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(Atti I-II, vv. 26-154)

La commedia si apre con un monologo di Miciòne, un uomo di città dallo stile di vita adeguato alla modernità dei tempi, che ha adottato il giovane Èschino, figlio maggiore di suo fratello Dèmea, il quale vive in campagna insieme all’altro figlio, Ctesifòne. Miciòne si preoccupa per Èschino, che tarda a rientrare a casa, ed espone il suo sistema educativo libe- rale ed indulgente, che gli ha permesso di impostare con il figlio un rapporto amichevole, basato sulla fiducia e sulla spontaneità, piuttosto che sulle punizioni e sulla paura. Deside- ra che suo figlio si comporti bene non per costrizione, ma per una scelta convinta fondata su una buona educazione. Dèmea, al contrario, abituato ad una vita di campagna orga- nizzata nel solco delle buone e antiche tradizioni, è un padre severo, burbero, autoritario, favorevole ad una rigida disciplina e se la prende con Miciòne nel momento in cui Èschino sembra essersi cacciato nel solito intrigo di rapporti tra cortigiane e lenoni. Di fatto il giova- ne ha sottratto ad un lenone la cortigiana Bàcchide, ma l’atto libertino è stato generosa- mente compiuto in favore del fratello Ctesifòne, invaghitosi della cortigiana in barba ai sani principi inculcatigli dal padre Dèmea. La conclusione, che vede uno sconcertante rovesciamento della situazione iniziale, è che, come al solito, la verità sta nel giusto mezzo, e se si è risolto in un fallimento il sistema educativo di Dèmea, neppure quello di Miciòne risulta ottimale alla prova dei fatti. (Storace, chiamato al v. 26, è un servo di Miciòne).

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MICIO

Storax! – Non rediit hac nocte a cena Aeschinus neque servolorum quisquam qui advorsum ierant. Profecto hoc vere dicunt: si absis uspiam

aut ibi si cesses, evenire ea satius est

30 quae in te uxor dicit et quae in animo cogitat irata quam illa quae parentes propitii. Uxor, si cesses, aut te amare cogitat

aut tete amari aut potare atque animo obsequi et tibi bene esse, soli cum sibi sit male.

35 Ego quia non rediit filius quae cogito, et quibus nunc sollicitor rebus! ne aut ille alserit aut uspiam ceciderit aut praefregerit

aliquid. Vah! Quemquamne hominem in animo instituere aut parare quod sit carius quam ipse est sibi!

40 Atque ex me hic natus non est, sed ex fratre; is adeo dissimili studio est iam inde ab adulescentia: ego hanc clementem vitam urbanam atque otium secutus sum, et, quod fortunatum isti putant, uxorem numquam habui. Ille contra haec omnia:

45 ruri agere vitam, semper parce ac duriter se habere; uxorem duxit; nati filii

duo; inde ego hunc maiorem adoptavi mihi; eduxi a parvolo, habui, amavi pro meo, in eo me oblecto, solum id est carum mihi.

50 Ille ut item contra me habeat facio sedulo: do, praetermitto, non necesse habeo omnia pro meo iure agere; postremo alii clanculum patres quae faciunt, quae fert adulescentia,

MICIONE

MICIONE (Uscendo di casa, rivolto all’interno) Storace! (Avanzando verso il proscenio). Questa notte Eschino era fuori a

cena, e non è tornato, né lui né i servi che erano andati a prenderlo. È proprio vero quel che si dice. Se sei via da casa e fai tardi, è meglio che ti capiti tutto quello che dice e pensa una moglie piena di rabbia, non certo ciò che s’immagina un padre che ti vuol bene. Se fai tardi, tua moglie pensa che sei innamora- to o che qualcuna è innamorata di te, oppure che te ne stai a bere e a divertirti: insomma, che tu sei bea- to e che soltanto lei sta male. Io, perché mio figlio non è tornato, cosa non vado a pensare! Tutte le pau- re mi tormentano: che abbia preso freddo, che sia caduto da qualche parte, che si sia rotto qualcosa. Mah! Che un uomo accolga nel suo cuore e vada a cercarsi qualcosa da amare più di se stesso! E questo ragazzo non è neppure figlio mio, ma di mio fratello: un uomo del tutto diverso da me, fin da quando eravamo ragazzi. Io ho scelto di vivere qui in città, con ogni comodo: mi tengo lontano dagli affari e – fortuna massima secondo la gente – non ho mai preso moglie. Lui, tutto il contrario! Sta in campagna, tira avanti tra lavoro e sacrifici, si è sposato, ha avuto due figli. Il maggiore – di questo sto parlando – l’ho adottato io. L’ho tirato su fin da piccolo, l’ho tenuto e amato come se fosse mio. È il mio piacere, la mia unica gioia. E faccio di tutto perché lui mi ricambi: gli concedo quel che vuole, lascio correre, non pre- tendo di far valere sempre i miei diritti – e poi la cosa più importante: le imprese che la giovinezza porta con sé e che gli altri fanno di nascosto dai padri, io ho abituato mio figlio a non tenermele celate. Infatti, se uno prende l’abitudine e il coraggio di mentire a suo padre e di ingannarlo, non avrà poi scrupolo di

