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DEI CERTIFICATI DI EMISSIONE DEI GAS SERRA

8. Il Patto dei Sindac

L’Unione Europea, consapevole del fatto che oggi più dell’80% del consumo energetico e delle emissioni di gas serra proviene da aree

83 A. Quaranta, Burden Sharing: politica integrata o pilatesco scarica barile?, cit. p. 461.

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urbane84 e dell’importanza di un coinvolgimento di queste stesse aree al fine di giungere all’obiettivo di riduzione delle emissioni prefissato, e conseguentemente ad un inevitabile miglioramento dell’EU ETS, in cui tutti i livelli di governo risultino partecipi, si è impegnata in una campagna di sensibilizzazione delle comunità locali diretta alla loro partecipazione ad iniziative finalizzate all’espressione del potenziale di sviluppo rispettoso dell’ambiente, in linea con la politica energetica definita proprio in sede comunitaria85.

È con questo intento che nel gennaio 2008, nell’ambito della seconda edizione della Settimana europea dell’energia sostenibile (EUSEW 2008), la Commissione Europea ha lanciato l’iniziativa del Patto dei Sindaci86, Covenant Majors, movimento diretto a coinvolgere attivamente le città europee nel percorso verso la sostenibilità, la cui firma è stata aperta a tutte le comunità locali dell’Unione Europea, di qualsiasi dimensione, che intendano impegnarsi ad andare oltre gli obiettivi UE del Pacchetto Clima-Energia “20-20-20”, al fine di ridurre le emissioni di gas serra con azioni legate allo sviluppo di fonti

84 Dati ricavabili dalla relazione su l’andamento delle emissioni in Europa dal 1990 ad oggi, www.isprambiente.gov.it.

85 G. Landi, Il Patto dei Sindaci: un nuovo modello di governance locale per promuovere l’uso sostenibile dell’energia, in Rivista Giuridica per l’Ambiente, pp. 277-282.

86 Sul Patto dei Sindaci si veda N. Rangone, J. Ziller (a cura di), Politiche e regolazioni per lo sviluppo locale sostenibile. Il Patto dei Sindaci, Editoriale Scientifica, 2013.

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energetiche rinnovabili87, per dirigersi verso gli obiettivi prefissati dal Quadro Clima-Energia 2030.

Con la sottoscrizione del Patto dei Sindaci, i Primi cittadini dei comuni che liberamente aderiscono al progetto si impegnano a coordinare, a livello municipale, le attività necessarie a conseguire gli obiettivi sull’energia sostenibile individuati dalla Commissione Europea per il 2020, dirigendosi verso quelli previsti per il 2030.

Tra queste attività necessarie vi sono la preparazione di un documento, l’Inventario base delle emissioni, all’interno del quale sono elencate e descritte tutte le fonti di gas serra presenti nel territorio comunale, e l’approvazione di un Piano di Azione per l’Energia Sostenibile (PAES), documento chiave in cui i firmatari del Patto delineano le modalità e le tempistiche attraverso le quali intendono raggiungere l’obiettivo minimo di riduzione delle emissioni di gas serra entro il 202088.

Tutti i Sindaci firmatari del Patto sono liberi di scegliere il proprio PAES, a condizione che questo sia in linea con le Linee guida del PAES,

87 S. Picchiolutto, Il “patto dei sindaci” per un’energia sostenibile in Europa, in Ambiente e Sviluppo, n. 5, 2010, pp. 457-465.

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sviluppate dalla Commissione Europea con il supporto del Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea (CCR)89.

L’impegno dei Sindaci, quindi, deve essere concentrato sulla riorganizzazione degli assetti organizzativi cittadini, adeguatamente supportati anche sotto il profilo delle risorse umane, per poter affrontare con successo l’impegno assunto.

Una particolare attenzione deve essere rivolta dai Sindaci anche ad una incisiva opera di mobilitazione e coinvolgimento della società civile sul territorio, che aiuti a far decollare un Piano di Azione90 condiviso che indichi politiche e misure in grado di fornire un valore aggiunto ai fini del raggiungimento degli obiettivi perseguiti a livello locale.

