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Le persecuzioni contro i monaci e gli intellettuali di ritorno

Di diversa natura fu invece il trattamento che il PCK riservò sia ai cambogiani che, dall’estero, rimpatriavano per contribuire alla causa rivoluzionaria, sia ai monaci buddisti, accusati di avere il potenziale per sovvertire l’ordine gerarchico della nazione. Cosa peraltro già riuscita alla casta monacale.

Alla fine dell’estate del 1975 circa duemila intellettuali khmer che si stavano formando in vari Paesi dell’Europa, Francia, Iugoslavia e Unione Sovietica su tutte, decisero di cominciare un contro esodo verso Phnom Penh71. Nel settembre dello stesso anno i leader del Partito Comunista della Kampuchea approvarono, non senza discussione, un possibile ritorno degli intellettuali in suolo cambogiano. Il problema del ruolo che questi avrebbero avuto nell’organigramma sociale inteso da Pol Pot era a quel tempo in discussione.

Alla stregua degli intellettuali che, alla fine dell’era di Lon Nol, avevano abbandonato il regime per unirsi alle forze di resistenza dei Khmer Rossi, sarebbero stati destinati al “lavoro manuale” che, significava, campi di rieducazione.

70 LIAI Duong(2006), op.cit., pg.33

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La ratio alla base di questa decisione non fu altro che quella della necessità, secondo la prospettiva di Pol e compagni, di riallineare i khmer che avevano vissuto nell’agio delle nazioni occidentali alla lotta che i comunisti cambogiani stavano portando avanti. Frattanto la ventilata possibilità dell’abolizione completa del denaro stava prendendo forma. Il diciannove settembre il Centro decise che era ora di ritirare la moneta dal commercio, per non incorrere nei problemi che stavano minando la credibilità della rivoluzione maoista in Cina. Proprio a Pechino infatti, i leader del PCC, stavano lamentando un ritorno inaspettato dell’ideologia capitalista proprio in seno alla rivoluzione culturale. Nelle parole di Pol Pot stesso:

“[…] i cinesi ora pagano stipendi ai dipendenti. Gli stipendi portano i germi di un possibile ritorno alla proprietà privata, perché possono essere usati per comprare questo o quello[…] Lo stesso Zhou Enlai sostiene che il possibile ritorno di una società capitalista al potere, in Cina, è ancora una possibilità concreta da scongiurare[…]”72.

I primi intellettuali interessati al ritorno, e approvati da Pol Pot, furono ufficiali del PCK che intendevano tornare per contribuire alla rivoluzione dei Khmer Rossi. Thiounn Mumm, lontano collaboratore del Circle Marxiste e amico di Saloth Sar, sarebbe tornato da Parigi nel settembre del 1975.

La retorica che trovavano di ritorno nella Kampuchea Democratica era univoca. Nelle parole di Khieu Samphan, che aveva il compito di accogliere gli intellettuali e introdurli alla nuova vita, la rivoluzione cambogiana, grazie soprattutto all’abolizione della moneta e all’evacuazione delle città, “[…] stava superando Lenin e surclassando

Mao[…]”73.

Quello che stava a cuore al Centro era anche sottolineare che la Kampuchea Democratica fosse una formazione indipendente, neutrale e che soprattutto non formava alleanze. Come si è già sottolineato, anche le evidenti ingerenze cinesi nella rivoluzione di Pol Pot, vennero liquidate come semplice simpatia per il movimento, negando di fatto gli aiuti internazionali di cui la rivoluzione aveva beneficiato.

Sulle condizioni di vita in cui si trovavano i cambogiani nel 1975, appena dopo l’evacuazione delle città, i dirigenti del Partito sostenevano che erano tali poiché era necessario ricostruire una nazione ex novo. La qualità della vita, secondo Sary, che raggiunse dei minimi storici proprio in quell’anno, avrebbe visto notevoli miglioramenti

72 KIERNAN Ben (1996), op.cit., pg.147 73 Ibidem, pg.150

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di anno in anno, man mano che la produzione dei frutti della terra sarebbe aumentata. Nonostante le difficoltà però la rivoluzione khmer era attualmente dieci anni avanti rispetto a quella cinese, nell’ottica ovviamente di Pol Pot, la rivoluzione cinese infatti era ancora ancorata all’uso della moneta e all’urbanizzazione spasmodica delle città. La rivoluzione khmer sarebbe stata, nelle parole di Chanda, “un modello per il mondo”. Le critiche sulla rivoluzione cinese sarebbero continuare lungo tutto il 1976, arrivando a questionare persino la natura della rivoluzione cinese in re ipsa.