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TERENZIO

trattare così anche gli altri. Io sono convinto che il freno migliore per i figli siano il senso dell’onore e l’indulgenza, non la paura. Ma mio fratello non è d’accordo con i miei princìpi, non gli piacciono. È sempre qui a gridare: «Allora, Micione, che dici? Perché vuoi rovinare il nostro ragazzo? Lasci che abbia un’amante, che beva, gli dai i soldi per queste cose: ma perché? Quello si veste troppo bene a tue spese, e tu sei troppo debole». Ma è lui troppo severo, più di quanto sia giusto e opportuno; sbaglia di grosso, secondo me, chi crede che l’autorità sostenuta dalla forza sia più efficace e duratura di quella fondata sull’amicizia. Io la penso così, e di questo sono convinto: chi fa il proprio dovere perché è costretto da un castigo, si lascia frenare dal timore finché crede di essere scoperto; ma se spera di farla franca, ritorna alla sua natura. Invece se leghi a te una persona facendole del bene, lui poi agisce volentieri come si deve, cerca di ricambiarti, sarà sempre lo stesso da vicino e da lontano. Questo è il dovere di un padre: abituare il figlio a comportarsi bene da sé, e non per timore degli altri. La differenza tra un padre e un padrone sta qui. Chi non ne è capace, confessi che non sa farsi obbedire dai figli. Ma eccolo, non è pro- prio lui che sta venendo? Sì, certo, è lui, mio fratello. Mi pare d’umore nero; sarà qui a litigare, suppon- go, come al solito. Salve, Demea, sono contento di vederti.

DEMEA, MICIONE DEMEA Ehi, giusto! Proprio te cercavo.

ea ne me celet consuefeci filium.

55 Nam qui mentiri aut fallere insuerit patrem aut audebit, tanto magis audebit ceteros.

Pudore et liberalitate liberos

retinere satius esse credo quam metu.

Haec fratri mecum non conveniunt neque placent;

60 venit ad me saepe clamitans: «Quid ais, Micio? Cur perdis adulescentem nobis? Cur amat? Cur potat? Cur tu his rebus sumptum suggeris? Vestitu nimio indulges; nimium ineptus es».

Nimium ipse est durus praeter aequumque et bonum,

65 et errat longe mea quidem sententia

qui imperium credat gravius esse aut stabilius vi quod fit quam illud quod amicitia adiungitur. Mea sic est ratio et sic animum induco meum: malo coactus qui suum officium facit,

70 dum is rescitum iri credit, tantisper cavet; si sperat fore clam, rursum ad ingenium redit. Ille quem beneficio adiungas ex animo facit, studet par referre, praesens absensque idem erit. Hoc patrium est, potius consuefacere filium

75 sua sponte recte facere quam alieno metu: hoc pater ac dominus interest; hoc qui nequit, fateatur nescire imperare liberis.

Sed estne hic ipsius de quo agebam? Et certe is est. Nescio quid tristem video: credo iam, ut solet,

80 iurgabit. Salvum te advenire, Demea, gaudemus.

DEMEA MICIO

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MI. Quid tristis es?

DE. Rogas me, ubi nobis Aeschinus

siet, quid tristis ego sum?

MI. Dixin hoc fore?

Quid fecit?

DE. Quid ille fecerit? Quem neque pudet 85 quicquam nec metuit quemquam neque legem putat

tenere se ullam! Nam illa quae antehac facta sunt omitto; modo quid dissignavit!

MI. Quidnam id est?

