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L'influenza del petrolio nelle relazioni internazionali

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione...p. 4 Capitolo 1: Le origini del petrolio...p. 7 1.1 Le prime estrazioni...p. 11

1.1.2 USA...p. 14 1.1.3 Unione Sovietica...p. 17 1.1.4 Il petrolio europeo...p. 19 1.1.4 Il caso specifico dell'Italia...p. 21 1.1.6 Medio Oriente...p. 24 1.2 Le guerre del petrolio...p. 28 1.3 Enrico Mattei: il pioniere dei non-OPEC...p. 34

Capitolo 2: Le crisi energetiche...p. 40 2.1 La prima crisi energetica...p. 41 2.2 La seconda crisi energetica...p. 50

Capitolo 3: L'importanza strategica delle risorse...p. 67 3.1 La fine del petrolio e la teoria di Hubbert...p. 68 3.2 Geografia delle riserve e sicurezza energetica...p. 77 3.3 L'equilibrio geopolitico internazionale sta cambiando?...p. 81 3.3.1 Usa...p. 83 3.3.2 Iran...p. 85 3.3.3 Russia...p. 87 3.3.4 Venezuela...p. 88 3.4 Prospettive energetiche attuali e future...p. 90

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Capitolo 4: Scenari energetici futuri

4.1 Le alternative energetiche future...p. 94 4.2 La centralità strategica delle vie di trasporto del gas in due casi specifici: l'Ucraina e l'Iran...p. 103 4.3 Equilibri geopolitici del futuro...p. 108

Conclusioni...p. 110 Bibliografia...p. 113 Linkografia...p. 115

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INTRODUZIONE

Questo lavoro nasce dalla curiosità di immaginare come sarà un giorno il mondo quando il petrolio sarà finito. Ma quando finirà il petrolio? Quante riserve sono ancora disponibili? E dopo il petrolio quale fonte energetica lo sostituirà? Chi dominerà la scena geopolitica energetica internazionale?

Queste curiosità e queste domande hanno trovato fra l'altro ispirazione da un evento che sta cambiando gli equilibri economici ed energetici a livello internazionale. Fin dai primi mesi del 2014 si è assistito, a livello internazionale, ad un abbassamento drastico dei prezzi della benzina, e con essa del petrolio e più in generale degli altri combustibili fossili.

Nonostante quasi nessuno controlli abitualmente le oscillazioni in borsa del prezzo (e del valore) del petrolio, al contrario ognuno di noi solitamente si scontra con la necessità di recarsi in una qualsiasi stazione di rifornimento per alimentare la propria auto.

Proprio il fatto che ognuno di noi viva giornalmente in prima persona questa situazione dovrebbe farci riflettere e dovrebbe suscitare in noi un rinnovato interesse sulla situazione dei combustibili fossili, sulla loro abbondanza (o scarsità che dir si voglia), su come e perché li stiamo usando, e su cosa li potrebbe sostituire nel futuro.

Da tale premessa bisognerebbe quindi cercare di scovare le ragioni di questo calo dopo gli altissimi prezzi del barile durati fino a metà 2014, dove e a cosa ci porterà questa drastica caduta e/o l'oscillare vertiginoso dei prezzi del carburante e dei combustibili in generale. Il petrolio e gli altri combustibili fossili, gas naturale e carbone, sono la base della nostra civiltà e del nostro modo di vivere. Sappiamo che circa il 90% dell'energia primaria prodotta oggi in tutto il mondo viene dai combustibili fossili, e di questi la singola fonte più importante è il petrolio greggio che ne rappresenta circa il 40%.

Utilizziamo questo tipo di energia per scaldarci, per muoverci tramite i mezzi di trasporto, per ottenere energia elettrica, materiali in plastica, cosmetici, ecc. Non solo, ma i combustibili fossili sono anche indispensabili per l'industria chimica e per la produzione di fertilizzanti, senza i quali difficilmente 7 miliardi di persone potrebbero vivere sulla Terra. Sappiamo anche, però, che il petrolio e gli altri combustibili fossili in generale sono risorse limitate e non rinnovabili, quindi prima o poi saranno destinate ad esaurirsi.