Aderendo al Patto, i Primi cittadini assicurano la loro presenza attiva alla “Conferenza annuale UE dei Sindaci per un’Energia

89 Come si apprende dal sito ufficiale europeo dei Patto dei Sindaci, www.pattodeisindaci.eu, gli esperti, nel redigere le Linee guida del PAES hanno prestato attenzione innanzitutto ai caratteri ufficiali e formali del documento, specificando le modalità con le quali dovranno essere presentati il titolo, l’autorità responsabile dell’approvazione del Piano, la data di approvazione dello stesso. Dopodiché, hanno precisato che nel Piano devono essere ben illustrati gli obiettivi dello stesso (risparmio energetico, produzione da fonti rinnovabili, riduzione delle emissioni di gas serra), gli aspetti organizzativi, gli aspetti finanziari, le misure pianificate per la durata del piano.

90 Il piano d’azione è firmato entro un anno dalla sottoscrizione del Patto dei Sindaci.

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Sostenibile in Europa”, impegnandosi a diffondere il messaggio del Patto e incoraggiando all’adesione altri Enti Locali.

Al fine di consentire l’adempimento ad un altro specifico impegno assunto mediante l’adesione al Patto, i Sindaci sono tenuti alla stesura di un Rapporto sull’attuazione degli impegni, da presentare con cadenza biennale per una valutazione dei risultati ottenuti.

I Sindaci, al momento della firma del Patto, devono inoltre formalizzare la loro accettazione circa la possibilità di una possibile espulsione cancellazione dall’elenco dei sottoscrittori del Patto, in conseguenza di specifiche e gravi inadempienze agli impegni assunti, con particolare riferimento alla mancata approvazione del Piano di Azione nei tempi previsti e alla mancata attivazione delle misure previste al suo interno.

L’adesione all’iniziativa europea da parte dei Sindaci implica anche il loro sostegno alla decisione della Commissione Europea, cui viene riconosciuto il ruolo di coordinatrice del progetto, con i relativi compiti di attuare e finanziare una struttura di supporto tecnico e promozionale, comprensiva di strumenti di monitoraggio e di valutazione, oltre che di meccanismi utili a promuovere la condivisione delle conoscenze tra le città91.

91 S. Picchiolutto, Il “patto dei sindaci” per un’energia sostenibile in Europa, cit. p. 458.

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Al fine di sostenere i Sindaci firmatari a raggiungere gli obiettivi prefissati nel Patto, la Commissione ha promosso la nascita di strutture di supporto, costituite sia dai Governi locali in grado di assumere un ruolo guida nei confronti delle municipalità più piccole e in maggiore difficoltà nella realizzazione degli impegni assunti, sia un Ufficio del Patto dei Sindaci, gestito da un consorzio di reti rappresentanti le autorità locali e regionali.

I benefici del sostegno dato dal citato Ufficio non sono solamente di carattere amministrativo e procedurale, ma riguardano anche la possibilità, per i firmatari, di ottenere finanziamenti per la realizzazione delle proprie iniziative92.

Il nostro paese ha aderito in maniera entusiasta a questa iniziativa. L’Italia, infatti, vanta oggi il più alto numero di Comuni aderenti all’iniziativa in ambito Europeo93, i quali si sono dotati di propri PAES che individuano le iniziative da promuovere nel corso di questi anni per il raggiungimento degli obiettivi previsti per il 2020 e 2030.

Tra gli aderenti, meritano di essere citati due esempi di eccellenza.

92 G. Landi, Il Patto dei Sindaci: un nuovo modello di governance locale per promuovere l’uso sostenibile dell’energia, cit. p. 279.

93 Secondo i dati riportati su www.pattodeisindaci.eu, i Comuni firmatari in Italia sono oggi 3609, così distribuiti: Abruzzo 303, Basilicata 63, Calabria 109, Campania 197, Emilia Romagna 281, Friuli Venezia Giulia 64, Lazio 73, Liguria 108, Lombardia 937, Marche 54, Molise 66, Piemonte 188, Puglia 108, Sardegna 252, Sicilia 251, Toscana 44, Trentino Alto Adige 131, Umbria 12, Valle d’Aosta 1, Veneto 367.

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Il primo è il caso della produzione elettrica da biogas delle comunità di Ozieri, Tula ed Erula, firmatarie del Patto che, grazie anche al supporto regionale, sono riuscite a predisporre un PAES comune che ha identificato le migliori azioni da intraprendere per migliorare la sostenibilità ambientale del territorio.

Il secondo è la decisione della Provincia di Venezia di assumere il ruolo di coordinatore dei Comuni del proprio territorio per promuovere la redazione del PAES a livello comunale94.

