioni presso altri autori.5 L’unica versione integrale dell’opera, in dieci libri, ci resta, dunque, nella traduzione latina di Rufino che ebbe grande fortuna per tutto il medioevo, come mostra la sua ricchissima tradizione manoscritta. Dei primi tre libri delle Recognitiones e dell’inizio del IV, esiste tuttavia anche una traduzione siriaca, che dovrebbe essere anteriore alla traduzione di Rufino poiché il ms. più antico che la contiene è datato dalla sottoscrizione al 411. Il testo siriaco è conservato da due testimoni ed è stato edito nel 1861 da Paul de Lagarde, e poi nel 1937 da W. Frankenberg che ha affiancato al testo siriaco una sua retroversione in greco (come si soleva fare negli anni ’30);6 manca invece ancora una traduzione in una lingua moderna, anche sa da tempo F. Stanley Jones ne annuncia una inglese.7

Le due versioni, latina e siriaca, delle Recognitiones presentano spesso divergenze e questo accade anche nel caso di Rec. II 64. Prima di entrare nei dettagli dell’analisi filologica del capitolo sarà utile, però, una rapida presentazione del contesto in cui esso è inserito.

Il fantasticare di Pietro e la reazione di Andrea

Nel corso del primo giorno della disputa pubblica tra Simone Mago e Pietro, avvenuta durante il soggiorno a Cesarea, Simone (Rec. II 60 ss.) oppone al Dio rivelato dal Vero Profeta, di cui parla Pietro, un Dio che risiede in un mondo pieno di luce, che sta al di fuori di questo mondo, un Dio che è impossibile cogliere coi sensi ma al quale si può comunque giungere tendendo intensamente lo sguardo della mente.8

Per confutare Simone e per mostrare che ogni percorso di conoscenza che prescinde dalla rivelazione è fallace, Pietro, come consono al personaggio (un

4 Per una presentazione sintetica e aggiornata di tutti i problemi cfr. Geoltrain, 2005.

5 Tutte riportate nell’apparato dell’edizione di Rehm che è l’edizione di riferimento. Lo stesso materiale delle Recognitiones, ma disposto in maniera diversa, con importanti aggiunte ed omissioni, è tramandato anche nelle Homiliae, conservate in greco. L’episodio di cui si discute qui non ha corrispondenza nelle

Homiliae.

6 Frammenti di traduzione in armeno e in etiopico provano ulteriormente la fortuna di quest’opera in un’area geografica e culturale assai ampia.

7 Cfr. Jones, 1992, e Jones, 1995 (nei due lavori Jones ha pubblicato ampi brani della sua traduzione); sull’importanza delle traduzioni cfr. anche Calzolari, 1993, pp. 263-293.

8 Rec. II 60, 5-61 (p. 88, 3-25 Rehm): “et Petrus ait: Da ergo nobis […] tamquam novus deus aut qui ab illo descenderis, sensum aliquem novum, per quem novum quem dicis deum possimus agnoscere; isti enim quinque sensus, quos nobis dedit creator deus, creatori suo fidem servant nec alium quemquam esse sentiunt deum, hoc eis ipsa sui praestante natura. (61) Ad haec Simon: Adhibe, inquit, animum ad ea quae dicturus sum, et facito eum invisibilibus semitis incedentem pervenire ad ea quae tibi demonstravero. Ausculta ergo nunc: numquamne in cogitatione positus extendisti mentem tuam in regiones vel insulas porro positas et ita in eis fixus animo mansisti, ut ne praesentes quidem videre aut temetipsum scire ubi sederes, prae suavitate eorum quae habebantur in oculis, posses? […] Ita et nunc

sensum tuum extende in caelum et supra caelum et vide quia debet esse aliquis locus […] et lumen considera […]”.

Per fantasias videre 2087 pescatore ignorante), non fa ricorso ad argomentazioni filosofiche ma, seguendo il suggerimento di Simone (Rec. II 61: numquamne in cogitatione positus extendisti

mentem tuam in regiones vel insulas porro positas […]?), racconta di una sua “visione”,

che è del tutto insignificante rispetto alla visione di cui si sta dibattendo, e non è nulla di più di un banale incidente, anche ridicolo, che gli è capitato. L’inizio del racconto è di tono decisamente umile.

