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PRESENTATI DAGLI AUTORI

Nel documento Cronache Economiche. N.007-008, Anno 1976 (pagine 84-88)

Un po' più pluralistica l'economia piemontese

PRESENTATI DAGLI AUTORI

M. NIGRO, Giustizia amministrativa - Voi. di 14 X 21,5 cm, pp. 348 Il Mulino, Bologna, 1976 -L. 5000.

Il libro, che qui si presenta, trae origine da un corso di lezioni tenute nella Facoltà di giurisprudenza dell'Univer-sità di Firenze nell'anno 1971-1972. Il corso è stato minuta-mente rivisto, attentaminuta-mente (si spera) aggiornato e larga-mente integrato: in questa revisione ed integrazione, oltre-tutto, l'autore non ha potuto non tenere conto dei suoi scritti successivi, nei quali alcune delle idee espresse nelle lezioni avevano trovato svolgimento e precisazione, cosic-ché il libro attuale molto si differenzia, per dimensioni e contenuto, dall'iniziale abbozzo. (...)

Si spiegano con essi il tono discorsivo, talvolta diffusa-mente discorsivo, dell'esposizione e soprattutto l'imposta-zione storico-problematica di tutta (o quasi) la trattal'imposta-zione. Come si dirà f r a poco, non sono state soltanto ragioni didat-tiche a consigliare tale impostazione, m a esse h a n n o indotto ad accentuarla o a portarla più decisamente allo scoperto. Lo scopo didattico originario spiega anche l'incompletezza della trattazione. Rimarrebbe deluso chi scambiasse il libro per un manuale espositivo dell'intera giustizia amministra-tiva. Quel che si è inteso fare, invece, è di fissare ed ana-lizzare i punti centrali e caratterizzanti del nostro sistema di giustizia amministrativa, sia p u r e cercando di ricondurre ad essi il maggior numero possibile di istituti di questa giu-stizia, sf da offrire anche un quadro sufficientemente ampio del suo concreto articolarsi. (...)

Si è detto ora dell'impostazione storico-problematica della trattazione. È convinzione dell'autore che essa rispon-da oltre che alle essenziali caratteristiche dell'insegnamento universitario, alla natura stessa della materia trattata. La giustizia amministrativa — qualunque giustizia amministra-tiva, non solo quella italiana — è storia e problema, anzi è storia in quanto problema (o complesso di problemi) ed è problema in quanto storia. (...)

Queste non sono certo delle notazioni peregrine, ma si sono volute ricordare per mettere in evidenza alcune diret-tive fondamentali, alle quali il libro è ispirato, e che da quel connotato essenziale della giustizia amministrativa derivano.

Anzitutto, la grande importanza riconosciuta alla giuri-sprudenza. Anche questa non è certo una novità. Ma a me pare sia da mettere chiaramente in rilievo che l'opera crea-tiva della giurisprudenza nella fissazione dei lineamenti della giustizia amministrativa vada attribuita non tanto e non solo alla insufficienza del diritto scritto quanto proprio alla storicità e problematicità di tale giustizia. Laddove un set-tore della vita giuridica è dominato dalla incertezza e dalla instabilità che sono proprie di simili situazioni, il ruolo

della giurisprudenza è, per forza di cose, del tutto predo-minante.

Ma il ruolo assorbente della giurisprudenza — e le ra-gioni che glielo hanno assegnato — comportano una ulte-riore conseguenza, che costituisce un altro dei fili condut-tori del libro, comportano cioè l'esistenza nella giurispru-denza stessa di uno stato di tensione fra più principi e più valori «infliggenti, ad uno dei quali a volta a volta viene accordata prevalenza o f r a i quali si tenta, in vario modo, un compromesso. (...)