La questione della durata delle riserve planetarie e della fine del petrolio fino ad oggi non era quasi mai parsa come un problema incombente.

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Le grandi crisi petrolifere degli anni Settanta e Ottanta avevano destato molta preoccupazione, ma già a quell'epoca si sapeva bene che si trattava di crisi di tipo (geo)politico e non di esaurimento delle riserve.

Da quel momento in poi, per circa un ventennio, si assistette ad una fase di grandi quantità di risorse disponibili a prezzi stabili ed abbordabili, e si credette che questa situazione potesse durare per sempre. Ma la crisi economica che ha colpito tutto il globo, coincisa con il raggiungimento del record del prezzo del petrolio nel 2008, ha modificato radicalmente ogni prospettiva lasciando pensare che stesse iniziando una crisi anche nella disponibilità di risorse energetiche. Ecco quindi come l'attuale ribasso dei prezzi ha ribaltato nuovamente lo scenario.

Attualmente è complicato dire esattamente se siamo usciti da una “crisi del petrolio” oppure se siamo di fronte a uno scossone temporaneo. Quel che è certo è che le risorse globali di combustibili fossili non sono illimitate, e quando verranno estratte le ultime gocce di petrolio dagli ultimi pozzi ancora attivi è molto probabile che il petrolio non sia già più la fonte energetica abbondante e a buon mercato alla quale siamo stati abituati fino ad oggi ma sarà diventata una risorsa rara e costosa. Per di più sappiamo pure che gli stessi combustibili fossili stanno facendo enormi danni all'atmosfera a causa della generazione dei gas serra che provocano il riscaldamento globale. È certo quindi che prima o poi dovremo imparare a fare a meno del petrolio e degli altri combustibili fossili, ma il problema è stabilire quando e cosa accadrà.

Il petrolio in particolare è qualcosa di speciale, qualcosa di così basilare per la nostra società e per il nostro mondo che pensare che si possa esaurire in tempi inferiori alla nostra aspettativa di vita scatena la preoccupazione, se non addirittura il terrore. Ma perché preoccuparci così tanto?

In fondo nel corso della storia si sono già verificati casi di altre risorse progressivamente esaurite, ma queste non hanno dato luogo a conseguenze drammatiche. Sono esaurite ormai da secoli le miniere di rame, così come le miniere di ferro, eppure non mancano né il ferro né il rame, anzi è possibile ottenerne quantità sempre maggiori attraverso il loro riutilizzo. Il problema legato al petrolio però sta nel concetto di risorsa primaria, cioè che da questa risorsa dipendono tutte le altre, e proprio il petrolio a differenza di altre risorse non può essere riciclato.

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Un secondo problema legato al petrolio e ai combustibili fossili è quello del surriscaldamento, e dell'inquinamento, dell'atmosfera per via dell'immissione nella stessa dei gas serra dovuti alla combustione. Paradossalmente però questi due problemi, esaurimento e surriscaldamento, sono complementari e opposti, cioè uno dei due potrebbe risolvere l'altro. Di fronte a una carenza di disponibilità di risorse energetiche fossili forse si otterrebbe un'automatica diminuzione delle emissioni, risolvendo magari il preoccupante problema dell'effetto serra, mentre se quest'ultimo causasse gravi danni a breve termine ciò potrebbe portare a una forzata riduzione dei consumi, rendendo meno impellente la questione dell'esaurimento delle scorte.

Almeno in teoria non dovrebbe nemmeno esistere così tanta preoccupazione, dato che esistono altri possibili metodi alternativi per ottenere energia. Inoltre non è la prima volta che l'umanità si sia trovata davanti a un cambiamento di sorgente energetica primaria: è avvenuto per il legno che ha lasciato posto al carbone, ed è avvenuto per il carbone che ha lasciato posto al petrolio, e sta tuttora avvenendo con il petrolio che sta progressivamente lasciando spazio al gas naturale che poi, si ritiene, lascerà posto al nucleare o al solare, o chissà all'idrogeno.