DE. Fores effregit atque in aedis inruit

alienas; ipsum dominum atque omnem familiam

90 mulcavit usque ad mortem; eripuit mulierem quam amabat. Clamant omnes indignissume factum esse; hoc advenienti quot mihi, Micio, dixere! In orest omni populo. Denique,

si conferendum exemplum est, non fratrem videt

95 rei dare operam, ruri esse parcum ac sobrium? Nullum huius factum simile. Haec cum illi, Micio, dico, tibi dico; tu illum corrumpi sinis.

MI. Homine imperito numquam quicquam iniustiust,

qui nisi quod ipse fecit nihil rectum putat.

100 DE. Quorsum istuc?

MI. Quia tu, Demea, haec male iudicas;

non est flagitium, mihi crede, adulescentulum scortari neque potare, non est, neque fores effringere. Haec si neque ego neque tu fecimus, non sivit egestas facere nos. Tu nunc tibi

105 id laudi ducis quod tum fecisti inopia?

MICIONE Perché sei di malumore?

DEMEA Mi chiedi perché sono di malumore, con uno come il nostro Eschino? MICIONE (A parte) Non l’avevo detto? (Forte) Che cosa ha fatto?

DEMEA Cosa può aver fatto? Non ha vergogna di nulla, non ha paura di nessuno, non c’è legge di cui si dia

pensiero. Tutto quello che è successo finora, lasciamolo perdere: ma adesso l’ha combinata bella!

MICIONE Di che cosa si tratta?

DEMEA Ha sfondato una porta e ha fatto irruzione in casa d’altri. Ha picchiato a sangue il padrone e tutta la

sua gente: ha rapito una donna di cui era innamorato. Sono tutti indignati, e lo proclamano ai quattro venti. Quante persone me l’hanno detto, Micione, mentre venivo qui! Tutta la gente ne parla. Per far- la breve: se vogliamo prendere un esempio – ma suo fratello, non lo vede? Lavora e guadagna, vive nei campi, è parsimonioso e frugale: lui sì, non fa proprio nulla del genere. Quando parlo così per quel ragazzo, Micione, parlo anche per te. Sei tu che lo lasci andare alla rovina.

MICIONE La cosa più ingiusta di tutte è un uomo privo di esperienza, il quale considera che sia bene solo ciò

che fa lui.

DEMEA Cosa significa questa frase?

MICIONE Tu, Demea, su questo punto dai un giudizio sbagliato. Non è una vergogna, credimi, che un ragazzo

vada a donne, né che beva. No, non è così: e neppure che sfondi una porta. Non l’abbiamo fatto né tu né io, è vero: ma era il bisogno che non ci permetteva di farlo. Adesso vuoi considerare un merito ciò che allora hai fatto solo perché eri povero? Non è giusto. Se ne avessimo avuto i mezzi, ci saremmo

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TERENZIO

comportati così anche noi. Se tu fossi un uomo, lo lasceresti fare, adesso che ha l’età. È meglio, credi- mi: altrimenti, una volta che ti abbia seppellito secondo il suo desiderio, lo farà dopo, quando non sarà più il momento giusto.

DEMEA Perdìo, tu vuoi farmi impazzire, uomo! Non è una vergogna che un ragazzo si comporti così?

MICIONE Su, ascolta, smetti di seccarmi con questa storia. Tuo figlio l’hai dato a me, e io l’ho adottato. Ora è

mio, Demea; e se sbaglia, l’errore ricade su di me: sono soprattutto io che ne farò le spese. È un buon- gustaio, beve bene, profuma d’unguenti? Lo fa con i miei soldi. È innamorato? Il denaro glielo darò io, finché mi andrà a genio. Quando non sarà più così, forse lo butteranno fuori. Ha sfondato una porta? La faremo rifare. Ha stracciato un abito? Pagheremo il danno. Me lo posso permettere, grazie a dio, e per ora non mi pesa. Insomma, smettila, oppure fa’ venire un arbitro: dimostrerò che dalla par- te del torto sei tu.

DEMEA Povero me, impara ad essere padre da chi sa esserlo davvero.

MICIONE Tu sei suo padre perché gli hai dato la vita, io perché gli insegno a vivere. DEMEA Tu? E cosa gli insegni?

MICIONE Smettila, o me ne vado. DEMEA Mi tratti così?

MICIONE Ma devo sentirmi dire sempre la stessa storia? DEMEA È un pensiero per me.

MICIONE Anche per me è un pensiero. Suvvia, Demea, pensiamoci in parti uguali, com’è giusto: tu a uno, io al -

Iniuriumst; nam si esset unde id fieret, faceremus. Et tu illum tuum, si esses homo, sineres nunc facere, dum per aetatem licet, potius quam, ubi te expectatum eiecisset foras,

110 alieniore aetate post faceret tamen.

