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Severino Briccarello

Nel documento Cronache Economiche. N.007-008, Anno 1976 (pagine 55-69)

La vita della Comunità europea, nonostante le crisi ripetute del processo di integrazione, di ori-gine ora socio-politica, ora economico-finanziaria, è caratterizzata da un numero crescente di ini-ziative volte alla comprensione del fenomeno europeo e al tentativo di comporre le vertenze e i conflitti di interesse che si manifestano, a diversi livelli, nei vari ambienti coinvolti dall'« avan-zata » dell'idea europea.

Nell'ambito di queste iniziative possono essere fatte rientrare a buon diritto le due conferenze tripartite tenute sotto gli auspici del consiglio delle Comunità europee, che hanno visto riuniti a Bruxelles (il 18 novembre 1975) e a Lussem-burgo (il 24 giugno 1976) i rappresentanti dei sin-dacati, degli imprenditori e dei governi dei paesi membri della CEE, insieme con esponenti della commissione.

La prima conferenza tripartita (Bruxelles, 18 no-vembre 1975).

La prima conferenza tripartita (quella del no-vembre dello scorso anno a Bruxelles) portava come titolo: « Situazione economica e sociale della Comunità e prospettive ».

Era praticamente il primo tentativo ufficiale di mettere a confronto e impegnare in prima per-sona i cosiddetti « partners sociali », in varia mi-sura responsabili della situazione socio-economica e politica della CEE, e quindi delle sue pro-spettive.

A quel momento, come lo stesso documento presentato dalla commissione delle Comunità europee dichiarava, i paesi membri della Comu-nità si trovavano di fronte a gravi difficoltà eco-nomiche e sociali.

Le loro economie erano ormai da mesi in una fase recessiva di gravità senza pari dalla fine della seconda guerra mondiale.

La conseguenza più pericolosa di tale recessio-ne, soprattutto per le sue ripercussioni sul piano

sociale e politico, sarebbe stata il peggioramento della situazione dell'occupazione. Le statistiche comunitarie davano, per il settembre 1975, 4 mi-lioni e 500.000 di disoccupati (circa il doppio rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente) e tale cifra sarebbe ancora stata destinata ad aumentare nell'inverno, soprattutto per effetto di fattori stagionali.

Evidentemente la Comunità stessa correva in quella situazione, causa di tensioni e di squilibri, rischi non indifferenti, soprattutto in termini di avanzamento del processo di integrazione, poiché l'egoismo nazionale e la tattica del « ciascuno-per-sé » avrebbero potuto avere il sopravvento e annullare il principio della solidarietà, riconosciu-ta del resto come condizione indispensabile per una risposta veramente efficace alla crisi.

D'altra parte, e questo valeva all'epoca della prima conferenza tripartita come oggi, gravi peri-coli possono sorgere all'interno degli stessi Stati membri, soprattutto in momenti di emergenza o di revisione delle strutture comunitarie, ove i gruppi sociali preferiscano rispondere alle sfide del momento per mezzo della confrontazione piut-tosto che con la cooperazione.

La commissione CEE assegnava quindi come compito alle parti convenute per la conferenza la denuncia dei pericoli prima ricordati, il tenta-tivo comune di identificazione dei problemi prio-ritari ed il suggerimento di possibili soluzioni.

Il documento della commissione presentava inoltre la situazione economica cosi com'era nel-l'autunno del 1975, suggerendo però che il valore medio comunitario degli indicatori economici con-siderati dovesse essere valutato con cautela, date le situazioni tra loro assai differenziate dei paesi membri.

Un appunto particolare veniva fatto poi sul tema della solidarietà, già accennata. Consideran-do l'aumentata interdipendenza fra i soggetti della Comunità internazionale (e gli stati membri della CEE in particolare) il criterio della

solida-rietà si veniva rivelando tanto più importante in quanto, tra gli altri inconvenienti sollevati dalla crisi, si dava anche una sorta di esasperazione degli scompensi regionali all'interno della CEE, con conseguenti problemi di « ripartizione dei sacrifìci » a livello nazionale, nonché accresciute ineguaglianze regionali e settoriali.

