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La prima crisi energetica

Le forti tensioni createsi per la nascita dello Stato di Israele, non riconosciuto da tutti i paesi arabi e specialmente dai vicini (Egitto, Giordania e Siria), portarono a vari scontri di frontiera: nel 1956 era scoppiata la crisi di Suez, dove l'Egitto si era opposto all'occupazione del Canale di Suez da parte di Gran Bretagna, Francia e Israele appunto. Nel frattempo in Egitto era salito al potere Nasser, anch'egli deciso a nazionalizzare il Canale di Suez, ma questa decisione mise di nuovo in movimento la coalizione «anglo- israelo-francese volta a occupare il Canale e liberarlo»3, dando così il via alla guerra dei

Sei giorni del 1967. «In seguito a questa brevissima guerra, Israele conquistò il Sinai, le alture del Golan a nord e la Cisgiordania, cioè quella parte di Giordania a occidente del fiume Giordano e Gerusalemme est»4.

La conseguenza di questa prima vittoria fu un forte sentimento di potenza che pervase l'intero paese, il quale si sentiva ormai sicuro e invincibile, ma nonostante gli enormi guadagni territoriali conquistati e l'aumentata profondità strategica acquisita la vittoria non aveva per niente risolto il nodo della questione mediorientale, cioè l'odio e il senso di rivincita da parte dei paesi arabi sostenuto ormai dall'umiliazione subita per la sconfitta. Israele, un po' come fece la Francia fra le due guerre, si rinchiuse nei propri confini fortificandosi e confidando nel proprio prestigio militare, illudendosi che la sicurezza stesse nel trincerarsi.

Effettivamente, rafforzarono e implementarono tutti i sistemi difensivi: fu costruita una lunga linea di difesa lungo il confine del Sinai, vennero costruite nuove difese anche sui monti confinanti, furono eretti posti di osservazione e posizionati radar.

Ma Israele avrebbe dovuto preparare qualcosa di più che una semplice difesa riorganizzata e si sarebbe dovuto aspettare una violenta reazione da parte dell'Egitto, che infatti

di lì a poco avrebbe scatenato una lunga e sanguinosa guerra di attrito lungo il canale che si trascinerà per anni e causerà perdite considerevoli da ambo le parti; fu questa la cosiddetta “Guerra Dimenticata”, che fu molto di più di una serie di scaramucce di confine. I paesi arabi si riarmarono e migliorarono l'addestramento delle armi tecniche, compresero gli errori e studiarono i punti deboli dell'avversario, analizzarono la sua potenza e pensarono a come colpirla.

3 M. Marianetti, La guerra dei sei giorni: il capolavoro di Tzahal, 5 – 10 giugno 1967,

http

://www.icsm.it/articoli/ri/seigiorni.html

4 D. M. De Luca, La storia della guerra dello Yom Kippur, in “il Post”, 06 ottobre 2012,

I Sovietici fornirono loro la tecnologia per contrastare l'aviazione e le armi per fermare i carri armati. Israele alle prese con il doloroso problema del terrorismo e cullandosi sugli allori del trionfo conseguito, sottostimò il pericolo incombente e non adeguò le sue tattiche di combattimento: il conto gli sarebbe stato presentato nel 1973, il giorno di Yom Kippur5.

L'Egitto infatti, com'era pronosticabile, non rimase a guardare. Era giunta l'ora di vendicarsi e di recuperare tutto definitivamente, ricevendo fra l'altro l'appoggio di vari paesi arabi i quali inviarono proprie truppe al fronte di battaglia6.

A portare alla guerra, nel 1973, furono Anwar Sadat, dittatore egiziano, da poco succeduto ad Abdel Nasser, e Hafez al-Assad, dittatore siriano, padre dell'attuale dittatore, Bashar al-Assad […]. Entrambi i paesi si trovavano in una grave situazione economica, osteggiati dalle minoranze religiose interne (in particolare dai Fratelli musulmani in Egitto) e spinti dai ceti più istruiti e nazionalisti, cioè la base del loro consenso, a riprendere i territori sottratti da Israele con la guerra del 1967. Quando, con la conferenza di Oslo, le grandi potenze decisero di mantenere lo status quo in Medioriente, Sadat e Assad presero la decisione di un attacco a sorpresa contro Israele7.

La data scelta per lanciare l'offensiva fu il 6 ottobre, giorno della festività più importante del calendario ebraico. Un attacco quasi completamente inaspettato, che colse letteralmente di sorpresa l'esercito israeliano causandogli gravi perdite.