La differenza più importante però sta nel fatto che le antiche risorse già sostituite non sono mai state esaurite del tutto, esistendo ancora legno e carbone: in questi precedenti casi infatti il passaggio era avvenuto perché erano state rese disponibili delle soluzioni alternative più pratiche e meno costose di quelle esistenti. Invece il caso dell'esaurimento del petrolio è diverso, dato che sarà destinato a finire e a scomparire del tutto, ed è la prima volta che l'umanità si ritrova di fronte a una simile situazione. Se le riserve di petrolio e dei combustibili fossili dovessero esaurirsi in tempi brevissimi, il fabbisogno energetico globale si ritroverebbe in mancanza di alternative valide per sostituirli.

Esistono delle soluzioni alla crisi che ci troviamo a fronteggiare, specie mediante le energie rinnovabili, soluzioni che ci potrebbero portare verso un mondo migliore, più pulito, meno conflittuale, dove magari smetteremo di inquinare e surriscaldare il pianeta ed ucciderci per una risorsa che tanto prima o poi finirà.

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CAPITOLO 1

Le origini del petrolio

Innanzitutto cerchiamo di scoprire e di capire cos'è il petrolio. «Il petrolio è un membro di quella famiglia di composti che chiamiamo idrocarburi, che include quasi tutte le sostanze comunemente usate per ottenere energia dalla combustione»1.

L'appartenenza alla famiglia degli idrocarburi deriva dal fatto che si tratta di composti fra carbonio e idrogeno. Anche il comune carbone potrebbe rientrare in questa categoria, dato che contiene sia carbonio che idrogeno, ma solitamente non si classifica fra gli idrocarburi (sia perché contiene poco idrogeno, sia per ragioni storiche).

Tralasciando gli aspetti prettamente chimici, gli idrocarburi sono comunque una vasta classe di composti. Fra le tante famiglie di composti, vi è in particolare quella degli idrocarburi fossili.

La parola fossile dovrebbe essere riservata ai resti animali e vegetali racchiusi nella roccia, a quel campo chiamato paleobiologia che comprende, per esempio, le ossa dei dinosauri. Tuttavia, si tende a estendere il concetto e a chiamare fossile qualsiasi cosa che è stata sotto terra e che ha richiesto per formarsi un tempo molto più lungo di quello necessario per estrarla o utilizzarla2.

La parola fossile viene associata quindi anche agli idrocarburi che si sono formati milioni di anni fa dalla decomposizione di organismi viventi, e che oggi vengono usati solitamente come combustibili. (Dato che gli idrocarburi si sono formati principalmente al tempo dei dinosauri, qualcuno ha chiamato il petrolio «succo di dinosauri»).

Considerando il carbone in tutte le sue forme, fanno parte della categoria dei combustibili fossili anche il petrolio e il gas naturale. Infatti quasi tutti i pozzi di petrolio contengono anche una certa quantità di metano, che è il componente principale del gas naturale.

La differenza però sta nel fatto che il carbone si è formato principalmente in depositi terrestri, mentre il petrolio è appunto il prodotto di una sedimentazione organica durata milioni di anni, quindi si trova quasi esclusivamente nel sottosuolo e sui fondali degli oceani.

1 U. Bardi, La fine del petrolio. Combustibili fossili e prospettive energetiche nel ventunesimo secolo, Roma, Editori Riuniti, 2003, p. 31.

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Sono rari infatti i casi in cui il petrolio sia stato trovato o sia fuoriuscito autonomamente a livello terrestre.

Il petrolio, essendo una roccia sedimentaria fluida, può trovarsi disperso all'interno di altre rocce, oppure concentrato in accumuli utilizzabili dall'uomo.

Nelle diverse zone del mondo in cui è presente, la superficie terrestre si presenta disseminata di aree depresse rispetto alle circostanti, dove il petrolio tende appunto ad accumularsi e a manifestarsi in diversi modi.

Masse di sedimenti possono accumularsi a seguito di processi erosivo-deposizionali, o possono formarsi all'interno di un bacino sedimentario in seguito a processi fisico-chimici, o ancora possono formarsi per l'attività biologica di alcuni organismi, come le scogliere coralline o i fanghi ricchi di sostanza organica destinata a decomporsi3.