Anche a me, dice Pietro, è accaduto di perdermi in una visione piacevole, che mi ha completamente astratto dal mondo circostante. Mentre sedevo a pescare, mi sono immerso nella contemplazione della cara città di Gerusalemme, dove sono stato altre volte, e vedevo le sue mura, le porte, le piazze; poi sono passato a contemplare Cesarea, che sapevo essere una città altrettanto bella; e la vedevo con le sue mura, le piazze, i bagni e tutto quel che si trova nelle grandi città.9 Assorto nella mia visione non mi sono accorto che un grosso pesce aveva abboccato all’amo; allora mio fratello Andrea, che sedeva presso di me, mi ha riscosso. Io l’ho rimproverato perché mi aveva strappato alla mia contemplazione dolcissima,10 e allora Andrea, come per ispirazione (cioè usando argomenti che non sarebbero propri di un pescatore ignorante)11 mi ha spiegato che queste visioni fantastiche

9 La costruzione mentale di una città sconosciuta a partire da una città che già si conosce potrebbe già essere un topos, certo lo diventerà in seguito, come mi pare di poter dedurre da un passo del Liber de

animae ratione di Alcuino: “Sicut enim qui Romam vidit, Romam enim [etiam?] fingit in animo suo, et

format qualis sit. Et dum nomen audierit vel rememorat Romae, statim recurrit animus illius ad memoriam, ubi conditam habet formam illius, et ibi recognoscit [eam ad memoriam] ubi recondidit illam. Et adhunc mirabilius est, quod incognitarum rerum, si lectae vel auditae erunt in auribus, anima statim format figuram ingnotae rei. Sicut forte Jerusalem quisquam nostrum habet in anima sua formatam, qualis sit: quamvis longe aliter sit, quam sibi animam fingit, dum videtur. […] Muros et domos et plateas non fingit in eo, sicut in Jerusalem facit, [sed] quidquid in aliis civitatibus vidit sibi cognitis, haec fingit in Jerusalem esse posse; ex notis enim speciebus fingit ignota” (PL 101, 642 A-C). Ricavo questa citazione dal bel volume di Mary Carruthers che offre molti spunti per lo studio delle immagini mentali nella tarda antichità e nel medioevo; cfr. Carruthers 2006, p. 188, n. 6.

10 Rec. II 62-63 (p. 88, 25-89, 27 Rehm): “Petrus respondit: […] scio me ipsum, o Simon, aliquando in

cogitatione positum extendisse sensum meum in regiones, ut ais, et insulas procul positas easque mente non minus quam oculis perspexisse, cum essem apud Capharnaum in captura piscium positus et sederem

supra saxum, hamum setae innexum et decipiendis piscibus aptatum habens in mari, ita ut haerentem ei non senserim piscem, dum mens mea per desiderabile mihi Hierusalem distenta percurreret, ad quam sane oblationum gratia et orationum vigilans frequenter ascenderai, verum et Caesaream hanc mirari ab aliis audiens, et desiderare solebam et eam in qua nondum fueram, videre mihi videbar et cogitabam de ea quae conveniret de civitate magna cogitari, portas, muros, lavacra, plateas, angiportus, fora et horum consequentia, secundum ea scilicet quae in aliis urbibus videram, et in tantum intentione huiuscemodi

intuitus delectabar, ut vere, sicut ipse dixisti, nec presentem ac adstantem viderem nec ipse ubi sederem,

nossem. (63) […] Denique cum piscem maximum qui hamo inhaeserat, mente occupatus habere me minime sentirem, et quidem cum hami lineam de manibus meis violenter abriperet, stupentem me videns frater meus Andreas qui mecum sedebat, ac paene casurum, latus fodiens cubito velut

dormientem excitat dicens: Non vides, Petre, quam magnum piscem ceperis? numquidam mente excidisti

quod sic attonitus stupes? quid est quod pateris? dic mihi. at ego indignatus ei paululum, quod me a dulcedine eorum quae intuebar abstraxerit, respondi nihil me mali pati, sed animo desiderabilem mihi

intueri Hierusalem simulque Caesaream et corpore quidem cum ipso esse, mente vero illuc penitus

auferri”.

