• Non ci sono risultati.

STUDIO SULLA LINGUA INGLESE IN AMBITO UNIVERSITARIO

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 139-155)

Maria Teresa Sanniti di Baja (†)

Introduzione

Questo studio riguarda le consuetudini d’uso linguistico e il loro effetto nello stabilire e nel mantenere le relazioni sociali attraverso la corrispondenza e-mail in lingua inglese prodotta in un contesto accademico da parlanti di status professionale differente. La prospettiva adottata è di taglio sociolinguistico e interazionale, con particolare riferimento ai presupposti introdotti da Gumperz e Goffman.

L’antropologo Gumperz (1982) ha evidenziato la relatività sociale e culturale dei significati, delle strutture e degli usi linguistici, sottolineando come attraverso la lingua e le presupposizioni su cui i parlanti costruiscono i significati, essi segnalino costantemente non solo la propria identità individuale, ma anche la loro appartenenza a determinati gruppi sociali. Nell’ambito di questi gruppi sociali può essere inclusa anche la community of practice, costituita da un insieme di persone che operano in un determinato settore, ne imparano e ne esplorano le complessità, caratterizzano la natura del proprio impegno rispetto agli altri e costruiscono un’immagine del gruppo e di sé stessi all’interno di questo.

Il sociologo Goffman (1967) ha dato risalto allo stretto rapporto tra i significati e le relazioni interpersonali, sottolineando l’influenza dei sistemi di comportamento e delle aspettative imposte ai parlanti dalle strutture culturali. Tra queste strutture rientrano anche le norme della politeness.

I concetti di community of practice e di politeness vengono qui interpretati, alla luce dell’intertestualità, come componenti chiave nel modellare la dinamica interazionale nella corrispondenza e-mail prodotta in un contesto accademico specifico. L’intento dello studio è capire il ruolo della comunanza di pratiche nel creare un proprio sistema di regole di comportamento in grado di influire sulle norme più generali della politeness. L’ipotesi da verificare è se queste regole stabilite per mantenere le relazioni sociali acquistino visibilità nei testi e-mail, determinando tendenze nell’uso linguistico. La discussione partirà quindi dal delineare premesse teoriche per poi applicarle all’analisi di dati empirici.

L’intenzione generale non è trarre conclusioni definitive sugli usi linguistici nella vastità dei contesti accademici. Si è ben coscienti del fatto che l’interazione umana è un fenomeno complesso e soggetto ad una quantità di variabili; per questo le implicazioni che si possono trarre da studi empirici devono sempre tener conto della natura variegata e a volte sfuggente dei dati stessi. Tuttavia, la filosofia operativa seguita, i criteri alla base della raccolta e della schedatura dei dati e alcune implicazioni ricavabili dai dati stessi propongono, alla luce anche della lunga appartenenza di chi scrive alla community of practice in questione, un possibile percorso di indagine ed una panoramica reale dei comportamenti dello

specifico gruppo osservato. Si spera, così, di poter aggiungere un contributo alla comprensione generale dei comportamenti linguistici che caratterizzano la comunicazione umana.

Le communities of practice

Tra la fine degli anni 1980 e l’inizio dei ‘90 sono state lanciate le prime sfide alla visione tradizionale dell’apprendimento quale processo individuale separato dalle altre attività, caratterizzato da un inizio e da una fine, e frutto di un insegnamento. Si è cominciato a guardare all’apprendimento come partecipazione attiva alle azioni di gruppi sociali e come costruzione, attraverso questi, della propria

identità. Su tali presupposti Lave e Wenger1 hanno sviluppato il concetto di

community of practice. Una community of practice, cui si fa spesso riferimento con CoP, è gruppo di individui che partecipano in modi e in gradi diversi al

compimento di un’azione collettiva e che sono uniti informalmente da tutto ciò che fanno insieme – dalla soluzione di un problema specifico a uno scambio di opinioni – magari durante la pausa per il pranzo. Attraverso il loro impegno e il contributo alle pratiche comuni, questi individui sviluppano un modo proprio di concepire le pratiche che svolgono e di conseguenza costruiscono e sperimentano costantemente due tipi di identità condivise: la propria e quella del gruppo.

