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Piera Condulmer

Nel documento Cronache Economiche. N.007-008, Anno 1976 (pagine 78-82)

ricostruzione del caseggiato, anche se di ciò non abbiamo che una sola documentazione. D'altra parte quei due blocchi angolari, cui fanno capo i lati del grande quadrato nel quale è inserito il primo cortile, non possono che richiamare quelli dei quartieri della fanteria allora vicini alla Porta Susina, che costituiscono ancora oggi un elemento architettonico del settore di Valdocco, a Torino. La Mandria perciò si caratterizza fin dal suo inizio, come il suo nome indica, e impropria è la definizione di castello che si dà a quella parte di fabbricato riservata all'ospitalità signoriale per soggiorni venatori. Tale carattere si accentuò con Vittorio Emanuele II, il più anticonformista dei re, non solo d'Italia, che ne volle fare addirittura una privacy molto borghese, rinunciando ad ogni residuo di rappresentatività, e ricavando il suo appartamento, da dividere con la Bela Ròsin e i figli da lei avuti, dal sottotetto, le cui finestrine furono ampliate ed allungate fino a farne delle porte-balcone, affacciantesi su terrazzini. Questi delimitati da ringhiere di un'ipotetica linea ba-rocca, inserite tra un pignori e l'altro coronanti le paraste che scandiscono la facciata, hanno finito di movimentare un poco la costruzione caserme-sca, e conferirle una sua fisionomia più intima e cordiale, una riplasmatura che si conforma al nuovo sovrano e abitatore che amava quel costo-lone dominante la zona circostante.

La Mandria non era stata attuata al servizio o pel capriccio di leziosaggini settecentesche, e an-che le cacce an-che vi si praticavano erano cacce violente in una natura non addomesticata, piena d'insidie tra scoscendimenti e acquitrini e boschi intricati, vero paradiso viceversa dell'appassio-nato cacciatore; e padrona dell'ambiente era la società rurale, non dei cavallieri ma dei cavallari, degli stallieri, dei bovari, dei coloni tutti, di co-loro che rendevano possibile la prosperità dell'im-presa, che andava arricchendosi di sempre nuovi valori economici; oggetto d'arte e d'ammirazione e d'orgoglio non era il mobile o il soprammobile dalla firma d'artista prestigioso, ma il cavallo

dal-le lunghe reni, daldal-le forme perfette, daldal-le presta-zioni eccezionali, era il bel bovino Chevrolet o Limousine prodotto da pazienti selezioni, era l'ab-bondante vello delle pecore biellesi; i concerti erano orchestrati dalle migliaia di uccelli dalle infinite varietà canore, e le rappresentazioni nel teatro di verzura erano date dalle folleggiami fan-tasie di eleganti daini, di cervi, di cinghiali, di volpi, di lepri saettanti, di puledri scavezzati, di code ondulanti di fagiani, in un edenico paradiso di libertà assoluta.

L'uomo, elemento e fattore di simile paesag-gio, sapeva interpretarlo con discrezione: a una a una crebbero all'ombra delle piante, o nelle ra-dure, o lungo uno dei tanti ruscelli e torrentelli che scorrono pigri o irrequieti, le varie cascine rispondenti alle varie necessità agricole e zoo-tecniche, ed ecco la Grangetta, la Rubbianetta, la Giacometta, la Cerbiatta, la Peppinella e via via, roride anche nel nome. Aziende agricole complementari per l'allevamento del bestiame, ma che si trasformarono ben presto in fattorie di produzione ed anche di trasformazione del pro-dotto agricolo.

Ma il maggiore destinatario di tutto era il ca-vallo, l'allevamento e la selezione del cavallo. Quanto costava allevare un cavallo? Gli Archivi Riuniti di Torino hanno custodito molti Conti

delle Cassine eli S. M. e tra esse della Mandria

della Venaria e della Mandria di Chivasso: pos-siamo stralciarne uno del 1776, per esempio, che annota che per un cavallo da carrozza occorreva « un rubbo di fieno al di, mezzo di paglia, tre coppi di biada, otto libre d'impaglio », e quasi uguale era il fabbisogno di un cavallo da sella. La media annua di vettovagliamento per cento cavalli da carrozza si aggirava sui 26.600 rubbi, per 200 cavalli da sella sui 40.000 rubbi. Gli stipendi al personale e la manutenzione delle scu-derie sulle 11.037 lire; poi c'erano da aggiungere « I Conti del dovuto alli Marescaldi per manu-tenzione ferri, e medicinali alli cavalli ».

Con questa costante caratteristica la Mandria giunge fino a quasi la metà dell'ottocento, per cui il Bertolotti nella sua Descrizione di Torino può annotare che « alla Regia Mandria c'era da con-templare l'ordine, la disciplina, e le savie e assi-due cure con cui questa equina colonia viene governata. Essa è fornita di stalloni e di cavalli delle razze più reputate.