I bacini sedimentari si possono riscontrare in grandi laghi, nelle baie o nei bracci d'Oceano. Anche se di dimensioni ridotte, un esempio potrebbe essere rappresentato dalla Pianura Padana, colma di sedimenti trasportati e deposti dalle Alpi e dall'Appennino settentrionale, le alture che la circondano da tre lati.

Come accaduto in questo caso, gli idrocarburi vagano lentamente nel sottosuolo per milioni di anni per poi alla fine concentrarsi all'interno di rocce-serbatoio permeabili, porose come le ghiaie e/o le sabbie, oppure fittamente fratturate. Solitamente il petrolio si concentra nelle profondità del sottosuolo all'interno delle cosiddette trappole petrolifere, cioè formazioni rocciose che attraverso dei livelli stratificati impermeabili interrompono il divagare del fluido.

Spesso, ma non sempre, anche i bacini sedimentari vengono coinvolti nei movimenti tettonici legati ai continui spostamenti della crosta terrestre, dove le rocce sedimentarie stratificate si deformano oppure si fratturano generando così nuove strutture, alcune delle quali particolarmente adatte per la conservazione del petrolio. Fra le trappole più comuni ricordiamo:

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Fonte: Geopolitica del petrolio. World in progress, Milano, BEM, 2004, fig. 2, p. 12.

Il duomo anticlinale, dove gli strati impermeabili come le argille si deformano e si ripiegano a formare una specie di cupola dove vi si concentrano gli idrocarburi, tendenti a fuoriuscire verso l'alto, ma la loro migrazione viene interrotta perché impedita appunto dai livelli impermeabili del duomo anticlinale;

la faglia, che si verifica solitamente quando due blocchi di rocce permeabili colmi di idrocarburi si dislocano tra loro, dove il vuoto creato dalla frattura viene colmato da materiale impermeabile, generando così una struttura ideale per intrappolare masse di idrocarburi;

la discontinuità stratigrafica si verifica principalmente all'interno di un bacino sedimentario, dove la sovrapposizione di sedimenti di strati di roccia di diversa natura e disposti in modo differente nello spazio crea una sorta di “tetto” impermeabile, dove il vagabondaggio geologico degli idrocarburi viene interrotto appunto dalla chiusura degli strati porosi e permeabili.

Come la crosta terrestre si è andata modificando nel corso dei secoli anche l'esplorazione ha vissuto la sua evoluzione, e «la ricerca petrolifera costituisce una delle sfide avvincenti fra uomo e natura»4. Grazie alla scienza e alla tecnologia, oggi esistono tecniche molto

sofisticate per certificare la presenza di petrolio in una determinata area, ma dato che trivellare il terreno da sempre equivale a investire importanti somme di denaro, nel corso della storia gli esperti appresero a trovare i primi pozzi affidandosi alla “prove” di superficie, anche se queste non erano sempre sinonimo di successo.

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Le prime ricerche petrolifere in tutto il mondo vennero condotte appunto grazie agli indizi di superficie come sabbie intrise di olio, stagni di bitume e rocce asfaltiche. Nei pressi venivano trivellati a mano i primi pozzi di qualche decina di metri, come a Baku (Azerbaijian) a metà del 1800. Nel 1859 in Pennsylvania venne scoperto del petrolio nel fondo di un foro di 70 piedi scavato presso il fiume dove erano presenti indizi di superficie. L'anno dopo vennero eseguite 19 nuove perforazioni in tutto il fondovalle, invece che sulle colline circostanti dove le serie geologiche, meno erose, sono più spesse e quindi gli accumuli petroliferi più profondi. Nacque così il primo metodo di prospezione, la

creekologia.

Gli esperti nel campo della geologia ipotizzarono invece la teoria anticlinale, dove la sola conformazione della struttura tettonica basterebbe a indicare la presenza di olio. Questa teoria era già stata intuita nel 1836, ma con l'espandersi delle ricerche in varie parti del mondo anche il principio dell'automatismo della corrispondenza fra piega e idrocarburi cominciò a vacillare, come ad esempio in Messico dove le scoperte avvennero in assenza di duomi e cupole.