Concludendo, appare plausibile affermare che l’Unione Europea si è impegnata in prima linea nei confronti dei Governi locali, dando loro la possibilità di avvalersi di un sistema di strumentazioni che, almeno teoricamente, possa fornire un reale aiuto al raggiungimento degli obiettivi previsti per il 2020 e il 2030.

Ad oggi è possibile soltanto rimanere in attesa dei risultati dell’iniziativa al termine del 2020, sperando nel contempo che sempre un numero maggiore di Comuni aderisca al Patto dei Sindaci, non solo in Italia ma anche nel resto dei Paesi membri dell’Unione Europea.

94 G. Landi, Il Patto dei Sindaci: un nuovo modello di governance locale per promuovere l’uso sostenibile dell’energia, cit. pp. 280-281.

122 Conclusioni

“Riaffermiamo che il cambiamento climatico è una delle più grandi sfide del nostro tempo, ed esprimiamo profondo allarme per le emissioni di gas a effetto serra che continuano ad aumentare a livello globale”, queste le parole contenute nella relazione finale della Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile, tenutasi a Rio de Janeiro, che lasciano chiaramente presagire che le soluzioni sinora adoperate per contrastare i cambiamenti climatici e ridurre le emissioni di gas a effetto serra non hanno prodotto i risultati auspicati.

Dalla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, adottata in seno al Summit della Terra del 1992, con la quale larga parte dei Paesi del mondo si è impegnata nella ricerca e attuazione di strategie di mitigazione climatica al fine di ridurre le emissioni di gas a effetto serra, ad oggi i progressi raggiunti sono certamente inferiori alle previsioni e alle stime fatte nel corso degli anni.

Nonostante con l’adozione del Protocollo di Kyoto si sia cercato di costruire un sistema internazionale di scambio di certificati/quote di emissione, il cosiddetto International Emission Trading, al fine di ridurre le emissioni di gas a effetto serra, gli ostacoli si sono da subito resi palesi, evidenziandone indirettamente gli aspetti critici.

In primo luogo, un sistema di scambio di certificati di emissione di tipo internazionale pone sicuramente dei problemi in parte diversi

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rispetto ai sistemi di scambio attuati nei singoli Stati facenti parte della comunità internazionale stessa. E quasi certamente, il problema più difficile da risolvere riguarda la “cornice” in cui è stato inserito il sistema, ovvero il quadro delle relazioni e del diritto internazionale.

Quest’ultimo non sembra essere stato in grado di garantire la corretta applicazione della struttura e di disporre degli strumenti necessari per obbligare i soggetti coinvolti a mantenere i propri impegni, una volta resisi conto che, con la firma del Protocollo, i loro interessi non sarebbero più stati tutelati individualmente ma talvolta sacrificati in virtù di un obiettivo più grande. Ciò può esser derivato dal fatto che, a ben vedere, nell’ordinamento internazionale si ha una coincidenza tra chi pone le regole e ne garantisce il rispetto, e chi a tali norme deve conformarsi; per tale motivo, per far sì che uno Stato faccia attivamente parte del sistema, impegnandosi nel raggiungimento dell’obiettivo finale di riduzione delle emissioni, è necessario garantirgli dei benefici, in assenza dei quali sarà evidente la sottrazione degli Stati, come dimostra la mancata ratifica degli USA al Protocollo, o quella ritardata della Russia, che lo ha ratificato, permettendone l’entrata in vigore, soltanto nel momento in cui l’Unione Europea si è impegnata a sostenerne la candidatura presso l’Organizzazione mondiale del commercio.

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Ricostruendo poi una panoramica dei contenuti del Protocollo di Kyoto, ne emergono le insite criticità.

Per quanto attiene la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra a livello internazionale, è chiaro che, per ottenere risultati soddisfacenti, sia dal punto di vista ambientale che economico, sarebbe stato necessario coinvolgere il maggior numero possibile di Paesi. Ragion per la quale, oltre che coinvolgere i Paesi industrializzati, il Protocollo avrebbe dovuto sin da subito interessare ed includere anche quelli in via di sviluppo, sia attraverso i meccanismi project based sia attraverso l’assunzione diretta di obblighi di riduzione delle emissioni, al fine di evitare che ad una riduzione delle emissioni prodotta dai Paesi industrializzati facesse da contrappeso un aumento da parte dei Paesi emergenti, come nella realtà è accaduto.