A questo punto, insieme con quello di solida-rietà, emergeva anche il criterio, non disgiunto dal precedente, di concertazione, condizione indi-spensabile per il rilancio della situazione econo-mica comunitaria. Tale situazione veniva inqua-drata dallo stesso documento CEE in una serie di vincoli a livello internazionale quali:

1) situazione della distribuzione internazio-nale del lavoro;

2) condizioni di approvvigionamento delle materie prime e dei prodotti energetici;

3) liberalizzazione degli scambi, in partico-lare verso i paesi sottosviluppati.

In questo quadro, la commissione CEE propo-neva alcune misure atte a porre sotto controllo l'inflazione e gli squilibri delle bilance dei paga-menti mediante azioni a breve e a medio termine.

Tra le prime venivano indicate:

1) l'incremento della spesa pubblica (ove possibile, e in particolare in quei paesi carenti di infrastrutture sociali e civili, avendo però parti-colare riguardo al pericolo di far salire l'infla-zione a tassi più elevati);

2) una serie di azioni settoriali, in partico-lare per il settore energetico e l'ecologia;

3) un programma di aiuti alla disoccupa-zione, recante in primo piano lo sviluppo della formazione professionale;

4) riduzioni degli orari di lavoro, da pro-grammare con attenzione per evitare di indurre una ulteriore riduzione della produttività.

Tra le azioni a medio termine si proponevano invece:

1) orientamento della domanda globale, al fine di modificare i criteri di utilizzazione delle risorse (per cui sarebbe stato però necessario rag-giungere prima una maggior indipendenza nel settore energetico). La necessità di indurre una propensione alla riduzione dei consumi privati non avrebbe dovuto però portare a misure ad ef-fetto immediato, per non accelerare la recessione;

2) mantenimento degli equilibri sociali e loro ripristino in caso di squilibrio, tramite una « moderazione » dei profitti delle imprese e degli incrementi di salario. Evidentemente, per avere qui il consenso dei lavoratori, li si sarebbe dovuti convincere che la volontà era effettivamente di operare per una maggior giustizia sociale, per mi-gliorare i servizi sociali, per proteggere l'impiego.

L'azione così proposta non poteva inoltre pre-scindere dalla necessità di risolvere il non facile problema di mediazione fra priorità sociali e ten-sioni inflazionistiche, problema che rende sempre incerto, e comunque non identificabile che a livel-lo di singoli paesi, il ruolivel-lo della finanza pubblica: se occorra cioè espanderla per fini sociali o conte-nerla per ridurre l'inflazione.

Ali'incirca sugli stessi punti del documento CEE veniva articolato quello della CES (Confe-derazione europea dei sindacati).

A proposito della situazione economica, questo documento identificava quattro cause generali della crisi:

1) la stagnazione generale nel mondo; 2) la negativa strategia mondiale delle so-cietà multinazionali;

3) l'instabilità monetaria ed il trasferimento incontrollato dei capitali;

4) l'aumento del prezzo delle materie prime, ed in particolare del petrolio.

Secondo il documento della CES queste cause spiegavano l'inflazione galoppante in Europa, che aveva indotto i governi ad attuare politiche defla-zionistiche con conseguente incremento della di-soccupazione.

Le richieste di azione a breve termine da parte dei sindacati europei si riassumevano quindi nella creazione di nuovi posti di lavoro e nell'attua-zione di una politica selettiva degli investimenti che creasse impieghi qualificati, con conseguente intervento degli stati nell'orientamento degli in-vestimenti stessi, dando priorità a quelli diretti alla costruzione o al miglioramento di infrastrut-ture e al soddisfacimento di bisogni collettivi.

In concreto, le azioni da intraprendere a breve termine venivano così indicate dalla CES:

1) diminuzione dei tempi di lavoro; 2) controllo degli straordinari;

3) lotta contro il ricorso al lavoro clan-destino;

4) proroga della scolarità ai 16 anni; 5) miglioramento della formazione pro-fessionale;

6) protezione dei lavoratori in caso di licen-ziamenti collettivi ed individuali;

7) controllo dell'organizzazione del lavoro da parte dei lavoratori;

ed inoltre:

1) controllo dei lavoratori sui finanziamenti pubblici, sugli intermediari finanziari e le società di portafoglio;

2) creazione di comitati regionali tripartiti per l'intervento attivo nella politica dell'occu-pazione;

3) miglioramento degli uffici di collocamento e coordinamento della loro azione a livello europeo;

4) coordinamento degli interventi del Fondo Sociale Europeo.