Vi sono poi diversi metodi geofisici, che attraverso appositi strumenti permettono di rilevare nel sottosuolo la possibile presenza di masse di materiali meno densi rispetto alla roccia incassante. Fra i più sofisticati vi è la geosismica, che si basa su esplosioni dalle quali si ricavano le onde d'urto che si riflettono al mutare della densità, consistenza e forma del sottosuolo.

Le anomalie ondulatorie vengono registrate poi in superficie da appositi apparati, una sorta di microfoni piazzati nel suolo pronti ad elaborare i dati ricevuti. La crescita registrata tramite il successo di questi metodi fu spettacolare, in particolare nel ventennio 1926-1945, dove il 95% delle quote delle riserve di petrolio vennero scoperte appunto con la geofisica5.

I metodi micropaleontologici e stratigrafici invece intendono ricostruire l'ambiente originario e le serie stratigrafiche attraverso la micropaleontologia: vengono cioè analizzate le popolazioni animali e vegetali marine per ricostruire i paleoambienti in cui vivevano e la loro età, cercando così di stabilire le tempistiche della decomposizione organica e le relative riserve di petrolio.

5 «Negli USA la quota delle riserve scoperte con la geofisica segna la seguente progressione: 13% fra il 1926 e il 1930; 49% fra il 1931 e il 1935; 73% fra il 1936 e il 1940; 95% fra il 1941 e il 1945». ivi, p. 15.

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Infine, per quanto riguarda l'approccio di oggi, tutte le grandi società petrolifere sono ormai dotate di laboratori geologici specializzati, dove l'uso della geosismica è andata ormai ben oltre alla semplice ricostruzione stratigrafica del sottosuolo. Lo sviluppo tecnologico delle onde d'urto permette oggi di calcolare geometricamente e fisicamente ogni strato riflettente e ogni fluido presente nel sottosuolo. Nonostante gran parte delle province più produttive siano già state esplorate in tutto il mondo, proprio le nuove tecnologie hanno migliorato l'identificazione di accumuli modesti una volta non sfruttabili, forse riserve future in un mondo ormai quasi a secco.

1.1 Le prime estrazioni

Fin dal principio del XIX secolo si assistette a un forte salto di qualità nello sfruttamento del petrolio. A parte alcune vecchie esperienze di trivellazione praticate con il bambù in Estremo Oriente, fino ad allora il petrolio veniva grossolanamente raccolto dal suolo nelle pozzanghere trasudanti dalla terra, ma l'aumento delle richieste spinse improvvisamente a sperimentare nuove tecniche di estrazione con fori scavati a mano. Il primo successo risale appunto a Baku, nel frattempo passato sotto l'autorità russa nel 1806, e fra il 1813 e il 1829 vennero scavati altri 83 pozzi.

Così l'olio minerale entrò di colpo nella rivoluzione industriale, e in un decennio circa sulle rive del Caspio gli impianti di estrazione erano già saliti a 3500. Sempre in quegli anni vennero progettate le prime pioneristiche distillerie per ricavarne l'olio lampante, mentre le scoperte continuavano a moltiplicarsi anche in Nordamerica6.

Bisogna però sottolineare che in genere il prodotto che sgorga dal terreno non è direttamente utilizzabile, almeno per gli impieghi più importanti. Va prima raffinato e poi distillato.

Il primo dei due processi varia in relazione alla composizione chimica: in genere consiste in lavaggi successivi, con acido solforico, con soluzioni di soda e di altri composti chimici. La distillazione frazionata si basa sul diverso grado di volatilità dei composti di cui il greggio è fatto. Sottoposto a riscaldamento crescente, libera le sottofamiglie di idrocarburi. Molti petroli americani, dell'Arabia Saudita e del Mare del Nord, ricchissimi di oli leggeri, distillano quasi completamente al di sotto dei 300 °C, lasciando solo un piccolo residuo solido. Altri invece contengono fino al 40% di idrocarburi solidi, come sovente i giavanesi. 6 ivi, p. 8.

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Le frazioni leggere trovano una maggiore gamma di impieghi, in particolare come carburanti nei trasporti, quindi acquistano maggiore valore economico.