Verso la fine di ottobre, venne istituita una commissione che avrebbe avuto il compito di guidare i nuovi arrivati. Questa era presieduta da Sin, un dirigente khmer che aveva a malapena imparato a leggere, che tuttavia teneva letture sulla rivoluzione cambogiana per oltre dieci ore al giorno, tentando di instillare nei nuovi arrivati l’inception della rivoluzione. Sin spiegava agli intellettuali di ritorno come essi appartenessero ad una classe sociale, come avessero beneficiato di privilegi acquisiti sul sangue dei lavoratori, e come avessero sfruttato classi sociali che non possedevano capitale e come necessitassero di essere rieducati. In una delle sue letture enumerava i nemici della Cambogia “[…]l’imperialismo e la CIA intendono distruggerci, dobbiamo combattere

lavorando duro”74. Curiosamente né Cina né Vietnam furono menzionati, nonostante le

criticità espresse a più riprese dai membri più in vista del PCK.

Come accade per la maggior parte dei regimi autoritari, la tendenza ad eliminare sul nascere ogni possibile forma di associazione sovversiva diventa un tratto fondamentale delle politiche di persecuzione. Accadde, ad esempio, con il divieto di creare associazioni filo cinesi nei primi momenti della rivoluzione khmer. Non solo razziali furono però le restrizioni imposte dai Khmer Rossi.

In Cambogia, come già affermato, i monaci buddhisti theravada costituivano, e costituiscono tutt’ora, uno dei centri caratterizzanti dell’opinione pubblica. A più riprese i monaci scesero a manifestare in piazza contro Lon Nol, contro gli americani, arrivando addirittura a criticare apertamente Sihanouk. Ovviamente i Khmer Rossi, fomentati dall’idea socialista, posero tra i primi dettami per poter controllare capillarmente la popolazione, la riduzione del peso politico dei monaci. Questo si tradusse nei fatti nella persecuzione dei monaci alla stregua degli intellettuali che si opponevano al regime. Oltre ai monaci anche la religione in sé fu colpita dalla mannaia della macchina da guerra di Pol Pot. I millenari templi di Angkor, vicini alla città di Siem Reap nel nord del Paese, vennero vandalizzati dalle truppe dei Khmer Rossi. Statue di Budda

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decapitate, bodhisattva cui vennero mozzati gli arti e incendi diffusi all’interno dei templi furono i segni lasciati dai Khmer Rossi sul viso del più antico, e famoso, centro del buddismo ortodosso.

La visione della casta monacale come un’entità politica in grado di sovvertire effettivamente l’ordine vigente non era però fantasiosa. L’immagine del monaco in fiamme per le strade di Saigon, avrebbe destato così tanto le coscienze dell’opinione pubblica mondiale, da essere presa ad esempio da Terzani come uno di quegli avvenimenti che possono cambiare le sorti di una guerra. Se infatti, come nessuno nega, gli anni Settanta hanno segnato l’ingerenza mediatica all’interno delle guerre, quell’immagine come poche altre, avrebbe mostrato il vero volto della missione americana in Vietnam.

In sostanza monaci e intellettuali formatisi all’estero vennero trattati dal regime in maniera analoga. Il timore che le classi educate potessero non condividere i dettami della rivoluzione cambogiana vinse sulla possibilità che queste due classi sociali potessero effettivamente essere d’aiuto alla rivoluzione. In un tratto che sarebbe diventato distintivo della Kampuchea Democratica, la meritocrazia o la capacità sarebbero sempre state posposte alla fedeltà e alle relazioni familiari. Thiounn Mumm rimane l’unico caso certificato di un’esponente di una di queste due classi, ad aver fatto carriera all’interno del PCK. Curiosamente era nipote di Pol Pot.