La CES chiedeva infine:

— una migliore ripartizione dei redditi ed una politica fiscale più favorevole ai redditi più bassi; — la rapida organizzazione di un sistema di sorveglianza dei prezzi e di controllo dei circuiti di distribuzione;

— l'armonizzazione verso l'alto dei tempi di garanzia della disoccupazione sia totale che par-ziale, nonché dei tassi di pensionamento (genera-lizzando inoltre il loro collegamento all'evolu-zione dei salari).

Per completare il quadro delle posizioni e delle proposte emerse in merito alla situazione econo-mica della CEE ed alle sue prospettive alla confe-renza tripartita di Bruxelles, restano ancora da riportare brevemente le osservazioni contenute nella nota elaborata d e l l ' U N I C E (Unione delle in-dustrie della Comunità europea) che, oltre ad essere la più complessa, è anche quella che con-tiene i maggiori spunti polemici nei confronti delle altre parti in causa.

Innanzitutto, la valutazione della gravità della situazione economica veniva fatta prima che in termini di disoccupazione, in termini di caduta della produzione (— 1 0 % circa dal settembre

1974 al luglio 1975) mentre, in contrasto con il deterioramento del mercato del lavoro, si os-servavano aumenti dei salari nominali

corrispon-denti ad una stabilizzazione, e talvolta ad un aumento, dei salari reali.

Naturalmente, non essendo cresciuta la quan-tità di beni disponibili, in effetti essendo anzi diminuita, secondo I ' U N I C E , una parte di tali aumenti avrebbe avuto carattere artificiale, se non fittizio. Talché, distribuire un surplus di ricchezza inesistente conduceva direttamente al rialzo dei prezzi, spiegando cosi come l'inflazione sia con-tinuata a tassi elevati nonostante la diminuzione della domanda.

Per le imprese, in tale situazione si tratterebbe, per la quasi totalità dei casi, non di sviluppare la produttività ma di evitare che essa diminuisca troppo. Resterebbero quindi aperte loro quattro possibilità:

1) aumentare i prezzi (nei limiti del possi-bile e ove consentito);

2) licenziare una parte di lavoratori per pro-durre a minor costo;

3) aumentare l'indebitamento, nella misura in cui gli oneri finanziari non abbiano già rag-giunto un livello tale oltre il quale le banche si rifiutino di concedere prestiti;

4) limitare le scorte, e più ancora, ridurre gli investimenti. È chiaro che quest'ultima solu-zione provocherà tensioni e strozzature qualora la domanda dovesse riprendere.

Secondo la nota della Associazione degli im-prenditori europei non esisterebbe altra via che il fallimento. Ridurre la redditività delle imprese in proporzioni più elevate della riduzione del red-dito nazionale è un'operazione che ha ripercus-sioni sull'inflazione e sulla disoccupazione; inol-tre, porta ad ipotecare l'avvenire.

Se si confronta questa affermazione d e l l ' U N I C E

(che ricorda l'adagio secondo cui i profitti di oggi sono gli investimenti di domani), con quella del documento CEE in cui si parla di « moderazione dei profitti delle imprese » (e degli incrementi di salario) e con quella della dichiarazione della CES ove si chiede una « politica selettiva degli investimenti », si nota come una limitazione dei profitti delle imprese, per quanto giustificata come misura di mantenimento degli equilibri sociali, abbia un notevole contenuto demagogico ma scar-so valore operativo, nella misura in cui tale limi-tazione si può tradurre, a lungo andare, in un controllo indiretto degli investimenti, ma di tipo quantitativo e non già qualitativo, come gli stessi

sindacati europei hanno del resto esplicitamente richiesto nel loro documento.

L'esame che della crisi facevano nel loro docu-mento gli imprenditori europei parte dalla consi-derazione del rapido aumento della domanda e della produzione, caratteristico degli ultimi mesi del 1973: fase di alta congiuntura che, in difetto di investimenti sufficienti nel periodo anteriore, aveva dato luogo a fenomeni classici di squilibrio: insufficienti capacità produttive, tensioni inflazio-nistiche, penurie diverse, reali o artificiali, e altri. La maggior parte dei governi si sarebbe trovata quindi nella necessità di adottare misure restrit-tive al fine di frenare l'incremento della domanda.