Così «iniziò la cosiddetta guerra dello Yom Kippur, in cui furono coinvolti Siria, Egitto ed Israele. Quella dello Yom Kuppur fu la più grande guerra combattuta in Medio Oriente fino a quella del Golfo e portò alla crisi petrolifera del 1973, un embargo delle esportazioni di petrolio nei paesi occidentali che aggravò molto la crisi economica che in quegli anni aveva cominciato a colpire Europa e Stati Uniti»8.

Dopo dieci giorni di guerra brutale aperta su diversi fronti, e con l'esercito israeliano ormai riorganizzatosi e pronto a entrare in territorio egiziano, vi fu l'intervento dell'ONU, che con una risoluzione raggiunta tra Stati Uniti e Unione Sovietica impose «di cessare il fuoco entro 12 ore, e di aprire negoziati “sotto auspici appropriati” per instaurare la pace nel Medio Oriente»9.

5 M. Marianetti, La guerra dei sei giorni: il capolavoro di Tzahal, 5 – 10 giugno 1967,

http

://www.icsm.it/articoli/ri/seigiorni.html

6 Cfr. I. Viana, Yom Kippur, la última gran guerra entre Israel y sus vecinos árabes, Madrid, in “ABC”, 7 ottobre 2013, http://www.abc.es/archivo/20131006/abci-guerra-kippur-201310042005.html

7 D. M. De Luca, La storia della guerra dello Yom Kippur, in “il Post”, 06 ottobre 2012,

http://www.ilpost.it/2012/10/06/la-storia-della-guerra-dello-yom-kippur/

8 Ibidem

La tregua venne accettata da tutte le parti in causa, e prima della fine del mese le ostilità erano terminate definitivamente. Purtroppo, come la storia ci insegna, qualsiasi guerra o scontro si porterà dietro con se degli strascichi e delle tensioni, delle sofferenze e dei rancori che saranno quasi impossibili da dimenticare per i popoli che hanno assistito a un tale dramma. Ma un primo grande passo verso la pacificazione fu lo storico accordo firmato tra Egitto e Israele nel novembre del 1973.

«In particolare, l'Egitto cominciò dopo la guerra a normalizzare i rapporti con Israele e la conclusione del trattato di pace tra le due nazioni nel 1979 portò all'espulsione dell'Egitto dalla Lega Araba, durata fino al 1989»10.

Nonostante gli sforzi quindi, ciò dimostra quanto odio e quanto rancore tenevano ancora in serbo la maggior parte dei paesi arabi nei confronti di Israele per lo smacco subito, portandoli a rivedere le loro posizioni anche nei confronti dell'Egitto che, non avendo potuto rifiutare l'appoggio statunitense per evitare l'invasione israeliana, era ormai fuori anche dall'orbita d'influenza sovietica.

Infatti, come già accennato in precedenza, durante la battaglia le due fazioni poterono contare su vari appoggi esterni: l'Egitto, la Siria e la Giordania contavano sul sostegno di alcuni paesi arabi come Iraq, Arabia Saudita, Kuwait (sotto protettorato dell'Unione Sovietica), mentre Israele contava con l'appoggio dell'Occidente, principalmente Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Ma a causa dei fatti avvenuti e per il modo in cui terminò la guerra, vennero riviste alcune alleanze all'interno dell'area che portarono successivamente a un cambio dell'assetto geopolitico, non solo nel Medio Oriente ma anche a livello internazionale. Una volta finita la guerra «i paesi produttori di petrolio, in risposta all'aiuto americano concesso ad Israele, cominciarono un embargo verso gli Stati Uniti e molti altri paesi occidentali, che sarebbe durato fino al 1974. Il prezzo del petrolio aumentò del 400% e questo causò la crisi energetica del '73»11.

10 D. M. De Luca, La storia della guerra dello Yom Kippur, in “il Post”, 06 ottobre 2012,

http://www.ilpost.it/2012/10/06/la-storia-della-guerra-dello-yom-kippur/

In sostanza, la prima crisi energetica del 1973 scoppiò come conseguenza della guerra dello Yom Kippur: le nazioni appartenenti all'OPEC, che come già detto è l'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, improvvisamente e inaspettatamente interruppero il flusso degli approvvigionamenti di petrolio nei confronti delle nazioni importatrici e dell'Occidente in generale. Ciò causò il caos, con i prezzi che salirono alle stelle, generando una profonda crisi economica. In realtà però,

la crisi petrolifera del 1973 cominciò nel 1971, almeno. Nell'ottobre del 1973, alla vigilia della crisi, i prezzi del greggio del Golfo Persico erano aumentati, rispetto al 1970, di circa l'80%, quelli del petrolio libico di più del 100%. L'impennata dei prezzi di fine 1973 fu in realtà il culmine di un processo lungo quasi un decennio di progressivo indebolimento del sistema di governo dei mercati petroliferi12.

