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Post colonialismo e il pensiero di genere

1. Implicazioni di genere nelle teorie dello sviluppo

1.2 Donne e Teorie dello Sviluppo: intrecci e implicazioni

1.2.4 Post colonialismo e il pensiero di genere

Nell'analisi degli intrecci tra genere e sviluppo grande rilievo assumono gli studi post coloniali della fine degli anni Settanta. Questi si discostano profondamente dagli approcci precedenti poiché, da un lato, si concentrano sulle dinamiche interculturali di dominazione o discriminazione e non sulle mere disuguaglianze di genere intra- culturali, dall’altro, criticano l’universalità astratta di alcune categorie del femminismo occidentale.

“Non è un caso che la consapevolezza della dimensione essenzialmente politica e processuale della differenza, nelle sue declinazioni tanto materiali quanto di costruzione discorsiva, incontri gli sviluppi probabilmente più significativi nella

riflessione sul pensiero di genere e nella critica all'universalità astratta di alcuni canoni del femminismo occidentale: qui, la capacità di decentrare globalmente ogni logica binaria e ogni discorso potenzialmente assoluto o assolutizzante conferisce al pensiero di genere post coloniale una piega politica trasversale che problematizza e arricchisce il discorso sulla differenza sia del femminismo che del post colonialismo” (Mezzadra, Rahola, n. 23, 2003: 10).

Con post colonialismo non si vuole intendere una fase postuma al colonialismo a seguito della sua cessazione, ma piuttosto la contestazione al dominio e all'eredità coloniali. Gli studi coloniali più che rappresentare una vera e propria scuola di pensiero rappresentano un insieme variegato e interdisciplinare di analisi critiche che pongono al centro dell’indagine quei soggetti subalterni che in modi differenti sono stati marginalizzati dal dominio culturale ed economico dell’Occidente. Viene sottoposta a revisione radicale la visione del mondo ricevuta in eredità dall’umanesimo e dall’illuminismo, in cui l’uomo maschio, bianco e occidentale era considerato predominante.

“Si apre anche la strada al più arduo e ambiguo lavoro e impegno che consiste nell’indebolire e dislocare quella tendenza della conoscenza e del potere che, con le sue tecniche e tecnologie per catalogare e riordinare la realtà, ha storicamente mondeggiato il mondo per creare le categorie e le ‘verità’ di centro e periferia, progresso e sottosviluppo, civiltà e primitivismo, ‘Primo’ e ‘Terzo’ mondo, Occidente e resto del mondo” (Chambers, 2001: 190).

La teoria femminista, così, come quella post-coloniale, prova a mettere insieme l’analisi dell’universale con quella dei particolari dell’oppressione femminile nei diversi paesi. L’apporto della critica post-coloniale al dibattito femminista avviene attraverso le donne afroamericane le quali evidenziano la necessità di concentrare le analisi su un soggetto non solo femminile ma anche colonizzato, permettendo così l’introduzione, accanto al genere, del problema della razza e dell’etnia.

Chandra Mohanty accusa le femministe di costruire una donna monolitica del Terzo mondo come oggetto di conoscenza. La “donna di colore” è oppressa sia dai colonizzatori che dai colonizzati.

Se il soggetto subalterno è cancellato dalla storia coloniale, scrive la Spivak, femminista post-coloniale,

“la traccia della differenza sessuale è cancellata doppiamente. Se nel contesto della storia coloniale il subalterno non ha storia e non può parlare, la subalterna in quanto donna è ancora più profondamente in ombra.” (Spivak, 1988)

Nel suo saggio Can the Subaltern Speak?, Spivak si domanda se la donna abbia la possibilità di esprimere la propria voce o sia invece sempre rappresentata in modo distorto. La studiosa descrive, a questo proposito, la pratica funeraria indù del Sati, diffusa nei secoli XVIII e XIX in India, in cui le vedove vengono immolate insieme al cadavere del marito. La moglie era vista dai mariti come un peso, poiché non contribuiva all'economia familiare, ed era ritenuta una proprietà del marito. Pertanto alla morte di quest’ultimo la vita della donna non aveva nessun valore e la prospettiva del suicidio era l'unica logica. Nel 1829 gli inglesi, ponendosi come civilizzatori, liberatori e portavoce delle donne vittime dell’oppressione del patriarcato locale, abolirono questa pratica. In totale antitesi gli uomini indù sostenevano con forza e convinzione la tesi secondo cui la vedova stessa fosse felice di suicidarsi nel rogo del marito.

Per Spivak in nessuno dei due casi veniva rappresentata la “vera” voce della donna che scompare in questo scontro tra tradizione e modernizzazione, patriarcato e imperialismo. La posizione di soggetto della donna nativa viene costruita dall’occidente e serve solo a rinforzare il prestigio dell’intellettuale-interprete- benevolente o i valori laici e nazionalisti della nazione.

“I subalterni non possono parlare. Non c’è alcuna virtù nel comporre liste della spesa in cui per bontà d’animo si facciano figurare le donne. Il modo di rappresentare le donne non è cambiato. Per questo le donne intellettuali hanno un compito a cui non possono venire meno con facilità”. (G.C. Spivak, 1998, 308).

“Il colonialismo ha eroso molte culture matrilineari o senza pregiudizi nei confronti delle donne ed ha intensificato la subordinazione delle donne nei paesi colonizzati.” (Loomba, 2006: 167).