L'industria petrolchimica ha messo a punto metodi di distillazione distruttiva, di piroscissione o pirolisi, in grado di spezzare le lunghe catene degli idrocarburi pesanti trasformandole in altre a minore numero di atomi di carbonio. Tale processo di cracking, com'è comunemente chiamato, consiste nel riscaldare in presenza di catalizzatori i residui solidi a temperature fra 450 °C e 600 °C. Per il 60-65% si ottengono benzine con 70 ottani e idrocarburi gassosi saturi e insaturi. Questi ultimi, di particolare pregio, trovano utilizzo come base per ulteriori manipolazioni: se ne possono ricavare polimeri oppure benzine ad alto numero di ottani (reforming).

Esistono altri tipi di lavorazione, in grado di ricavare propellenti liquidi adatti ai motori a scoppio, che non partono dal petrolio, ma da altri combustibili fossili, come il litantrace grasso. Il processo Bergius, per esempio, consiste nell'idrogenare il carbone in polvere, che viene riscaldato con H2 a 250 atmosfere e a 500 °C in presenza di catalizzatori di stagno. Si ottiene una miscela di idrocarburi con una resa del 60% della materia prima impiegata. Il processo di Fischer-Tropsch usa come materie prime il gas d'acqua ottenuto dal carbone, o il metano, e il vapore acqueo7.

Ad esempio durante la Seconda guerra mondiale, per sopperire alla cronica carenza di petrolio nonostante la disponibilità dei pozzi romeni e di quelli conquistati nella Russia meridionale, l'industria tedesca si trovò costretta a ricavarsi dei surrogati del petrolio altrettanto validi. Nonostante i maggiori sforzi, i chimici del Reich riuscirono a creare benzine partendo appunto dal carbone, abbondante in Germania e nella Polonia occupata. Sino al Novecento, è infatti il carbone a dominare ancora lo sviluppo, i trasporti e le fabbriche attraverso la macchina a vapore.

Ma la svolta decisiva arrivò infatti con l'invenzione del motore a scoppio. Da allora l'”oro nero” entrò in maniera inarrestabile nell'economia, nella tecnologia, negli usi e costumi dell'immaginario dell'uomo, tanto che il 1900 può essere definito a buon diritto come il secolo del petrolio.

Non è di certo la prima volta che l'umanità si trova ad affrontare il passaggio da una fonte energetica primaria un'altra. Era già successo con il legno che ha lasciato il posto al carbone, la stessa cosa è accaduta con il carbone che ha lasciato successivamente il posto al petrolio, e sta tuttora accadendo con il petrolio che sta progressivamente lasciando il passo al gas naturale, ma essendo anch'esso un combustibile fossile sarà destinato a terminare, e poi?!

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Sarcasticamente, si potrebbe rispondere dicendo che l'età della pietra non finì perché si esaurirono le pietre8. In effetti, quando è avvenuto il passaggio dal legno al carbone non è

stato perché il legno era finito, e lo stesso discorso vale per il passaggio dal carbone al petrolio. In entrambi i casi però, il cambio è stato facilitato dal fatto che le nuove fonti erano già abbastanza “sviluppate”, presentandosi come soluzioni tecnologiche più pratiche e meno costose di quelle esistenti. Ma il caso del petrolio è diverso, dato che le alternative sviluppate fino a oggi non sembrano per niente in grado di sostituire i combustibili fossili. «Il petrolio e il gas, più il carbone, costituiscono, come è ben noto, le risorse energetiche di gran lunga più importanti, direi decisive dell'assetto economico e produttivo dell'intero pianeta»9. Dunque il petrolio diventò così importante che venne cercato dovunque in terra e

in mare. Dopo i primi piccoli successi e le prime grandi scoperte della prima metà del secolo passato, dal 1950 la mappa delle riserve petrolifere cominciò ad assumere dei contorni sempre più dettagliati.

A differenza delle abbondanti quantità di carbone presente soprattutto nel sottosuolo dei paesi sviluppati, i giacimenti del greggio vennero localizzati prevalentemente fuori dall'Europa e dall'America anglosassone. Così, parallelamente all'esacerbarsi delle tensioni internazionali successive alla Seconda guerra mondiale, cresceva d'importanza il problema relativo all'accesso e alla sicurezza delle forniture energetiche, con scenari in continuo mutamento al cambiare dei rapporti fra i Paesi e le alleanze con i cartelli.