Fino ad allora infatti, il mercato petrolifero era stato gestito in gran parte dalle Sette Sorelle, dall'oligopolio delle grandi compagnie petrolifere, ma proprio dal 1970 le cose cominciarono a cambiare. Da allora si iniziò a notare una certa passività delle compagnie, che si ritrovarono impreparate nel contrastare le nuove sfide derivanti dalla decolonizzazione e dall'emergere di nuovi competitori sui mercati internazionali, dando così l'impressione di essere dei giganti impotenti ormai quasi superati.

Fino a quegli anni, le grandi compagnie petrolifere si presentavano e agivano come una specie di Stato nello Stato: essendo le uniche competenti in materia di approvvigionamenti energetici in un mondo ormai sviluppato, i governi dei maggiori paesi consumatori avevano praticamente affidato loro la gestione della politica estera con i Paesi esportatori. Il problema di fondo però pareva essere il fatto che le alte cariche dirigenziali delle grandi compagnie erano composte principalmente da tecnici, ingegneri, chimici, geologi, carenti quindi di quella esperienza internazionale e di quella profondità politica necessarie per comprendere e gestire le nuove dinamiche strategiche di un mondo ormai in continuo mutamento13.

12 F. Petrini, La fine dell'età dell'oro (nero). Le grandi compagnie e la prima crisi energetica, Società italiana per lo studio della storia contemporanea – Cantieri di storia VI. La storia contemporanea in Italia oggi: linee di ricerca e tendenze – Panel: Shock al sistema. La crisi petrolifera del 1973 e le origini del

mondo contemporaneo, Forlì, 22-24 settembre 2011, p. 1.

Anche rifiutando di voler credere a una qualsivoglia teoria della cospirazione, effettivamente vi fu comunque

una rivalutazione del ruolo delle grandi compagnie nel processo di aumento dei prezzi che condusse alla decisione di fine 1973, nella convinzione che esse non furono semplicemente un recettore inerme delle istanze dei Paesi esportatori ma, una volta appurata l'impossibilità di conservare lo status quo ante, “volentieri” cedettero alle pressioni per un rialzo del prezzo del greggio, nella prospettiva che ciò gli avrebbe consentito di invertire una tendenza all'abbassamento del saggio di profitto e al contempo di aprire una via di uscita da una dipendenza eccessiva dalle risorse di aree politicamente “calde” come il Medio Oriente e il Nord Africa14.

Fino al 1960 si susseguirono fasi di grande abbondanza per l'industria petrolifera, grazie al sistema oligopolistico esercitato dalle grandi compagnie che attraverso la spartizione e la fissazione di mercati e prezzi ne governavano e stabilizzavano il funzionamento, con lo scopo di evitare ciò che era già accaduto negli anni Venti, quando l'irruzione del petrolio russo nei mercati europei ed extra-europei aveva portato a un terribile crollo del prezzo. Dato che negli Stati Uniti i costi di estrazione erano ormai notevolmente aumentati a causa dei giacimenti iper-sfruttati, che includevano inoltre il pagamento di tasse elevate per i profitti derivanti dall'estrazione del greggio, il Medio Oriente diventò così l'area di maggiore espansione per l'estrazione petrolifera.

Sotto l'egida delle Sette Sorelle e della Compagnie Française de Pétrole (CFP), la produzione mediorientale venne sviluppata attraverso intricati sistemi di cooperazione e di partecipazione nella produzione di petrolio nei maggiori Paesi esportatori come Arabia Saudita, Iran, Iraq, Abu Dhabi, dove i costi di estrazione erano (e sono) particolarmente bassi15, riuscendo inoltre a sfuggire così all'Anti-Trust statunitense, trattandosi di ricavi

petroliferi provenienti però dall'estero.

14 Ibidem

15 «Nel 1960, a fronte di un prezzo di mercato di 1,63$ al barile, il costo totale di produzione ammontava a 18 centesimi di dollaro, contro più di un dollaro in Venezuela e gli 1,3 dollari del Texas». ivi, p. 5.