Una CoP quindi si differenzia da altri insiemi di interesse o di tipo geografico perché è individuabile attraverso le azioni che compie, perché ruota intorno a ciò che è di interesse per i propri membri, perché è lo sforzo reciproco che la unisce in un’entità sociale, e perché è definibile più attraverso le pratiche e le esperienze collettive che attraverso i compiti individuali. Inoltre, una community of practice esiste perché la partecipazione al gruppo è considerata di valore da parte degli appartenenti, perché è un’impresa congiunta, costantemente negoziata dai suoi membri, e perché costruisce ed utilizza un repertorio proprio di risorse comuni sviluppate nel tempo dai suoi componenti, che ne sanciscono l’identità (routines, condivisione di giudizi e prospettive su fatti e situazioni, terminologia e modi di dire, gestualità, confini tra ciò su cui è lecito scherzare, ironizzare, o meno, gradi di complicità ammessi, e così via ….). Queste caratteristiche, che individuano la CoP come un’entità più complessa di una semplice struttura organizzativa, ne rendono flessibili e permeabili i confini. Spiegano anche perché le formulazioni attuali di

community of practice sono varie e presentano una serie di punti deboli.2

Scollon (2001) mette comunque in guardia dall’etichettare gli individui come componenti di determinati gruppi, perché questo implicherebbe caratteristiche precise, contorni netti laddove non esiste di fatto neanche la possibilità di delineare un profilo del rappresentante “ideale” del gruppo. Inoltre, anche uno stesso contesto di lavoro non costituisce una singola unità di pratiche, ma prevede

1 Le loro idee, espresse originariamente nel 1991 e ampliate in lavori seguenti, hanno aperto la strada a nuovi approcci e ripensamenti in materia di apprendimento. Il concetto di community of practice è stato poi esteso ad altri ambiti, compresa la gestione del personale.

2 Eckert e McConnell-Ginet definiscono una community of practice come “an aggregate of people who come together around mutual engagement in an endeavour” (1992, p. 464).

Community of practice e politeness 2183 un’organizzazione interna differenziata in termini di “diversity of practice” (p.145), per cui lo stesso individuo può appartenere a gruppi diversi e a volte in contrasto. Nell’ambito universitario, ad esempio, un collaboratore linguistico fa parte di un gruppo funzionale più ristretto (la community of practice formata dagli altri collaboratori linguistici) e di altri più ampi (quello costituito dallo staff di Lingua e Linguistica Inglese, cui qui si fa riferimento, o dall’intero staff della Facoltà, e così via) che per alcuni aspetti potrebbero anche trovarsi in conflitto.

Nonostante queste ed altre possibili critiche di cui si prende naturalmente atto, il concetto di community of practice viene ugualmente adottato come criterio per l’osservazione dei dati linguistici perché da un punto di vista più generalmente sociolinguistico contribuisce a gettar luce su alcuni comportamenti degli interlocutori che non troverebbero spiegazione diretta all’interno delle norme più

generali della politeness.3

L’identificarsi come appartenente ad un determinato gruppo infatti ha diverse implicazioni che si riflettono anche nelle routines di comunicazione, risultando anche in grado, in alcuni casi, di scavalcare differenze interlinguistiche ed interculturali. Dagli scambi di posta elettronica analizzati emerge come gli interlocutori - sottoposti a due pressioni contrastanti: quella derivante dalle proprie abitudini linguistiche personali e quelle motivate dal desiderio di sottolineare la propria appartenenza alla comunità accademica in questione - finiscano col fare regolare uso dei riferimenti intertestuali/ dialogici che la

comunanza di pratiche ha costruito. E’ l’intertestualità4 che suggerisce ai

componenti di un gruppo la scelta di un comportamento linguistico piuttosto che un altro, attribuendo determinati valori a determinate scelte, e caratterizzandosi come strumento importante per la costruzione e il perpetuarsi delle convenzioni discorsive di quella data comunità. E’ grazie all’intertestualità che il repertorio di risorse proprie sviluppato nel tempo dai componenti di una comunity of practice viene trasmesso, appreso, e man mano negoziato dagli ‘addetti ai lavori’.

Ogni testo esiste ed ha un significato perché si relaziona ad altri testi già detti o scritti, perché “… is constructed as a mosaic of quotations; any text is the absorption and transformation of another” (Kristeva 1986:37). Come sottolinea Fairclough, però, il concetto di intertestualità non è passivo, ma punta verso la produttività, ”… to how texts can transform prior texts and restructure existing conventions to generate new ones” (1992: 103). Ogni volta che ri/scri-viamo un testo, lo arricchiamo delle nostre esperienze, le nostre preferenze. L’apparente paradosso che le convenzioni discorsive possono originare solo grazie all’interazione e che l’interazione a sua volta si basa sulle convenzioni discorsive evidenzia il ruolo dell’intertestualità nello stabilire relazioni sociali all’interno di un gruppo. Spiega anche perché i componenti del gruppo se ne servano per

3 Vi sono diverse proposte volte ad individuare gli elementi della community of practice che influenzano direttamente l’uso linguistico. In proposito si legga ad esempio Holmes e Meyeroff, 1999, pp. 176 e segg.