La stasi si sarebbe poi trasformata nel 1974 in recessione per due cause principali: la prima, riconducibile all'azione fatta dai governi per « di-fendersi » dalla crisi stessa, diretta nello stesso senso e realizzata a intervalli brevi (in pratica contemporaneamente), moltiplicando cosi gli ef-fetti delle singole decisioni; la seconda più nota, consistente nella crisi energetica che — osserva-zione importante — assumerebbe le sue dimen-sioni più reali ove venga messa in relazione con un'altra crisi ad essa anteriore: quella del sistema monetario internazionale.

Anche il documento UNICE, a proposito di quantificazione della situazione economica, de-nuncia la scarsa attendibilità dei valori degli indi-catori economici comunitari in quanto « medie » dei corrispondenti valori nazionali, non solo per-ché le situazioni nei singoli Stati sono diverse, ma anche perché differenti sono i metodi di rile-vamento e di calcolo.

Occorrerebbe quindi una classificazione più accurata degli indicatori economici della Comu-nità accompagnata da una maggior cooperazione tra i paesi membri della CEE, il cui primo passo dovrebbe essere quello di migliorare la circola-zione delle informazioni relative alle politiche per l'occupazione adottate nei singoli paesi.

Infine, un'istanza specifica veniva fatta dal-I'UNICE per una maggior coerenza, cioè per un superamento della fase del coordinamento puro e semplice, verso il raggiungimento di una visione globale dei problemi, onde meglio valutare le inte-razioni della politica economica e di quella sociale.

La parte generale del documento portava in chiusura la seguente frase: « L'idea forse più semplice, ma anche la più importante, sta nel fatto che non è possibile fare tutto contempora-neamente.

Sarebbe un'illusione disastrosa credere che si possa allo stesso tempo aumentare notevolmente i salari e le indennità di disoccupazione, conce-dendole con maggior liberalità e inoltre abbre-viare la durata del lavoro. Ciascuna di queste mi-sure, che può essere considerata auspicabile in se stessa secondo certi criteri, ha un suo prezzo e bisogna che la società ne sia consapevole se accetta di pagarlo » (')• Inutile rilevare come tale dichiarazione fosse in aperto contrasto con le azioni a breve termine richieste dai sindacati.

Gli imprenditori europei passavano quindi al-l'esame dei due settori della politica economica più importanti, quello dell'occupazione e quello degli investimenti.

Con particolare riguardo all'occupazione si de-nunciava come:

1) una protezione abusiva dei lavoratori finirebbe col ritorcersi contro di essi;

2) sia evidente che se le procedure di licen-ziamento diventano sempre più difficili da mettere in pratica, gli imprenditori possono essere scorag-giati dall'assumere nuovi lavoratori;

3) l'interdizione dei licenziamenti finirebbe col trasformare il diritto al lavoro, nozione ispi-rata a considerazioni sociali rispettabili, in un diritto al mantenimento del lavoro, nozione che ha carattere antieconomico;

4) infine, togliendo all'imprenditore l'auto-nomia della determinazione della quantità di mano d'opera che gli è necessaria, gli si toglie una delle sue principali prerogative.

Ciò nonostante, si riconosceva nel documento UNICE che il problema dell'occupazione riveste, con quello degli investimenti, fondamentale im-portanza nell'ambito di una crescita equilibrata del sistema economico comunitario, e si indica-vano, per favorirne la soluzione, tre azioni:

— la prima, da condurre a livello dei lavora-tori, consistente nell'adattare la formazione pro-fessionale alle richieste del mercato del lavoro;

— la seconda, da condurre presso gli impren-ditori incoraggiandoli a creare nuovi impieghi;

— la terza, sul piano generale, consistente nel favorire la ripresa dell'attività economica, attra-verso la creazione delle condizioni per un'espan-sione durevole.

(') Proiet de noie UNICE pour la Conférence Tripartite Eco-nomique e sociale, Bruxelles 22-10-75, pagg. 10-11.

Stante il fatto che la ripresa della crescita eco-nomica è l'obiettivo su cui occorre trovare l'intesa tra i governi e gli altri partners sociali, la possi-bilità di enunciare punti di vista comuni su tale problema sarebbe stato, secondo gli imprenditori, un passo avanti non indifferente.

Tale affermazione dell'UNiCE sembrava un esplicito invito alle altre parti in causa affinché cercassero un consenso intorno ai rimedi suggeriti, che erano poi quelli tradizionali destinati a stimo-lare la crescita provocando un incremento della domanda, e cioè: alleggerimenti fiscali, aumento delle spese in bilancio, mantenimento dei tassi di interesse a basso livello.