È proprio in relazione a questo che si rivela — ed è l'ultima cosa che volevo dire — la funzione della dottrina, cosi come io la vedo. Di fronte al tipo di giustizia ammini-strativa esistente nel nostro paese, di fronte alle gravi insuf-ficienze che essa denuncia, non penso che la dottrina si possa limitare ad una condanna totale e assoluta di questa realtà: oltretutto, come ho detto altra volta, questa con-danna sarebbe ingiusta, perché molti dei limiti della nostra giustizia amministrativa e in genere di ogni giustizia ammi-nistrativa, non nascono nell'ordine processuale m a vi sono indotti da quello sostanziale.

Ma, a parte ciò, la condanna totale del sistema — se vuol risultare coerente — è anche rifiuto di applicarsi a migliorarlo nelle parti in cui esso è suscettibile di migliora-menti, mentre, se non si può fare una rivoluzione, non è giusto né pratico vietarsi qualunque tentativo di riforma. N e m m e n o penso che sia producente cercare di « rico-struire » il sistema in m o d o diverso (e migliore) da come lo ha costruito la giurisprudenza, dedicandosi soprattutto a individuare il punto in cui essa ha abbandonato la retta via e si è addentrata nella selva di contraddizioni, oscurità, insormontabili ostacoli cui oggi si aggira. In questo campo come in ogni settore di vita, la storia non si cancella e non le si può chiedere di ricominciare da capo.

Più moderatamente, io vedo il compito della dottrina, in una siffatta situazione, nel creare, sul piano teorico (meglio ancora se in quest'opera sarà aiutata anche dal legislatore!), le condizioni per la migliore utilizzazione da parte della giurisprudenza — la più ampia e penetrante, la più esau-stiva del « bisogno di tutela giudiziale » della cui soddisfa-zione si preoccupa l'art. 24 Cost. — dei pochi e, tutto sommato, rozzi strumenti che il nostro diritto mette a di-sposizione dell'utente della giustizia amministrativa.

S. HOLLAND, Capitalismo e squilibri regionali - Voi. di 11 X 18 cm, pp. 447 Laterza, Bari, 1976 -L. 4000.

Questo libro ha per oggetto il capitalismo e i pro-blemi regionali. Di per sé, ciò è meno consueto di quanto dovrebbe essere. Una parte troppo ampia della teoria

re-gionale astrae dal sistema nel quale emergono i problemi regionali, mancando di vedere la causa sottostante dello squilibrio regionale nel capitalismo stesso.

Svariati fattori h a n n o condotto a questo stato di cose. Uno dei più importanti è stato l'emergere dell'originaria teoria regionale dai modelli neoclassici di equilibrio auto-matico dell'allocazione delle risorse. Un altro è stato la con-dizione di ristagno in cui la teoria regionale è rimasta nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, mentre il corpo principale della teoria economica si concentrava sulla teoria generale dell'occupazione. Fin dal 1945, G u n n a r Myrdal e Francois Perroux avevano messo in evidenza la natura squilibrata della distribuzione regionale. Ma, parti-colarmente negli Stati Uniti, ciò non è riuscito a vincere l'influenza della teoria dell'equilibrio e di quelle svariate tecniche di analisi che dipendevano da premesse di equili-brio. L'evidente successo della teoria keynesiana dell'occu-pazione ha fornito un sostegno all'ipotesi secondo cui una serie di compromessi e di accorgimenti di politica regionale (incentivi e sussidi alle imprese) avrebbe assicurato un qual-che genere di equilibrio regionale in condizioni di piena occupazione.