4 Il termine ‘intertertestualità’, coniato dalla linguista, psico-analista e scrittrice Julia Kristeva nel 1969 in risposta alle interpretazioni occidentali del filosofo russo Mikhail Bakhtin, faceva riferimento originariamente all’interdipendenza tra tutti i testi letterari.

affermare, appunto, la propria appartenenza allo stesso.

E’ quindi comprensibile come il concetto di community of practice finisca, attraverso l’intertestualità, ad influire sulle norme generali della politeness.

La politeness

In tutto il mondo quando i parlanti comunicano verbalmente desiderano non perdere credito e reputazione nelle relazioni sociali: questo atteggiamento è alla base della nozione intuitiva di face, che vede la comunicazione come un fatto potenzialmente rischioso e antagonistico, in cui ciascun interlocutore vuole proteggere la propria ‘faccia’ e quella dell’altro. Negli studi linguistici la nozione di ‘faccia’ quale valore che potrebbe essere perso o salvato durante l’interazione è stata introdotta in termini tecnici da Goffman 1967, per essere poi fondamentalmente sviluppata da Brown e Levinson 1978, 1987 e Leech 1983. Inserita in una teoria più generale sulla politeness, ha messo a fuoco aspetti fondamentali dell’interazione umana, conquistando un posto centrale negli studi di pragmatica.

Nell’ambito della politeness quale comportamento linguistico, con Brown e Levinson si distinguono due aspetti: uno positivo e uno negativo. La cortesia positiva risponde alla scopo di salvare l’immagine di sé che ognuno vorrebbe mostrare e che desidererebbe fosse approvata dagli altri, e cioè la faccia positiva degli interlocutori. La cortesia negativa è finalizzata a salvare la faccia negativa, il desiderio di ciascuno di sentirsi autonomo, libero da imposizioni, ed è basata su una complessa configurazione di ruoli e di status, un intreccio di relazioni formali e convenzionali

Alcuni atti illocutori possono mettere a rischio la faccia dell’altro, sia quella positiva (con l’uso di espressioni di disapprovazione o di critica, interruzioni, accuse), sia quella negativa (richieste, ordini, il ricordare promesse fatte). Di contro, altri atti potrebbero risultare rischiosi per la propria faccia positiva (espressioni di ringraziamento, di scusa) o per quella negativa (ammissione di responsabilità, riconoscimento di colpe, confessioni, accettazione di complimenti). I parlanti rispettano le norme culturali di politeness per mediare tra l’esigenza di soddisfare i propri scopi comunicativi e il desiderio o la necessità di evitare gli effetti negativi che deriverebbero dall’uso di face threatening acts - FTAs, e cioè di comportamenti che possono minacciare le rispettive facce. Questo spiega perché in molte occasioni gli esseri umani adottano specifiche strategie e evitano di servirsi della lingua in modo strettamente efficiente e razionale.

Le richieste sono un caso tipico di atti linguistici che possono minacciare la faccia dell’interlocutore, perché vanno contro il suo desiderio di essere autonomo e libero da imposizioni. Se gli si presenta una situazione in cui deve formulare una richiesta, il parlante può decidere di rinunciarvi del tutto, evitando così qualsiasi rischio per la faccia dell’interlocutore, ma nel caso decidesse di utilizzare un FTA, allora Brown e Levinson 1978 gli suggeriscono uno schema di riferimento su cui articolare la scelta della strategia interazionale più adatta.

Può compiere un FTA on record, ma con una forza illocutoria diversa, formulandolo nel modo più diretto, o cercando di mitigarne l’effetto. Ad esempio

Community of practice e politeness 2185 una richiesta può essere espressa esplicitamente con l’uso dell’imperativo “Telefonami nel pomeriggio!” (baldly on record). Può essere invece attenuata attraverso la cortesia positiva che fa presa su elementi di solidarietà e di affinità “Che ne diresti se ci sentissimo per telefono nel pomeriggio?”. O può essere mitigata usando la cortesia negativa per minimizzare l’imposizione “Sarebbe possibile sentirci per telefono questo pomeriggio?”. Può anche essere formulata off

record, in modo del tutto indiretto, usando un linguaggio ambiguo che lasci

completo spazio alla libertà dell’interlocutore di cogliere/non cogliere la richiesta implicita: “In certi casi mi sembrerebbe più facile parlarne un attimo in privato, magari per telefono”.