Tali misure di breve periodo, del resto, si sarebbero dovute prendere nel rispetto delle se-guenti condizioni:

1) che si calcoli con estrema attenzione il tasso di « riflazione »;

2) che ci si sforzi di diminuire i costi: 3) che si adatti il dispositivo, messo in opera per sostenere o ristabilire la domanda, ai singoli paesi, caso per caso;

4) che la domanda globale non venga sti-molata in maniera indifferenziata.

Altre azioni da intraprendere per la ripresa avrebbero poi potuto essere gli aiuti all'investi-mento privato, mentre per altro non si potrebbe negare un ruolo quantomeno di regolazione agli investimenti del settore pubblico, sempre che per essi lo stato non sia costretto ad aggravare oltre misura la sua situazione di indebitamento.

I metodi cosi' indicati dall'UmcE (il cui docu-mento è, tra l'altro, quello ispirato al maggior rigore scientifico in termini economici), pur essen-do indubbiamente efficaci, non garantiscono però un ristabilimento durevole degli equilibri econo-mici. A tale scopo, e per evitare gravi ricadute, occorre costituire un « regime appropriato »: ri-formare le strutture senza cedere però al miraggio sempre più affascinante del dirigismo; stabilire metodi di programmazione non coercitiva.

Si vive oggi in un'economia dove l'indebita-mento, ed in particolare quello delle imprese, ha raggiunto livelli eccessivi ai quali la crescita ri-schia di essere bloccata, a meno di poter finan-ziare correttamente gli investimenti necessari.

In tale situazione gli imprenditori europei indi-cano due tipi di soluzione:

1) miglioramento delle strutture dei bilanci delle imprese;

2) definizione della ripartizione del reddito nazionale tra salari e profitti, in modo che le im-prese possano contare su una redditività suffi-ciente a rilanciare gli investimenti.

L'unica alternativa a dette soluzioni potrebbe consistere in una progressiva sostituzione delle imprese da parte dello stato per realizzare gli investimenti che quelle non avrebbero più i mezzi per intraprendere. Ma lo stato stesso potrebbe farlo solo indebitandosi a sua volta, oppure aumentando i suoi prelievi sul reddito nazionale, inasprendo l'imposizione fiscale, che non potrebbe non colpire i salari.

Con questo, si è presentata in modo assai sche-matico la posizione dei partners sociali rappre-sentati alla conferenza tripartita di Bruxelles.

La ragione per la quale si è tornati all'esame di questi documenti, dopo che una successiva con-ferenza è stata tenuta nel giugno scorso sta nella constatazione che, lungi dall'essere stati risolti, i problemi presentati allora si sono in certa misura complicati nel quadro dell'evoluzione economica e socio-politica europea e internazionale più re-cente, senza contare che i lavori della conferenza di Lussemburgo sembrano aver preso lo spunto proprio dai temi fondamentali messi in luce a Bru-xelles nel novembre 1975, e cioè l'occupazione, la crescita equilibrata, la solidarietà e la coope-razione nell'ambito della CEE per la soluzione dei problemi che la situazione internazionale pone ai paesi membri e alla Comunità stessa in quan-to tale.

Avendo ora presente il quadro di riferimento delle posizioni proprie ai diversi partners sociali nella Comunità, i punti (pochi) su cui è stato espresso un accordo di massima e le azioni (molte) su cui un accordo è stato — ed è — difficile da raggiungere, si possono analizzare brevemente i lavori e i risultati della conferenza di Lussem-burgo e dare poi ad entrambi gli incontri una col-locazione nell'ambito della evoluzione socio-poli-tica in Europa e nel sistema internazionale.

La seconda conferenza tripartita (Lussemburgo, 24 giugno 1976).

L'impostazione dei lavori della conferenza tri-partita di Lussemburgo è stata diversa da quella della conferenza precedente. Questa volta, infatti, la commissione CEE si è fatta promotrice dei la-vori, compiendo, per cosi dire, il primo passo, e i partners sociali comunitari sono stati chiamati ad esprimere opinioni e formulare proposte sulla

base di una nota precedentemente elaborata dalla commissione stessa sul tema « Il ricupero della piena occupazione e la stabilità nella Comunità ».

La nota CEE inizia subito col mettere in guar-dia dai rischi che corre la lenta ripresa

Nel documento Cronache Economiche. N.007-008, Anno 1976 (pagine 55-69)