Nasce così la geopolitica del petrolio10.

Come in passato accadeva per l'oro, anche per l'”oro nero” si sono registrati numerosi scontri per possederne in quantità sempre maggiori, fattore che da sempre apporta un certo prestigio e una certa superiorità nello scacchiere internazionale.

Insomma si entra nel gioco dei dominanti, e i suoi comprimari, e degli sfruttati. Alcuni prevalgono in superiorità tecnologica ed economica, come ad esempio gli Stati Uniti, altri si avvalgono della consistenza dei propri giacimenti, come la Russia e l'Arabia Saudita con gli altri paesi del Golfo Persico. I comprimari invece sono paesi terzi che posseggono l'una o l'altra dote, ma in misura minore, come ad esempio i paesi intorno al Mare del Nord, o il Messico, il Venezuela, l'Indonesia, i quali possono spostare l'ago della bilancia a favore di una o l'altra fazione.

8 U. Bardi, op. cit., p. 10.

9 G. E. Valori, Petrolio. La nuova geopolitica del potere, Milano, Excelsior 1881, 2011, p. 1. 10 A. Biancotti, C. Biancotti (eds.), op. cit., p. 8.

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1.1.2 USA

«Da più di un secolo gli Stati Uniti sono il fuoco dell'industria petrolifera mondiale»11.

Fin dall'inizio, stabilito simbolicamente con la scoperta del 1860 in Pennsylvania, sono stati realizzati negli USA i tre quarti dei pozzi di tutto il mondo, su terreni in realtà che non rappresentano altro che 1/10 dei bacini petroliferi dell'intero pianeta. Se ne contano all'incirca 750.000, dei quali circa 300.00 vennero scavati dopo la Seconda guerra mondiale. I primi bacini ricchi di petrolio vennero trovati tra il 1800 e l'inizio del 1900 nel Michigan e nell'Illinois, seguiti dai bacini del Montana, Wyoming, Colorado, fino a trovare i bacini dalle maggiori fortune: prima la California, che nel 1891 forniva da sola il 22% della produzione mondiale, poi il Texas e la Louisiana, dove la quantità scoperta crebbe tanto da far precipitare i prezzi a 10 centesimi al barile nel 1935.

Alla fine del XIX secolo l'Ovest del Texas era la frontiera: nel 1901 il primo pozzo estraeva greggio al ritmo pazzesco di 100.000 barili/giorno, almeno nei primi tempi dato che prima di esaurirsi riusciva a produrre 50 milioni di barili. Poi seguì la scoperta di alcuni giacimenti giganti come il “Sabine uplift”, con una stima di 200 milioni di tonnellate di olio e immensi volumi di metano. Nel 1916 il campo di Monroe fra Arkansas e Louisiana, che produce 50.000 m3 di gas al giorno e con riserve che ammontano a 170

miliardi di m3. Le ricerche poi sconfinarono nel Nuovo Messico, dove nel 1927 il primo

pozzo forniva 100 barili al giorno, il secondo 10.000 e così via, fino a scoprire nella parte nord-orientale del Texas un altro cumulo gigante (di nome Scurry) con 240 milioni di tonnellate recuperabili. Continuando lungo le coste paludose del Golfo, venne scoperto il più grande giacimento d'America, contenente 800 milioni di tonnellate.

Con questi ritmi, negli anni le scoperte si fecero sempre più difficili e più profonde sulla terraferma. Nacque così la tecnologia dell'offshore, cioè della ricerca ed estrazione in acqua.

Ma già dal 1935 i risultati iniziarono a ridursi sensibilmente, e per produrre l'oro nero bisognava trivellare spesso oltre 10.000 piedi di profondità. Nel 1950 la corsa al petrolio subì così una brusca frenata per la mancanza di nuove aree da esplorare e da sfruttare, e anche le riserve che sembravano inesauribili cominciavano a prosciugarsi in fretta a causa del grande consumo.