11 Rec. II 63, 4 (p. 89, 28-29 Rehm): “At ille nescio unde inspiratus, reconditum et secretum veritatis protulit verbum”.

sono vane e sono simili alle allucinazioni inviate da un demone o causate dalla malattia o a certe visioni nei sogni (cap. 64). Io stesso, del resto, conclude Pietro, una volta arrivato a Cesarea, ho potuto constatare che la città è molto diversa da come l’avevo vista quel giorno per fantasias, quando la costruivo coi materiali della mia esperienza e dunque non dissimile da Gerusalemme. Pietro e Simone devono dunque concludere che non possiamo dar forma a nessuna immagine se non utilizzando i materiali della nostra precedente esperienza e derivati da cose realmente esistenti, e dunque, che per questa via, non possiamo attingere ad alcuna visione di Dio.12 Ed inoltre aggiunge Pietro, se due persone diverse pensassero questo dio con attributi diversi, esso dovrebbe possedere al tempo stesso gli uni e gli altri, il che è impossibile.13 Simone rinuncia dunque al suo argomento14

accettando che il sensus novus, che sembra avere tutte le caratteristiche della moderna fantasia e che si sarebbe dovuto aggiungere ai cinque sensi per superarli, si riveli a sua volta fondato sulle sensazioni e dunque incapace di cogliere qualcosa di nuovo.

La discussione tra Simone e Pietro procede in forma piana; e i due si trovano d’accordo su alcuni punti che costituiscono il terreno condiviso del loro discorso. In primo luogo nessuno dei due contesta che l’immaginazione fantastica comporti un elemento di piacere che l’alimenta e favorisce l’astrazione dalla realtà,

12 Rec. II 65-66 (p. 90, 11-91, 14 Rehm): “denique, ut accipias rei fidem, de Hierusalem quam saepe videram dicebam fratri meo, quae loca quosve conventus visus mihi fuissem videre, sed et de Caesarea quam numquam videram, nihilominus contendebam, quod esset talis, qualem mente et cogitatione

conceperam, cum autem venissem huc, nihil omnino simile respiciens eorum quae per fantasias videram,

reprehendi me ipsum et notavi valde, quia ex aliis quae videram, portas ei et muros aliasque aedes, revera similitudinem ex aliis capiens dederam. neque enim quis potest novum aliquid, et cuius forma nulla

umquam extiterit, cogitare. nam et si velit aliquis tauros cum quinis capitibus ex sua cogitatione formare, ex

istis quos vidit cum singulis capitibus, illos quinis capitibus fingit. et tu ergo nunc, si vere aliquid tibi videris tua cogitatione perspicere et supra caelos intueri, non dubium quin ex his ea consideres quae in terris positus vides. aut si putas facilem menti tuae accessum esse super caelos et considerare te posse quae illic sunt, atque inmensae illius lucis scientiam capere, puto ei qui illa potest comprehendere, facilius esse ut sensum suum qui illuc novit ascendere, in alicuius nostrum qui adsistimus, cor et pectus iniciat et dicat, quas in eo cogitationes gerat. si ergo potes alicuius nostrum, qui tamen non sit erga favorem tuum occupatus, enuntiare cogitationes cordis, poterimus tibi fortasse credere, quod et ea quae super caelos sunt, scire potueris, licet illa multo sint celsiora. (66) ad haec Simon: […]. inpossibile est omne

quod ad cogitationem hominis venerit, non etiam re ipsa ac veritate subsistere; quae enim non subsistunt, nec speciem habent, quae autem speciem non habent, nec cogitationi possunt occurrere”.