Intanto stava introducendosi la moda delle corse dei cavalli in città, e celebre fu la prima disputata tra porta Susina e Piazza Castello; la

Mandria si trovò pronta alla bisogna con esem-plari che furono definiti non inferiori a quelli inglesi; s'indissero concorsi ippici, dopo che si era fondata la Società Ippica Piemontese; nel-l'ippodromo della Regia Mandria si svolse la corsa dei cavalli nella primavera del 1846, di cui rimane il ricordo nel bell'album disegnato da Felice Cer-niti e pubblicato a Torino da Bogliani.

Ma con l'avvento di Vittorio Emanuele II l'amore per la Mandria si fa geloso ed esclusivo, e cosi per i cavalli in mezzo ai quali egli avrebbe voluto passare tutta la sua vita. Ingrandisce il re la tenuta per inglobare altre varietà morfologiche di terreni, poi compie quella recinzione di qua-ranta chilometri circa, forse unica nel suo genere, per non avere più da temere per i suoi cavalli, mentre nulla essi avrebbero perduto della loro libertà nei circa 5000 ettari cui era giunta la tenuta.

L'impostazione della struttura della costruzione iuvarriana consentiva di ampliarla senza recare offese al paesaggio: nuovi cortili sempre più ampi si sarebbero potuti aggiungere al primo con il suo carattere di antica corte ospitante le varie attività artigianali per i bisogni interni dell'azienda. Negli altri cortili, nei quali è persino entrato il revival architettonico del neo-gotico di moda, le varie stabulazioni, al primo piano gli alloggi per i vari addetti e famiglie. Per il re la Mandria era il più autentico regno, nel quale si rifugiava appena poteva sottrarsi alle spire di quello poli-tico cui la sorte lo aveva inchiodato. Un memo-rialista francese ci dice che il re abitava di rado il palazzo di Torino, che la sua residenza era la Mandria « vrai caprice de souverain, (est) un rendez-vous de chasse, un buen retiro, une ferme, un haras, tout ce qu'on voudra (...) Un fort odeur de tabac est imprégné aux murs sans parler d'un p a r f u m d'ècurie. Quoit d'étonnant? Le roi cou-chait au-dessus de ses vieux serviteurs, s'endor-mant au bruit des chevaux heurtant et mordant Ieurs mangeoirs ».

La Mandria però doveva anche essere il più importante serbatoio di cavalli da campo, da im-piegarsi nella prossima guerra, guerra che ne avrebbe divorati in gran numero, addestrati nella tenuta e durante le grandi manovre nelle vicine vaude canavcsane di Lombardore, di S. Mauri-zio, di Ciriò.

Si può dire che l'economia della tenuta fosse in funzione degli animali che vi crescevano entro, non solo dei cavalli, ma di tutta la famiglia d'ani-mali cui boschi e brughiere e monti davan

ri-cetto: « Dappertutto i collicelli sono popolati di querce, la terra di erica e tribbio, nelle vallette giunchi e le sale nell'umido delle paludi ». Ma doveva essere autosufficiente. Peraltro crescendo a dismisura il fabbisogno per l'alimentazione dei ca-valli, i coltivi vennero chiusi da alte siepi per impedire che gli animali selvatici li divorassero, specialmente il cinghiale che vuole stravivere; recingendo campi e prati, si sottraeva molta della vegetazione spontanea che essi producevano alla alimentazione del resto della famiglia animale, che doveva ricorrere a quella meno gradita delle querce e del tribbio. Il motivo di questo non gradimento era l'eccesso di tannino contenuto in quei vegetali, per cui daini, cervi comuni, ca-prioli, antilopi cominciarono a risentirne con una moria allarmante, mentre dal canto loro i volatili si beffavano allegramente delle recinzioni impin-guendosi di grani. Allora queste colture furono soppresse, trasformando dove possibile i campi in prati, o si lasciarono incolti. Ma privati delle cure dell'uomo i terreni s'inselvatichirono, si riforma-rono le paludi con quella tipica vegetazione di giunchi, sale ed erbacce; la terra privata del nutri-mento dei concimi ben poco offre più ai poveri animali. Intanto anche il bosco degrada perché scapezzato, scorticato da lepri e conigli in estate e da grandi mammiferi in inverno. Il parco natu-rale aveva una sua armonia, un suo equilibrio, che fu rotto col volerne trasformare una parte in terreno agricolo. Il Comba, fedelissimo del re ed esperto imbalsamatore dei più belli esemplari di uccelli (che formavano l'unico adornamento del francescano alloggio sovrano), redige nel 1873 una desolante tabella della crescente moria degli animali selvatici nella tenuta, e conclude sulla impossibilità di far coesistere il parco con la te-nuta agricola. Queste preoccupazioni non distol-sero il re dal completare la rete viaria del suo paradiso terrestre in 170 chilometri di strade, di permettersi qualche capriccetto architettonico in padiglioni di caccia, o di idilli campestri per la Ròsin, divenuta moglie morganatica (dietro con-siglio del ministro Menabrea); la Bizzarria, il Bel-vedere, non disturbano il paesaggio, mentre que-sto fu arricchito dalla costruzione di laghi e la-ghetti, dove anche la varietà ittica potesse far parte della grande famiglia animale della Man-dria, pascendosi delle acque dello Stura e di sor-genti: ecco perciò pesci persici, salmoni, tinche, anguille, carpe prosperare nel loro ambiente equoreo e silvestre.