Nella prospettiva del coinvolgimento del maggior numero di Paesi possibile, una delle difficoltà principali della strutturazione del sistema di emission trading internazionale, messo a punto dal Protocollo, è da ravvisare nell’allocazione delle quote con il metodo grandfathering, secondo il quale l’assegnazione agli Stati doveva essere definita in base alle emissioni pregresse, ai bisogni di emissione maturati. Così facendo sono stati indubbiamente favoriti i Paesi industrializzati, già nella condizione di essere produttori di emissioni, e potendo così mantenere i propri livelli, a discapito dei Paesi in via di sviluppo che, dirigendosi

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verso il progresso, avevano sicuramente bisogno di vedersi determinati i livelli di emissione non basandosi su uno status quo ante, ma piuttosto sulla stima di quella che sarebbe potuta essere la loro crescita economica.

Poteva profilarsi come una soluzione alternativa l’allocazione delle quote per capita, ovvero basata sul rapporto tra la quantità di emissioni rilasciate in atmosfera e il livello di popolazione. In tal senso, sarebbero sicuramente apparsi avvantaggiati i Paesi in via di sviluppo, più densamente popolati, e ciò forse avrebbe portato ad una subitanea maggiore adesione da parte degli stessi. Oppure, quale altra soluzione, poteva essere scelta una modalità di allocazione legata al Prodotto Interno Lordo (PIL), che sicuramente avrebbe consentito di tenere in maggior considerazione la crescita economica dei Paesi in via di sviluppo ma che, probabilmente, non avrebbe garantito una riduzione delle emissioni, che sarebbero potute aumentare con l’aumento della produzione.

Tali problematiche esistenti sul piano internazionale si sono riversate inevitabilmente anche su quello comunitario, conducendo alla costruzione di un sistema di scambio europeo delle quote che, in parte, ha rispecchiato i problemi già riscontrati a livello internazionale.

Il sistema di Emission Trading europeo nasce, senza neppure attendere la ratifica del Protocollo di Kyoto da parte dell’UE, con la

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Direttiva 2003/87/CE, grazie alla quale viene messo a punto un vero e proprio mercato europeo, all’interno del quale possono essere scambiate le quote di emissione di gas a effetto serra.

La Direttiva, così come analizzata nell’elaborato, risulta lasciare senza soluzione innumerevoli problemi, primo tra tutti la mancata definizione delle modalità di allocazione delle quote. Quindi, se sul piano internazionale tale modalità viene definita, e risulta poi non essere stata sicuramente la miglior scelta per una progressione del sistema, sul piano europeo il legislatore tace, rimandando ai singoli Stati membri la scelta in tal senso. È palese che ciò ha creato una frammentazione del sistema, evidentemente dovuta alla oggettiva diversità delle disposizioni attuative dei singoli Stati membri.

Non da meno è il non aver definito la natura giuridica delle quote di emissione, né l’autorità nazionale competente ad assegnarle, richiamando ancora una volta il ruolo dei singoli Stati membri.

In secondo luogo, tra i problemi non affrontati dalla Direttiva in questione vi è senza dubbio quello del collegamento tra il sistema di Emission Trading internazionale, e dei relativi meccanismi project based, e quello comunitario.

La linea perseguita dal legislatore comunitario sembra aver disegnato un labirinto, dai confini ben definiti esternamente, i livelli di riduzione delle emissioni da raggiungere, ma senza indicazione di una

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via interna, uguale per ogni singolo Stato membro, da percorrere per giungere all’obiettivo di riduzione finale. Così, proprio come in un labirinto, ogni Stato ha cercato di trovare la miglior strada per giungere quanto prima “all’uscita”, alla determinazione di un sistema interno che facesse soffrire economicamente quanto meno possibile le proprie imprese.

L’Unione ha teoricamente creato e regolato un meccanismo di scambio di quote di emissione, ma ne ha praticamente rimesso poi, ad ogni singolo Stato membro, la concreta definizione pratica.

A poco è servita la successiva Direttiva di modifica Linking che, nel tentativo di armonizzare il sistema di scambio di quote di emissione, ha anch’essa involontariamente contribuito a creare ulteriori problematiche.

Sicuramente, grazie alla previsione del riconoscimento dei crediti derivanti dai meccanismi di progetto del Protocollo di Kyoto, i gestori degli impianti soggetti alla Direttiva Emission Trading hanno avuto a disposizione un maggior numero di alternative, vedendosi aperta la possibilità di realizzare parte delle proprie riduzioni delle emissioni di gas serra in altri Paesi dove i costi di abbattimento erano inferiori. Ciò ha comportato l’incentivazione della domanda di riconoscimento di crediti derivanti dai meccanismi project based, non essendo definito a livello comunitario un limite massimo di richieste di conversione.