Le donne rappresentano, dunque, i veri bersagli dei discorsi colonialisti e nazionalisti in quanto la loro sottomissione e l’appropriarsi del proprio lavoro è cruciale per il funzionamento tanto delle colonie quanto delle nazioni post coloniali.

La critica femminista ha di fatto riprodotto gli assiomi dell’imperialismo in quanto, pur riconoscendo la discriminazione attuata ai danni delle donne bianche, ripropone la stessa chiave di lettura ai danni delle donne del Terzo Mondo. Questo rischio si palesa infatti nel riproporre una dicotomia, questa volta tra donne bianche e donne “altre”. Secondo la Spivak l'interessamento degli intellettuali occidentali nei confronti del soggetto coloniale finisce per essere “benevolente”: il loro atteggiamento mentale e il loro punto di vista coincidono con la narrazione imperialistica che promette al nativo/a

la “redenzione”. Senza voler screditare il lavoro importante giocato dalle donne bianche nell'abolizione della schiavitù oppure nel dare inizio alle riforme coloniali, la Spivak vuole sottolineare come anche questi ruoli progressisti si accompagnano a pregiudizi su gerarchia razziale.

“Dobbiamo imparare a lavorare insieme in silenzio”. Con questa frase Spivak conclude il suo appello alle femministe post coloniali durante la conferenza all’International Women’s University nel 2000: “invece di parlare del subalterno l’intellettuale post coloniale deve imparare a parlare al subalterno”. Attraverso il femminismo post colonialista sembra aprirsi la strada ad un impegno politico e ad una sorellanza internazionale differente che parte dalla “decostruzione” del privilegio occidentale, dall’ascolto piuttosto che dal parlare al posto di e, soprattutto, dal “situarsi”, vale a dire dal prender consapevolezza del luogo da cui si parla.

La sociologa Kum-Kum Bhavnani ha sintetizzato i punti principali attorno ai quali si è sviluppato il discorso post-coloniale.

“Una domanda di visibilità e inclusione delle donne di colore negli scritti femministi, che ha portato ad un maggior riconoscimento e a una spinta ad analizzare le differenze razziali ed etniche; una esplicitazione delle implicazioni di tale analisi sia sul piano storico che dal punto di vista della rappresentazione sociale dei fenomeni con una attenzione particolare al tema della differenza; più di recente, un insieme di argomentazioni che suggeriscono nuovi confini per gli studi femministi e affermano con forza la necessità, per studi che rivendicano un loro peso, di prendere in considerazione non solo la soggettività delle donne di colore che vivono in Occidente, ma anche delle donne del Terzo Mondo” (Kum Kum Bhavnani, 2004: 3).

Sono numerose le studiose e attiviste che hanno criticato il femminismo occidentale per avere a lungo ignorato le donne nere o per averne promosso una rappresentazione distorta, che pone in primo piano la loro subordinazione ai codici familiari e patriarcali delle comunità di appartenenza. Tra queste spiccano Bell Hooks e Angela Davis e Hazel Carby.

La prima ha definito The feminine Mystique di Betty Friedan, testo sacro del femminismo americano come un esempio di narcisismo, insensibilità, sentimentalismo e auto indulgenza, poiché considera di grande rilevanza politica “specifici problemi e dilemmi della classe agiata delle casalinghe bianche”, ignorando la stragrande maggioranza delle donne le cui condizioni di vita differiscono profondamente da quelle oggetto di tali preoccupazioni (Bell hooks, 1984: 33-34).

limitati a prendere in considerazione le donne nere soltanto nel loro ruolo di vittime (Davis, 1982: 212-35; Carby, 1982: 212-35). Chandra Talpade Mohanty individua diverse figure che rientrano in questo stereotipo. Scrive:

“Le donne del Terzo Mondo in quanto gruppo o categoria sono automaticamente e inevitabilmente definite religiose (praticamente non progressiste) rivolte alla famiglia (in altri termini tradizionaliste), rozze dal punto di vista giuridico (in altri termini non consapevoli dei loro diritti), analfabete (ignoranti), e prive di relazioni sociali (in altri termini arretrate) e talvolta rivoltose (in altri termini: il loro paese è in stato di guerra, e le poverette devono combattere!). Questo è il modo in cui viene prodotta la differenza del Terzo Mondo” (Mohanty, 2003: 40).

La reazione delle donne nere o di altre minoranze nei riguardi dei modelli di analisi dominanti ha avuto per lo più due esiti, per certi versi opposti. Da un lato ha generato una maggiore consapevolezza della complessità dei processi che concorrono alla costruzione della propria identità e anche della possibilità della compresenza di più identità in conflitto tra loro (Anzaldua, 1990). Dall'altro ha dato vita a una esaltazione della alterità e ad un utilizzo in chiave conflittuale di simboli di appartenenza etnica e di particolari canoni estetici fino a “colonizzare l'eterogeneità materiale e storica della vita delle donne nei paesi del terzo mondo, in tal modo producendo rappresentando una composita e unica categoria di donna del Terzo Mondo” (Mohanty, 1984: 53).

Il lavoro di decostruzione di queste studiose ha avuto impatto soprattutto in ambito letterario, ma è stato rilevante anche per gli studi sullo sviluppo.

1.3 Gli approcci allo sviluppo: il sistema delle Nazioni Unite e gli studi di Caroline