Questa combinazione di teoria keynesiana e neoclassica è stata messa sempre più in discussione dall'ostinatezza dei problemi regionali nelle economie capitaliste mature. È divenuto chiaro che le cause dell'ineguaglianza regionale sono più p r o f o n d e di quanto l'analisi superficiale delle fri-zioni e delle imperfefri-zioni nei modelli neoclassici di equili-brio automatico ci porterebbe a ritenere. È anche evidente che l'intervento dello Stato p e r migliorare le infrastrutture economiche e sociali o per concentrare gli incentivi in poli di sviluppo non riesce ad invertire lo squilibrio cumulativo nei modelli di crescita regionale di Myrdal o di Perroux. Le ragioni principali dell'inefficacia dell'intervento indi-retto sono analizzate in dettaglio nel corso del libro. Esso mostra che le premesse basilari della teoria di Myrdal e di Perroux sono fondate su ipotesi limitate o false, il che conduce a politiche di sviluppo inefficaci. Esso mostra an-che an-che i cambiamenti dell'impresa capitalista moderna in-tervenuti dagli anni Cinquanta h a n n o introdotto dimensioni nuove allo squilibrio regionale che rendono urgente un inter-vento statale più diretto per risolvere o alleviare i problemi regionali. Ciò vale particolarmente per la tendenza verso il capitale monopolistico e multinazionale che ha stabilito un nuovo settore mesoeconomico tra le impostazioni ortodosse convenzionali della macroeconomia e della microeconomia. In Italia, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, queste im-prese mesoeconomiche d o m i n a n o attualmente la metà supe-riore del settore regionalmente più mobile dell'economia: l'industria manifatturiera moderna. II loro potere di espan-dersi in senso multinazionale, invece che multiregionale, in-debolisce l'intervento indiretto mediante incentivi e riduce la possibilità dello Stato capitalista moderno di imbrigliare le loro risorse per lo sviluppo delle regioni arretrate.

Il capitolo finale del libro suggerisce politiche per im-brigliare il potere dell'impresa mesoeconomica come base di una nuova programmazione regionale. Fondandosi sull'ana-lisi precedente, esso mostra che la costituzione di nuove imprese pubbliche nel settore mesoeconomico è una condi-zione sempre più necessaria per rovesciare lo squilibrio cu-mulativo di Myrdal e per stabilire poli di sviluppo validi del tipo di Perroux nelle regioni arretrate. È soltanto a que-ste condizioni che la p r o g r a m m a z i o n e microeconomica a livello regionale si potrà dimostrare efficace in f u t u r o , apren-do la possibilità di portare impianti di piccola dimensione nelle aree di disoccupazione persistente.

Questo studio è il risultato di un decennio di ricerche in tema di economia e politica regionali condotte in Europa occidentale e negli Stati Uniti.

C. BARBERI s, La società italiana. Classi e caste nello

sviluppo economico - Voi. di 14 X 22 cm,

pagine 355 Franco Angeli Editore, Milano, 1976 -L. 6000.

Estrarre dal passato elemento dopo elemento significa però anche astrarlo dalla realtà in cui esso riceveva la sua luce più vera. A distanza di tempo ogni confronto si pre-senta quanto mai problematico: cosi l'Italia attuale è solo di nome paragonabile a quella di cento o cinquant'anni prima. (...)

Ciò premesso, il presente volume giunge alle seguenti conclusioni:

1) il declino della borghesia — ossia della classe che accumula profitti rischiando capitali propri — ha com-portato una assai limitata correzione del privilegio. Nella assai più ricca Italia di oggi, dove crescente è il potere del-l'industria di Stato e dove sempre più massicci sono gli strati dei funzionari, i redditi rimangono quasi altrettanto sperequati che nella povera Italia dell'immediato dopoguer-ra, dove la legge era ancora dettata dalla proprietà privata. Tra il 1948 e il 1972 la quota spettante al 20% delle fami-glie italiane più agiate si è ridotta dal 48% al 44% del reddito nazionale: ma anche quella spettante al 20% più povero è scesa dal 6% al 5 % ;