La scelta della strategia dipende naturalmente da come il parlante valuta il rischio che corre compiendo un dato FTA, e per fare questo nel modo più ‘oggettivo’ possibile - ma sempre culturalmente determinato e relativo - può basarsi su tre elementi: 1) il grado di imposizione associato all’atto, R; 2) il potere relativo del suo interlocutore, P; 3) la distanza sociale tra i due, D. Queste tre variabili guidano i parlanti a selezionare le strategie più adatte a realizzare i propri scopi comunicativi, optando in favore della cortesia positiva o di quella negativa.

Il contesto accademico

I dati empirici discussi qui per riflettere sull’interazione e la politeness via e-mail si riferiscono agli scambi di posta avvenuti all’interno del gruppo di Lingua e Linguistica Inglese della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” nel giro di tre anni accademici (gli a.a. 2003-04; 2004-05; 2005-06). Si tratta di un gruppo di circa 29 unità: tre docenti ufficiali (di cui solo la decana è di madrelingua inglese, gli altri sono italiani); otto professori a contratto (di cui uno praticamente bilingue inglese/italiano, gli altri italiani); una media di diciotto collaboratori esperti linguistici di madrelingua inglese, cui si farà qui collettivamente riferimento con l’acronimo ufficiale di CEL, anche se da un punto di vista amministrativo esistono piccole differenze interne (tra CEL ed ex-lettori), provenienti da varie parti del mondo, la cui presenza ha visto alcune oscillazioni numeriche e l’arrivo di nuovi colleghi.

Lo specifico gruppo in questione si identifica di fatto in una community of

practice di cui rispecchia tutte le caratteristiche fondamentali, rese più forti anche

dalla serie di difficoltà che ha dovuto affrontare a causa di questioni generali, gestionali e finanziarie che hanno investito tutto l’Ateneo, ma che hanno avuto particolare riflesso sul settore di Inglese, tradizionalmente molto affollato di studenti e, di contro, come mostrano i numeri appena ricordati, povero di docenti ufficiali. Per questo motivo la CoP di Lingua e Linguistica Inglese ha dovuto lavorare in modo particolarmente intenso e compatto e spesso, dato il momento storico delle prime fasi della riforma universitaria, anche in modo pionieristico.

Nel tempo, alcuni componenti del gruppo si sono aggiunti o sostituiti, ma la dinamica interazionale via e-mail relativa alle diverse fasi del loro inserimento dimostra caratteristiche comuni, indipendentemente dalla provenienza dei nuovi arrivati. Queste somiglianze di comportamento linguistico sono di sostegno all’ipotesi che per mantenere le relazioni sociali gli interlocutori facciano

immediatamente riferimento all’intertestualità, testimoniando anche l’intenzione di segnalare in questo modo una raggiunta appartenenza al gruppo.

Le difficoltà e gli sforzi comuni compiuti da tutti per far funzionare nel migliore dei modi il settore sono serviti a tessere un rapporto di grande collaborazione, creando e rafforzando l’identità complessiva del gruppo e quella di ciascuno al suo interno. I diversi componenti di questo contesto accademico, infatti, attribuendo al

nostro gruppo le seguenti caratteristiche insite nel concetto stesso di CoP,5

individuano implicitamente se stessi come una community of practice:

Cosa siamo: un’impresa congiunta, regolarmente compresa e negoziata dai

suoi membri;

Come funzioniamo: attraverso uno sforzo reciproco che ci tiene insieme in

una entità sociale, distinta e identificabile rispetto ad altre;

Cosa abbiamo prodotto: repertori condivisi di risorse comuni, di vario tipo,

sviluppate nel tempo.