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Tuttavia, però, i problemi risultano prima facie evidenti; i meccanismi di progetto hanno sempre presentato notevoli difficoltà nella determinazione esatta delle riduzioni di emissione ottenute, poiché basati su un’ipotetica previsione del livello di emissioni che si sarebbe avuto se il progetto non fosse stato realizzato, la cosiddetta baseline. Ma un tale calcolo si basa su numerosi fattori economici e tecnici incerti, per cui si è poi, nella pratica, materializzato quello che sembrava profilarsi solo come un lontano ma possibile pericolo: a diversi progetti si sono attribuiti un eccessivo numero di crediti, scoraggiando così le imprese degli Stati membri ad investire in ulteriori attività, come l’incremento dell’uso di fonti rinnovabili, e impedendo indirettamente il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni.

Inoltre, un accesso illimitato ai crediti derivanti dai meccanismi di progetto ha comportato l’outsourcing delle riduzioni delle emissioni al di fuori dell’Unione Europea, con la conseguente diminuzione di iniziative volte a ridurre le emissioni all’interno dell’Unione Europea.

Il legislatore comunitario si è reso conto, nel corso degli anni, delle falle del sistema Emission Trading, ed ha tentato di porvi rimedio con la Direttiva 29/2009/CE, creata al fine di rafforzare, estendere e migliorare questo stesso sistema e successivamente con l’adozione di ulteriori misure, quali il Pacchetto Clima-Energia “20-20-20” e il

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Quadro Clima Energia 2030, misure sicuramente ambiziose, al fine di adempiere al recente Accordo di Parigi, primo accordo giuridicamente vincolante sul clima mondiale.

I dati attuali mostrano come, nonostante le iniziative intraprese dell’UE, quest’ultima è assai lontana dal raggiungere gli obiettivi previsti.

Al parziale fallimento del sistema comunitario Emission Trading ha senza dubbio contribuito anche la mancanza di un reale coinvolgimento degli enti territoriali da parte degli Stati membri, come ha dimostrato l’esperienza italiana.

In tal senso, deve essere considerato che, in Italia, in seguito alla decentralizzazione amministrativa, al progressivo passaggio di competenze economiche e amministrative, gli enti territoriali, ed in particolare le regioni, si sono configurati sempre più come degli “amministratori delegati” delle risorse infrastrutturali, umane, finanziarie e non per ultime ambientali, ciò comportando la definizione di nuovi modelli di governo dello sviluppo locale.

I governi locali hanno avuto, sin dalla costruzione del sistema Emission Trading e dal suo recepimento a livello nazionale, la concreta necessità di implementare strategie sempre più innovative in materia ambientale, ma sono stati, almeno inizialmente, totalmente abbandonati dal governo centrale, che non ha ritenuto di dover coinvolgere gli enti

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territoriali per il raggiungimento degli obblighi di riduzione delle emissioni.

Solo nel 2012, con il Decreto Ministeriale Burden Sharing, il Governo italiano ha coinvolto le regioni nel progetto di riduzione, stabilendo per ciascuna di esse degli obiettivi intermedi di riduzione da raggiungere entro il corrente anno.

Le regioni, come dimostra l’esperienza della Regione Veneto, si sono impegnate ad integrare i propri strumenti di governo del territorio con la predisposizione di strumenti di contenimento delle emissioni, ricercando anche le giuste modalità per incentivare le imprese del territorio alla realizzazione di progetto finalizzati all’abbattimento delle emissioni di gas a effetto serra.

Ma, nella pratica, sono mancati e mancano ancora oggi degli strumenti, predisposti a livello nazionale, che consentano realmente a tutti gli enti territoriali, ed in egual misura, di integrarsi all’interno del progetto di riduzione delle emissioni, dando il proprio contributo.

Tra i meccanismi da adottare a livello nazionale, vi potrebbero essere degli investimenti massicci sulle imprese del territorio che intendano ridurre le emissioni, piuttosto che attendere che le singole regioni costruiscano dei sistemi di finanziamento, attraverso appositi bandi regionali, per queste stesse imprese, predisponendo anche un

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efficace sistema di monitoraggio dei finanziamenti, da affidare proprio alle singole regioni.

L’importanza del coinvolgimento degli enti territoriali è stata