2) il sempre più pronunciato inserimento dei buro-crati e di altri lavoratori dipendenti nelle classi di reddito più alte, da cui vengono scalzati i rappresentanti della libera impresa, dissocia i due tradizionali elementi su cui ogni classe f o n d a il suo potere: il danaro e il prestigio, iden-tificato nella casta ossia nella condizione professionale più 0 meno nobile. Con i suoi molti proprietari poveri ed i suoi molti dipendenti ricchi, l'Italia d'oggi vive perciò in regime di «classe v a c a n t e » . Nel 1948, al vertice della ricchezza — rappresentato dal 6 % della popolazione italiana — c'era-no quattro borghesi (imprenditori, professionisti, benestanti) per ogni lavoratore dipendente (dirigenti, impiegati, operai). Nel 1972, per ogni borghese ci sono due dipendenti, o quasi;

3) il nuovo potere di classe che di giorno in giorno si profila, impersonato dalla burocrazia (industriale, mini-steriale, e persino sindacale), affonda la sua base ideologica nell'istruzione allo stesso m o d o che il vecchio potere, im-personato dalla borghesia, riposava sulla proprietà. Lo svi-luppo economico e il conseguente allargamento dei ruoli impiegatizi rendono minimi, dall'una all'altra generazione, 1 rischi di decadenza, avviando — almeno in questa fase — un ricambio sociale di tipo indolore;

4) la lotta del proletariato ufficiale (operai) è rilan-ciata da un nuovo tipo di sottoproletariato (giovani, donne, meridionali, rurali) la cui stessa presenza è protesta: non sempre però allineata alla tradizionale azione di classe;

5) l'analisi del sistema economico italiano mostra l'importanza del contributo tuttora fornito dai « piccoli pri-vati » (agricoltori, commercianti, albergatori, artigiani, indu-striali di una ditta non anonima) alla formazione del red-dito nazionale, che da essi proviene in misura certo supe-riore al 5 0 % . Nella stessa industria la loro incidenza è del 4 6 % perché indubbia è la loro capacità di suscitare la par-tecipazione dei dipendenti alle proprie iniziative. A con-centrarsi in complessi di sempre maggiore dimensione sono d u n q u e soprattutto le altre aziende, giù grandi ed anonime; 6) il nesso tra la presenza dei « piccoli privati » e lo sviluppo economico acquista un rilievo particolare nel settore turistico in relazione ai caratteri di massa assunti dalle vacanze, voce ormai f o n d a m e n t a l e nei consumi

ita-liani. Scongiurando la temuta colonizzazione da parte del grande capitale, anche di Stato, tale presenza suscita il mondo rurale ad una nuova vita economica che supera, ma nel contempo integra, la fase agricola;

7) l'apporto dei « piccoli privati » alla formazione del reddito nazionale non si accompagna al godimento di una pari quota di potere economico e politico. Nel sistema produttivo italiano essi finiscono per rappresentare una « cultura subalterna » e quindi per giocare un ruolo non diverso da quello che f u proprio dei contadini al tempo in cui la società urbana stava ancora dominando (e non liquidando, come oggi) la società rurale. Tale subordina-zione dei « piccoli privati » alle grandi centrali di potere, pubbliche o private, è sottolineata dalla diffusione dei con-tratti di produzione stretti tra superfirme e industrie satelliti.

Da queste osservazioni della realtà contemporanea, che delimitano il campo della ricerca scientifica, possono pren-dere spunto diverse, e persino opposte, interpretazioni poli-tiche. Chi crede che u n a società sia soprattutto ordine non mancherà di dedurre — dalla attuale dissociazione tra il reddito e la casta — la necessità di porre termine al più presto al regime della classe vacante. Chi teme di veder cadere, con la presente incertezza, anche quella libertà che abbiamo si adopererà, al limite, per prolungare la soprav-vivenza di un sistema in cui la generale debolezza garan-tisce l'inefficacia del comando.