Negli anni a venire né la nascita dell'OPEC né l'ingresso di nuovi concorrenti sul mercato, tra cui ancora l'Unione Sovietica, sembravano in un primo momento poter intaccare quel sistema che appariva quasi perfetto, dove vi erano alti profitti per le compagnie e bassi prezzi per i consumatori a discapito ovviamente della terza parte su cui si reggeva il mercato petrolifero, cioè i Paesi produttori-esportatori. Ma l'andamento altalenante dei prezzi in realtà cominciava a segnalare i primi cambiamenti.

Il primo grande crollo del prezzo, com'era pronosticabile, fu causato dalla sovrabbondanza di offerta petrolifera mondiale, e nonostante in quegli anni la domanda totale di petrolio a livello mondiale mostrava segnali di enorme crescita, l'offerta crebbe a ritmi ancor più sostenuti. Tra il 1950 e il 1970 si assistette ad un aumento della produzione di greggio senza precedenti: i Paesi del Golfo Persico passarono dagli 1,8 milioni di barili al giorno del 1950 ai 14 del 1970, l'URSS passò da 750 mila barili al giorno a 7 milioni, e persino gli Stati Uniti riuscirono a raddoppiare quasi la produzione nonostante fosse stata fino ad allora la regione petrolifera più sfruttata al mondo. «Di fatto il tratto distintivo dell'‘età dell’oro’ del petrolio è proprio la sovrapproduzione». Come conseguenza «i ricavi delle sette maggiori compagnie nell'Emisfero Orientale sono passati da 56,5 centesimi per barile nel 1960 a 32,7 centesimi nel 1970»16.

Durante questa fase di abbassamento dei prezzi la posizione delle grandi compagnie cominciò a vacillare, mentre intanto si registravano le prime pressioni da parte dei Paesi produttori che reclamavano di ottenere maggiori rendite dalle proprie ricchezze naturali. Tali pretese iniziarono ad ottenere i primi significativi successi dopo la nascita dell'OPEC nel 1960, anche se in definitiva «i veri beneficiari dell'età dell'oro del petrolio erano stati i consumatori, mentre l'industria aveva visto diminuire i profitti»17.

Così, all'inizio del nuovo decennio, si verificarono i primi profondi cambiamenti nelle gerarchie di potere per la gestione delle risorse: in un solo anno i Paesi dell'OPEC erano riusciti a strappare alle compagnie vantaggiose concessioni riguardo al posted price, cioè al prezzo di riferimento, e anche sulle relative tasse da pagare.

Ormai i tempi stavano cambiando, e con esso si stava assistendo inoltre a un cambiamento strutturale dei mercati petroliferi, dove dall'era della sovrabbondanza sembrava si stesse passando ad una di relativa scarsità.

L'unica area in cui esistevano riserve a buon mercato in grandi quantità era il Medio Oriente, mentre altre zone di produzione potenzialmente promettenti, come il Mare del nord e l'Alaska, avevano costi di estrazione assai maggiori. Questo conferiva ai produttori mediorientali una forza contrattuale senza precedenti. […] In secondo luogo, compagnie e governi dei paesi consumatori non riuscirono mai a creare un fronte unito da opporre all'OPEC, per organizzare una difesa dello status quo, o, più realisticamente, una transizione morbida. L'industria petrolifera era attraversata da una profonda divisione tra gli indipendenti e le majors, in ragione di un'antica diffidenza e delle diverse posizioni occupate sui mercati18.

Ma oltre alle rivalità tra le grandi compagnie e le più piccole, o forse è meglio definirle indipendenti dato che tanto piccole non erano, nemmeno tra le Sette Sorelle stesse vi era una perfetta armonia a causa delle distinte vedute riguardo le richieste dei Paesi produttori.

Inoltre, l'ipotesi di fronte comune da opporre all'OPEC era resa ulteriormente irrealistica dalla ferma intenzione dei governi dei Paesi consumatori di non farsi coinvolgere in uno scontro aperto con i produttori. Per Stati divenuti fortemente dipendenti dalle importazioni mediorientali, come quelli europei e il Giappone, l'eventualità da evitare assolutamente era un'interruzione delle forniture di greggio a causa di una rottura nelle trattative, mentre, entro certi limiti, un aumento dei prezzi poteva essere sopportato più agevolmente. Ma anche negli stessi Stati Uniti, assai meno dipendenti dal petrolio mediorientale, l'amministrazione Nixon aveva segnalato la sua sostanziale disponibilità a una revisione al rialzo dei prezzi19.

17 ivi, p. 7. 18 ivi, p. 8. 19 ivi, p. 9.