13 Rec. II 66, 3 (p. 91, 10-14 Rehm): “et Petrus: Si omne, inquit, quod ad cogitationem venire potest, subsistit, istum quem dicis extra mundum esse inmensitatis locum, si eum quis in corde suo lumen esse cogitet, alius vero tenebras, quomodo poterit unus atque idem locus secundum eos, qui diversa de eo cogitarunt, et lumen esse et tenebrae?”. Questo argomento è confrontabile con un argomento relativo alle rappresentazioni usato da Crisippo (Sext. Emp. Adv. math. VII 229 = SVF II 56, p. 22,35 von Arnim): a Cleante, che aveva definito le fantasivai come impressioni kata; eijsochvn te kai; ejxochvn, Crisippo contesta  che,  se  così  fosse: prw`ton me;n gavr, th`" dianoivας dehvsei uJf’e{n pote trivgwnovn ti kai; tetravgwnon fantasioumevnhς to; aujto; sw`ma kata; to;n aujto;n crovnon diafevronta e[cein peri; auJtw`/ schvmata a{ma te trivgwnon kai; tetravgwnon givnesqai h] kai; periferevς, o{per ejsti;n a[topon.

14 Rec. II 66, 4 (p. 91, 15-16 Rehm): (Simone) “omitte nunc ista quae ego dixi, tu quid esse putas super caelos dicito”.

Per fantasias videre 2089 ottundendo i sensi di colui che ad essa si abbandona, smorzando o addirittura spegnendo i segnali che vengono dal mondo esterno, cfr. cap. 61 (Simone) “ita in eis fixus animo mansisti, ut ne praesentes quidem videre aut temetipsum scire ubi sederes, prae suavitate eorum quae habebantur in oculis, posses”; cap. 62 (Pietro) “et in tantum intentione huiuscemodi intuitus delectabar, ut vere, sicut ipse dixisti, nec praesentem ac ad stantem viderem nec ipse ubi sederem, nossem”; cap. 63 (Pietro) “at ego indignatus ei paululum, quod me a dulcedine eorum quae intuebar abstraxerit”. Ma, proprio per questa capacità di seduzione, le visioni fantastiche sono giudicate pericolosamente vicine ai prodotti di una situazione patologica (e questo è appunto il tema della piccola dissertazione di Andrea nel cap. 64 che esaminerò nei particolari). In secondo luogo i due interlocutori finiscono col concordare sul fatto che l’attività fantastica dipende da precedenti percezioni delle cose e dalla costruzione di immagini che hanno una forma o una species: la fantasia può avere una funzione di presentificazione di immagini passate, ma può anche combinarle in modo da produrre rappresentazioni che non hanno un corrispettivo nel reale, come per esempio un toro con cinque teste; per dirlo in termini moderni, la fantasia è una “capacità rappresentativa che, in quanto riproduttiva, è strettamente legata al ricordo, in quanto produttiva, invece, va al di là di esso”;15

Pietro prima e poi Simone giudicano questa peculiarità dell’attività fantastica come un limite alla sua potenzialità che la tiene ancorata al mondo sensibile; essa non può essere un nuovo senso per vedere un nuovo dio, cfr. cap. 65 (Pietro) “neque enim quis potest novum aliquid, et cuius forma nulla umquam extiterit, cogitare” e cap. 66 (Simone) “inpossibile est omne quod ad cogitationem hominis venerit, non etiam re ipsa ac veritate subsistere; quae enim non subsistunt, nec speciem habent, quae autem speciem non habent, nec cogitationi possunt occurrere”.

Il discorso di Andrea

Fin qui ho tralasciato il capitolo 64, in cui Pietro riferisce le parole di Andrea; argomenti difficili sulla bocca di un pescatore, come sottolinea Pietro nell’introdurli alla fine del cap. 63 (p. 89, 27-28 Rehm): “At ille nescio unde inspiratus,16 reconditum et secretum veritatis protulit verbum”.