Quale delle due ipotesi sia destinata a prevalere dipen-derà in gran parte dalle scelte del proletariato. Esso ha oggi disponibili due alleanze: quella dei dirigenti e degli impie-gati — in nome del comune rapporto di lavoro dipendente — e quella dei « piccoli privati », al fine di realizzare una società che rivaluti il lavoro manuale, o quanto meno l'im-pegno personale, ostico ai nuovi signori degli uffici. Di queste due alleanze il sociologo può ritenere la prima più probabile, anche per la naturale mediazione esercitata dalle avanguardie operaie trasferite nella dirigenza sindacale: ma anche la seconda è possibile ed altre soluzioni con essa. Quale sia poi auspicabile è una differente, non pertinente, questione.

In ogni caso i « piccoli privati » saranno, nei prossimi anni, il nodo della democrazia italiana.

cana, cosi' come è stata descritta da Alfred D. Chandler in Sirategy and Structure.

Sono stati, inoltre, studiati tutti i fattori ambientali che hanno ritardato in passato l'industrializzazione dell'Italia e, in particolare, quelli che hanno influito maggiormente sul-l'impresa italiana dopo il 1945, cioè il passaggio ad una economia aperta caratterizzata da una concorrenza in con-tinuo aumento, dall'evoluzione della domanda del mercato e delle tecnologie. Sono stati discussi gli effetti sulle stra-tegie aziendali di fattori quali il regolamento giudirico delle società in Italia, il regime fiscale, il mercato finanziario e, infine, le caratteristiche delle aziende a partecipazione sta-tale. Si è giunti alla conclusione che l'impresa industriale italiana ha mutato sostanzialmente la sua strategia e la sua struttura negli ultimi venticinque anni, grazie alla diversifi-cazione dei mercati ed al sempre minor numero di aziende monoprodotto rispetto a quelle diversificate. La prevalenza di queste ultime ha reso sempre più diffusa l'adozione della forma organizzativa multidivisionale, struttura che fino al 1950 era pressoché sconosciuta, mentre nel 1970 era in uso nel 48% delle aziende. Le aziende produttrici di bevande, di motori, le compagnie petrolifere, le aziende del settore della carta — che presentano tutte qualche aspetto in co-mune, non ultimo un grado di integrazione relativamente alto — hanno mostrato una certa riluttanza alla diversifi-cazione al di là dello stadio pluriprodotto con prodotto prevalente, mentre le aziende operanti nei settori della cera-mica, chimico-farmaceutico, articoli da toilette, gomma, tessili, elettronica, meccanica ed editoria hanno manife-stato una tendenza evolutiva verso un mercato a prodotti correlati.

Queste aziende presentano capacità tecnologiche e di mercato trasferibili. Le aziende dei settori alimentare ed estrattivo non hanno rivelato nessuna netta tendenza verso la diversificazione.

Nelle caratteristiche interne delle strutture multidivisio-nali di imprese a diverso grado di diversificazione sono state notate alcune differenze, differenze osservate anche tra le strutture multidivisionali americane ed italiane; parti-colarmente l'assenza di u n a forma di compenso dei dirigenti variabile in relazione alle misure della prestazione e del ri-sultato ottenuto. Infine, sono state discusse le implicazioni a livello governativo, industriale e culturale della suddetta diversificazione e divisionalizzazione.

R. J. PAVAN, Strutture e strategie delle imprese

italiane - Voi. di 13,5 X 21,5 cm, pp. 317 - Il

Mulino, Bologna, 1976 - L. 8000.

Il presente lavoro è u n o studio sull'evoluzione delle strategie e delle strutture delle 100 maggiori imprese indu-striali italiane, considerando il volume delle vendite dell'an-no 1969. Adottando una metodologia sviluppata da Léonard Wrigley, l'impresa è stata classificata in base alla diversi-ficazione dei suoi prodotti-mercati e cioè: monoprodotto, pluriprodotto con prodotto prevalente, a prodotti correlati, a prodotti non correlati. La struttura organizzativa formale della gestione (indipendentemente dalla formula giuridica) è stata distinta in: funzionale, holding, e multidivisionale. Quest'ultima è stata suddivisa in alcune importanti cate-gorie definite in relazione all'attività, alle differenze di pro-dotto e alla attività svolta a livello internazionale. L'analisi è stata condotta relativamente agli anni del periodo post-bellico, prendendo, in particolare, come parametri di riferi-mento gli anni 1950, 1960 e 1970.