Dato che costituisce una community of practice, il gruppo ha in comune anche alcune presupposizioni di base. Tra queste il fatto che i compiti dei singoli, per quanto impegnati su fronti e con responsabilità differenti, siano scambievolmente riconosciuti e apprezzati, e che ciascun componente operi con correttezza e buona volontà relativamente alle sue competenze nell’interesse del progetto finale. Questo non esclude, naturalmente, a livello personale, la presenza di opinioni e giudizi diversi a proposito dei comportamenti dei singoli, ma influisce comunque sulla dinamica relazionale, che deve fare i conti per default con i presupposti di

collaborazione e volontà positive da parte di ciascuno.6

Altra presupposizione è che gli scambi relazionali siano improntati più dalla comunanza di pratiche e di esperienze che dalle specificità e differenze dei compiti individuali: questo atteggiamento si riflette sul modo di interpretare l’elemento gerarchico, la dimensione sociale asimmetrica P di Brown e Levinson rappresentata dal potere relativo che una minoranza degli interlocutori (docenti ufficiali) possiede sulla maggioranza degli altri (professori a contratto e collaboratori linguistici). La dimensione P, resta attiva negli scambi e-mail, ma si manifesta attraverso strategie di

politeness specifiche, il cui successo sembra fortemente determinato dalla CoP.

I dati

La comunicazione via e-mail riflette molti aspetti dell’interazione reale nella

CoP, dove i membri del gruppo discutono, comunicano dubbi, si scambiano

5 Si veda: Wenger , 1999, pp. 73-84.

6 E’ ovvio che le presupposizioni condivise sul piano “ufficiale” non necessariamente rispecchiano a pieno le convinzioni personali di tutti e ancor meno offrono garanzie sul comportamento dei singoli. La

CoP è costituita da individui e come in ogni altra struttura sociale può ospitare celati (o malcelati)

intrecci di credenze, verità e menzogne. Il discorso sulle presupposizioni pragmatiche, sul ‘far finta di’ e sul ‘comportarsi come se’ nel dire o fare qualcosa è complesso e storicamente troppo articolato per trovare spazio in questa sede. Per uno studio approfondito sulla verità e la mistificazione, si veda Vincent 2004, in particolare capitoli sei e sette.

Community of practice e politeness 2187 suggerimenti, scherzano o si offendono come nei rapporti faccia a faccia. Come fa notare Weinreich (1997:12), però, “computer mediated communication, while supporting communications cannot build a community. Trust, cooperation,

friendship and community are based on contacts in the sensual world. You communicate through networks but you don't live in them”. Va quindi sottolineato che la posta

elettronica è un mezzo per mantenere le relazioni sociali e contribuire alla costruzione dell’identità del gruppo, ma questo succede perché la community of

practice è innanzitutto già una realtà di vita condivisa e non un fatto virtuale.

I testi e-mail sono generalmente brevi e compatti e questo ha facilitato l’analisi che prevedeva, fin dall’inizio, alcune difficoltà generali, qui di seguito ricordate. In primo luogo, il materiale adoperato a livello applicato per formulare ipotesi sulle tendenze d’uso linguistico createsi nella CoP in questione avrebbe potuto essere utilizzato in svariati modi, e si doveva delimitare il campo. Si è partiti da una classificazione in termini di atti linguistici, utilizzando etichette quali: fare richieste, esprimere disappunto, lamentarsi, criticare, fornire chiarimenti, rifiutare qualcosa.

Come è noto, non è semplice ‘isolare’ gli atti linguistici, in quanto questi possono essere svolti dall’intera dinamica testuale piuttosto che da una specifica sequenza; di contro, una stessa sequenza può svolgere contemporaneamente più di un atto linguistico. Ne consegue che la schedatura del materiale è risultata a volte multipla, composta da segmenti di lunghezza variabile, e ha dovuto tener conto di una certa flessibilità, a scapito di classificazioni più rigidamente tecniche ed oggettive. L’empiricità di alcuni aspetti dell’analisi pone naturalmente dei limiti alla proiezione su scala più ampia dei risultati ottenuti, ma offre comunque un profilo realistico dei comportamenti osservati.

Particolare attenzione nell’analisi è stata rivolta agli scambi di posta collegiali, che facilitano i collegamenti tra le persone impegnate in azioni congiunte. La maggioranza degli scambi collegiali esaminati sono risposte, anch’esse collegiali, da parte dei CEL a lettere di docenti ufficiali: si studiano così risposte parallele in uno stesso contesto, col vantaggio di paragonare meglio i comportamenti individuali. Grazie al confronto con le risposte dei professori a contratto di madrelingua italiana è poi anche possibile operare qualche riflessione di tipo interculturale.

Altro elemento preso in considerazione nell’analisi dei dati è la scelta di contesti

Nel documento … O RIENTE ,O CCIDENTEEDINTORNI (pagine 139-155)