Il discorso di Andrea si articola come segue: seducenti visioni fantastiche aprono le porte alla possessione demoniaca; l’anima debilitata non vede le cose che sono e desidera portare al suo cospetto immagini di cose che non sono (§§ 1 e 2); questo accade anche a coloro che durante un accesso di frenite/di follia manifestano un potenziamento non naturale dell’attività immaginativa (par. 3); anche certi sogni altro non sono che il prodotto di un desiderio, come capita a coloro che, assetati, vedono fiumi e sorgenti (par. 4); tutto ciò mostra con chiarezza che queste immagini fantastiche/allucinatorie altro non sono che il prodotto di

15 Riprendo la definizione di fantasia proposta da Butzer, 2002, p. 191.

16 Una riflessione che nel romanzo pseudoclementino occorre anche altre volte per alludere a una volontà esterna che guida Clemente verso la conversione, cfr. Rec. I 1, 2 (p. 6, 5 Rehm) “incertum sane unde initium sumpserit” (della passione di Clemente per la riflessione sul suo destino) = Hom. I 1, 2 oujk oi\da povqen th;n ajrch;n labwvn e I 9, 2 (p. 11, 17 Rehm) “zelo quodam nescio unde repletus”.

affezioni delle facoltà fisiche e/o psichiche (par. 5).

Nel riassumere il capitolo ho cercato di riprodurre, entro i limiti del possibile, il contenuto comune alle due versioni, latina e siriana, che, tuttavia, presentano divergenze considerevoli. L’ordine di successione degli argomenti è lo stesso e non vi sono significativi elementi in più o in meno in una versione rispetto all’altra, tuttavia gli argomenti sono legati tra loro in maniera diversa e, soprattutto, esse offrono due spiegazioni alternative sull’origine delle allucinazioni nella malattia mentale (par. 3):17 una divergenza che richiede qualche indagine più approfondita.

Propongo dunque le due versioni affiancate; la traduzione italiana dal siriaco si deve alla cortesia dell’amico Lorenzo Perrone (ad essa faccio seguire in corpo minore la retroversione in greco di Frankenberg).18

Rec. II 64, 1-5, p. 89, 28-90, 11 Rehm Rec. Syr., p. 147, 20-149, 1

Frankenberg

1. Hi enim qui daemone incipiunt repleri

vel moveri mente, huiuscemodi initia habent: per fantasias primo ad iocunda quaeque et delectabilia transferuntur, deinde ad ea quae non sunt, vanis et inanibus motibus effunduntur.19

1. Coloro che stanno per essere

posseduti da un demonio e per essere strappati via dai ragionamenti normali così, da principio, hanno allucinazioni e allora a causa di un vano piacere vaneggiano di cose che non sono (oiJ ga;r daimonivzesqai mevllonte" kai; th`" kata; fuvsin ejnnoiva"

17 Non è difficile constatare che la versione latina di Rufino e la versione siriaca divergono in molti altri luoghi. Alcune delle varianti sono riconducibili alla diversa struttura delle due lingue, altre, come appunto quella del par. 3, possono dipendere dal fatto che i due traduttori disponevano di redazioni diverse del testo greco o dal fatto che hanno volontariamente adattato il testo alla cultura dei destinatari. Nonostante quel che sappiamo di Rufino traduttore (in Roselli, 2008, ho mostrato che Rufino tende a calcare la mano nei passi in cui nel testo di partenza si fa riferimento all’apprendimento e alla memoria e discusso la bibliografia su Rufino traduttore), in assenza di altri testimoni è pressoché impossibile definire se nel nostro passo la divergenza del par. 3 appartenga alla seconda o alla terza tipologia.

18

La versione italiana in qualche punto si allontana dalla retroversione di Frankenberg perché si è cercato di conservare la massima aderenza al testo siriaco; così al par. 1 il siriaco ha un plurale (= τω̃ν ejnnoiw`n) mentre Frankenberg scrive τη̃ς ejnnoivας; la resa ajllotriou`sqai non corrisponde al verbo siriaco che significa piuttosto “essere mossi/trasportati”; la forma greca kenopaqou`si, invece, verbo

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 43-69)