Le affermazioni e ipotesi formulate da Bruce R. Scott nel suo lavoro Stages of Corporate Development Model sono state verificate per l'ambiente italiano. Inoltre, l'espe-rienza italiana è stata messa a c o n f r o n t o con quella

ameri-R. Ruozi, Inflazione, risparmio e aziende di credito Voi. di 17,5 X 25 cm, pp. 894 - Giuffrè, Milano,

1976 - L. 18.000.

Il presente volume riguarda gli effetti dell'inflazione sul mercato del credito e sulla gestione delle aziende che in esso operano istituzionalmente offrendo e d o m a n d a n d o pre-stiti e talvolta creando anche moneta. (...)

11 presente volume sostiene e dimostra dapprima la vali-dità delle tesi che affermano il carattere strutturale dell'in-flazione contemporanea, fenomeno di lungo periodo che va interpretato come la conseguenza monetaria del comporta-mento dei gruppi sociali, in conflitto quasi permanente fra di essi per migliorare la propria partecipazione alla distri-buzione del reddito e della ricchezza nazionali. Si tratta di un'inflazione generalizzata, che riguarda non solo le econo-mie cosiddette capitalìstiche, ma anche quelle socialiste, in cui tuttavia assume forme e dimensioni particolari. Si tratta inoltre di un'inflazione che si diffonde internazionalmente per motivi ben precisi, anche connessi con la struttura del sistema monetario internazionale attuale. Il fenomeno del-l'inflazione importata, tuttavia, non deve essere

sopravvalu-tato e l'inflazione strutturale rimane soprattutto un fatto interno, che come tale deve essere di competenza dei go-verni dei singoli Paesi.

Tale inflazione ha conseguenze importanti su alcuni grandi settori della vita economica e finanziaria. Nel volume si esaminano innanzi tutto quelle sullo sviluppo, sulla redi-stribuzione del reddito e della ricchezza, sull'occupazione delle forze di lavoro, sulle imprese industriali, sul mercato mobiliare, sulle compagnie di assicurazione, sull'agricoltura, sulla pubblica amministrazione e su altri settori di minore importanza.

L'analisi dimostrerà che le conseguenze suddette sono generalmente negative e che prevedibilmente nel complesso è più probabile che non ci siano contemporaneamente vinti e vincitori nell'inflazione, ma che ci siano purtroppo solo vinti. N o n si riesce infatti a trovare un solo settore del-l'economia e della finanza — almeno fra quelli esaminati — che tragga vantaggio netto dal perdurare dell'inflazione.

Quest'ultima deve quindi essere considerata un feno-meno da combattere. Nel volume si esaminano perciò i principali strumenti solitamente adottati per combattere l'in-flazione, come la politica monetaria, quella fiscale, il con-trollo dei prezzi e la politica dei redditi.

L'analisi metterà in evidenza come questi strumenti tra-dizionali, p u r validi per combattere un'inflazione che fosse un mero fenomeno congiunturale di breve periodo, non sono più sufficienti per combattere l'inflazione strutturale. (...)

Si tratteranno quindi i rapporti fra l'inflazione e le rifor-me socio-economiche, sempre con particolare riferirifor-mento alla realtà italiana.

Il discorso culminerà nella constatazione che solo dei veri e propri piani di stabilizzazione monetaria — che inclu-dano provvedimenti tradizionali e riforme socio-economi-che — sono oggi in grado di combattere l'inflazione

Nel documento Cronache Economiche. N.007-008, Anno 1976 (pagine 84-88)