DE. Pro Iuppiter, tu homo adigis me ad insaniam!

Non est flagitium facere haec adulescentulum?

MI. Ah,

ausculta, ne me optundas de hac re saepius! Tuum filium dedisti adoptandum mihi:

115 is meus est factus: siquid peccat, Demea, mihi peccat; ego illi maxumam partem feram. Obsonat, potat, olet unguenta? de meo.

Amat? dabitur a me argentum, dum erit commodum; ubi non erit, fortasse excludetur foras.

120 Fores effregit? restituentur; discidit vestem? resarcietur; est, dis gratia,

et unde haec fiant, et adhuc non molesta sunt. Postremo aut desine aut cedo quemvis arbitrum: te plura in hac re peccare ostendam.

DE. Ei mihi!

125 Pater esse disce ab illis qui vere sciunt.

MI. Natura tu illi pater es, consiliis ego. DE. Tu consiliis quicquam?

MI. Ah! si pergis, abiero. DE. Sicine agis?

MI. An ego totiens de eadem re audiam? DE. Curae est mihi.

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130 curemus aequam uterque partem: tu alterum, ego item alterum; nam ambos curare propemodum reposcere illum est quem dedisti.

DE. Ah! Micio!

MI. Mihi sic videtur.

DE. Quid istic? Si tibi istuc placet,

profundat perdat pereat! Nihil ad me attinet.

135 Iam si verbum unum posthac –

MI. Rursum, Demea,

irascere?

DE. An non credis? Repeto quem dedi?

Aegrest, alienus non sum: si obsto – em, desino! Unum vis curem? Curo; et est dis gratia cum ita ut volo est; iste tuus ipse sentiet

140 posterius – Nolo in illum gravius dicere.

MI. Nec nihil neque omnia haec sunt quae dicit tamen;

non nihil molesta haec sunt mihi, sed ostendere me aegre pati illi nolui. Nam itast homo: quom placo, advorsor sedulo et deterreo,

145 tamen vix humane patitur; verum si augeam aut etiam adiutor sim eius iracundiae, insaniam profecto cum illo. Etsi Aeschinus non nullam in hac re nobis facit iniuriam:

quam hic non amavit meretricem? Aut cui non dedit

150 aliquid? Postremo nuper (credo iam omnium taedebat) dixit velle uxorem ducere;

sperabam iam defervisse adulescentiam;

gaudebam. Ecce autem de integro! Nisi quidquid est, volo scire atque hominem convenire, si apud forumst.

l’altro. Che tu voglia pensare ad entrambi, sarebbe come richiedermi indietro quel che mi hai dato.

DEMEA Ah, Micione!

MICIONE Il mio parere è questo.

DEMEA Cosa devo dire? Se ti piace così, lasciamolo spendere, sperperare, rovinarsi. Non mi riguarda. Se d’ora

in poi dirò una sola parola –

MICIONE Torni ad arrabbiarti, Demea?

DEMEA E tu, cosa credi? Ti chiedo forse indietro quel che ti ho dato? Certo mi dispiace: non sono un estra-

neo. Se mi oppongo – no, ecco, la smetto. Vuoi che pensi a uno solo? Va bene; e siano ringraziati gli dèi che lui è come voglio io. Il tuo se ne accorgerà più tardi – ma basta, non voglio parlare troppo male di lui. (Si allontana)

MICIONE Non ha del tutto torto, ma non ha neanche ragione del tutto. Questa storia dà un certo fastidio anche a

me, ma non ho voluto fargli vedere che ero dispiaciuto. È un uomo fatto così: quando voglio calmarlo, lo contraddico su ogni cosa e cerco di distoglierlo dalle sue idee, e tuttavia a stento si riesce a farlo ragiona- re. Ma se aizzassi la sua rabbia, o soltanto rimanessi a sentirlo, insieme a lui diventerei pazzo anch’io. D’altra parte, è vero che Eschino in questa faccenda ci fa torto: c’è una donnina di cui non si sia innamo- rato? Ce n’è qualcuna che non abbia avuto un regalo da lui? Poco tempo fa – credo che ormai le avesse provate tutte – ha detto che voleva sposarsi. Speravo che fossero sbolliti gli ardori della giovinezza: che felicità! Ma eccolo da capo. Comunque, voglio sapere da lui che cos’è successo: andrò a cercarlo, se è in piazza. (Esce)

TERENZIO