Natura, varietà di suoli e di forme, di flora,

di fauna: terreni antichi dal diluvium all'allu-vium, terre rosse, sabbie di tipo lacustre; la Man-dria giace sui terrazzamenti dello Stura di Lanzo e del Ceronda, le cui stesse acque li hanno reci-procamente erosi. Si hanno altitudini che vanno dai 254 metri ai 400 metri, con una vegetazione di bosco misto di latifoglie submontano che va dal castagneto al querceto, al carpineta, con fras-sini, noccioli, pini, abeti rossi, mentre l'azienda forestale ha inserito il pioppetto, i vivai forestali, ed essenze esotiche quali quercus rubra e pinus strobus. Lungo i 70 chilometri di corsi d'acqua ontani, salici, robinie e un interessantissimo sot-tobosco. Al limite dei boschi la grande varietà dei boleti; nelle brughiere più erbose fiorisce il narciso poeticus, la molinia cerulea, la viola ca-nina silvestre, nei luoghi umidi il gladiolo palu-stre, negli acquitrini la ninfea alba, il myosotis palustre, la menta acquatica.

Sotto certi aspetti questa tenuta, questo com-prensorio con valori paesistici e ambientali pro-prii, con apporti storici di valori colturali e cul-turali connaturatisi esteticamente con gli elementi originari, rappresenta un bene di civiltà, ma insieme può essere considerato un pezzo di ar-cheologia naturale, che presenta ancora aspetti di una flora destinata a scomparire, o a subire le trasformazioni (non dico distruzioni) inerenti al-l'azione anche involontaria dell'uomo.

Passata di proprietà, in parte purtroppo lottiz-zata, la tenuta ha perduto il suo carattere unita-rio, però nella maggior parte ha mantenuto la sua fisionomia di natura naturalis; pur con le ine-vitabili modificazioni connesse con i nuovi criteri di conduzione di aziende agricole e casearie, que-ste sono state perfettamente digerite dal prepo-tente paesaggio naturale, in modo che la Mandria può essere ancora considerata quel polmone di verde di cui il cittadino di Torino e della conurba-zione del polo torinese, ha bisogno per riossi-generare il suo sangue, e per questo la Regione Piemonte lo ha acquisito al demanio pubblico. Ma se laboriosa è stata la soluzione dell'acquisto e del reperimento dei fondi, più difficile si pre-senta ora per la Regione la conciliazione tra la disponibilità pubblica del parco e il rispetto e la salvaguardia dei diritti delle fiorenti aziende eco-nomiche ivi installate; salvaguardia dalla irruenza e dalla possessività di un pubblico non ancora sufficientemente educato, non dico all'amore, ma al culto della natura ed al rispetto del patrimonio pubblico soprattutto, spesso considerato come roba di nessuno, di cui sia lecito fare man bassa.

È questo il pericolo connesso con la publicizza-zione di un patrimonio che ha già una sua validità funzionale ed economica, quanto mai preziosa in questi tempi di colpevole crisi delle campagne e di depauperamento agricolo e zootecnico, rappre-sentante perciò un valore da salvaguardare, alme-no per un minimo di risipiscenza di buon senso.

Fruizione di un bene pubblico bisogna che cessi dall'essere sinonimo di depredazione dello stesso, a tutti i livelli; questa è condizione di cre-scita civile e democratica, è questione di educa-zione morale oltre che civile, di quella morale che per averla bandita dal vocabolario democra-tico e dal costume, ha portato agli aspetti aber-ranti della vita di oggi.

La natura è stata sempre la grande palestra dell'uomo, auguriamoci che il riscoprirne i valori sia di buon auspicio; ma perché questo non ri-manga un atto isolato, ritorni bensì nel costume, è alla scuola che bisogna rivolgersi, dalla materna

all'università, perché riprenda, almeno in questo senso, quella funzione educativa alla quale sembra avere abdicato, sensibilizzando i bambini e i gio-vani ai valori della natura, ad una presa di co-scienza dell'interdipendenza insopprimibile tra città e campagna, tra problemi agricoli e problemi industriali, ai grandi valori della civiltà rurale, al rispetto del prato o del bosco offertosi a noi come un bene; bene che dopo una breve sosta spesso è lasciato come un relitto o un immon-dezzaio; rispetto del mondo animale, della sua libertà e della sua cattività, soggetto e non og-getto, che non deve essere spaventato o eccitato senza scopo.

Educazione dell'uomo attraverso la natura: forse fean Jacques Rousseau non è del tutto tra-montato, e forse sta ripetendosi nella nostra so-cietà tecnologica, quella che fu in lui, illuminista, la reazione all'illuminismo depauperatore del-l'uomo.

Un po' più pluralistica

Nel documento Cronache Economiche. N.007-008, Anno 1976 (pagine 78-82)