Per Nixon la situazione era ormai diventata chiara, e inoltre non aveva più nemmeno tanta possibilità di manovra, ma l'aumento del prezzo in realtà offriva l'opportunità di poter mettere in produzione quei giacimenti sulla costa settentrionale dell'Alaska altrimenti antieconomici. Un'alternativa, chissà per un migliore approccio nelle trattative, poteva essere quella di chiedere l'aiuto o la partecipazione agli esperti di Stato, ma le grandi compagnie non erano così entusiaste di coinvolgere direttamente i governi dei Paesi consumatori aprendo così alla possibilità di un'intrusione dei poteri pubblici nei meccanismi di mercato. L'unica eccezione era rappresentata dalla British Petroleum, al 50% posseduta dallo Stato britannico.

Così, nonostante le differenti vedute all'interno dell'industria petrolifera, la strada scelta fu quella di intraprendere direttamente le trattative e farsi carico dei negoziati sui prezzi che si sarebbero dovuti aprire coi paesi OPEC. Nacque così il London Policy Group, che riuniva i rappresentanti delle sedici più grandi compagnie: le sette sorelle, la CFP e otto indipendenti, mentre l'italiana ENI e la francese ERAP avevano deciso di restarne volontariamente fuori.

Purtroppo l'efficacia negoziale delle compagnie fu insolitamente bassa, e malgrado gli sforzi non ottennero quanto sperato: a Teheran, quando si aprirono i colloqui, le compagnie offrirono un aumento del posted price di 15 centesimi al barile, mentre la controfferta dei negoziatori OPEC fu di 54 centesimi. Il 14 febbraio 1971 venne firmato l'accordo su un piano quinquennale che prevedeva un aumento di 35 centesimi con un incremento automatico annuo di 5 centesimi. Il 24 febbraio 1971 cominciarono le trattative con i libici, ma anche in questo caso le cose non andarono meglio, anzi: sotto le minacce di sospensione della produzione, le compagnie dovettero accettare le richieste di un aumento immediato del posted price e con le stesse modalità di incremento annuo previste nell'accordo di Teheran. Finite le trattative quindi, «le compagnie accettavano immediatamente il 75% delle richieste dei produttori, con la prospettiva di raggiungere e superare il 100% nei cinque anni di validità dell'accordo»20.

Nonostante il trambusto, non si capisce d'altronde per quali motivi le compagnie avrebbero dovuto difendere con tenacia dei bassi livelli dei prezzi (in teoria l'unica valida ragione sarebbe il consumatore, ma non sembra essere questo il caso).

La situazione era ormai cambiata rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta, quando l'abbondanza di petrolio sul mercato mondiale rendeva inevitabile l'approvazione di bassi prezzi, mettendo ovviamente in conflitto gli interessi delle compagnie con quelli dei Paesi produttori. Ma nel clima degli anni Settanta, il rialzo dei prezzi avvicinava in realtà gli interessi delle due parti, a patto che gli oneri degli aumenti venissero scaricati sui consumatori.

Infatti, malgrado l'apparente terrore di un tragico rialzo del prezzo, i profitti delle compagnie passarono da un aumento dell'1%, tra il 1969 e il 1970, a un 11% nel 1971. Ormai era chiaro: le compagnie avevano preferito accettare un notevole rialzo dei prezzi, evitando di assumersi aggravi di altra natura come arretrati o reinvestimenti in loco, i quali sarebbero stati più difficili da trasferire ai consumatori. In questo modo però le compagnie si ritrovarono in una situazione di “precario equilibrio”, perché (nonostante i maggiori profitti) se da un lato vi erano gli ormai potenti produttori, dall'altro le compagnie non potevano effettivamente permettersi di svendere gli interessi dei consumatori senza rischiare di suscitare una qualche reazione, con il conseguente pericolo di compromettere i loro interessi nei mercati internazionali a favore di compagnie nazionali, o ancora peggio correre il rischio di vedersi imporre dalle autorità pubbliche un certo grado di controllo. Naturalmente l'ipotesi di un maggior coinvolgimento dei governi era sempre stata mal vista così, nonostante i rischi e per contrastare in tutti i modi la necessità di interventi regolatori esterni, piuttosto le compagnie difendevano la legittimità del rialzo dei prezzi, alcuni definendo addirittura l'aumento come “tollerabile” e “in ogni caso inevitabile”21.

Pochi mesi dopo gli accordi di Tripoli e Teheran gli interessi dei Paesi esportatori cambiarono, i quali spostarono la loro attenzione non più sul prezzo bensì sugli assetti proprietari delle società concessionarie, facendo pressioni per volerne far parte.