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Successivamente iniziò la grande crisi degli anni Settanta, dove la produzione raggiunse il suo picco per poi iniziare lentamente un declino irrefrenabile, al quale si cercò e si cerca ancora di porre rimedio attraverso l'utilizzo delle risorse dell'Alaska, seppur in precarie condizioni.

Ma il vero successo fu per le compagnie petrolifere statunitensi. Fin dal 1800 avevano già architettato e pianificato ricerca e distribuzione su tutto il territorio nazionale e, grazie al successo ottenuto, si proiettarono anche oltre i confini.

«Nel decennio 1880-1890 l'anarchia e l'improvvisazione dominanti lasciarono gradualmente il posto all'ordine di J. D. Rockefeller»12.

Il magnate iniziò la sua “carriera” con il controllo dei trasporti del greggio, fondando poi una raffineria, fino a creare la Standard Oil Company of Ohio. Nel 1882 la piccola impresa era cresciuta fino a diventare un conglomerato di compagnie minori, arrivando a possedere il 90% dei trasporti e delle raffinerie del paese. Avendo praticamente conquistato la scena petrolifera, Rockefeller decise di varcare i confini nazionali entrando ovviamente in collisione con le compagnie europee, principalmente con Gran Bretagna e Olanda che avevano fondato anche loro le prime grandi compagnie petrolifere come la Royal Dutch, la Shell, l'Anglo Persian Company, con quest'ultima che gestiva l'immenso impero britannico. Attraverso le proficue attività di Shell transport in Oriente, unita alla necessità di trovare nuove fonti di petrolio per ridurre la dipendenza dalla Russia, portò le due società più importanti, la Shell e la Royal Dutch, ad unire le forze per contrastare l'espansionismo americano, fondando nel 1907 il gruppo Royal Dutch Shell.

Alla fine degli anni Venti, Shell era diventata l'azienda petrolifera leader del mondo, con una produzione dell'11% del grezzo mondiale13.

Nel frattempo, in America l'Alta Corte Federale sciolse la compagnia di Rockefeller con l'accusa di monopolio. Dallo scioglimento nacquero nuovi gruppi, alcuni dei quali crebbero con successo andando poi a figurare fra “le Sette Sorelle”14, come la Standard Oil of New

Jersey, la Texas e la Mobil.

12 ivi, p. 19.

13 https://www.shell.it/aboutshell/who-we-are/history/corporate-history.html

14 Termine coniato da Enrico Mattei per descrivere le compagnie che controllavano il greggio del Medio Oriente dopo la seconda guerra mondiale. C. Hoyos, The new Seven Sisters: oil and gas giants dwarf

western rivals, in “Financial Times”, 12 marzo 2007.

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Intorno al 1920 ebbe inizio una breve fase dominata da consorzi internazionali per la gestione del petrolio: fase che durò poco a causa della ovvia insoddisfazione degli esclusi, che dettero inizio a una stagione di dura competizione a tutto campo tra europei e americani15.

Nel frattempo la Russia, diventata Unione Sovietica, si isolò nel settore degli idrocarburi, lasciando così lo scenario in una contesa asimmetrica, dato che le compagnie statunitensi godevano dell'inviolabilità del proprio territorio dove non era permesso approdare agli europei. Inoltre la Seconda guerra mondiale sancì la definitiva prevalenza delle compagnie statunitensi, specialmente in Medio Oriente, dove le continue scoperte di giacimenti giganti in territori poco controllati avevano dato il via agli anni dell'olio a buon mercato. L'entusiasmo svanì bruscamente nel 1972, in seguito a due eventi fondamentali: il primo fu la nascita dell'OPEC nel 1960, l'associazione dei produttori con l'ovvio motivo di difendere i propri interessi. Il secondo fu un cambio drastico che in qualche modo affettò tutto il mondo: nel 1971 il presidente USA Nixon pose fine alla convertibilità aurea del dollaro, cioè abolì la convertibilità del dollaro con una quota fissa d'oro.

Dato che tutte le transazioni del settore avvenivano comunque in dollari, l'OPEC nel 1972 alzò il prezzo del greggio, seguendo poi con successive svalutazioni e nuovi rincari. Questo braccio di ferro non fece altro che portare alla nazionalizzazione delle risorse petrolifere, riducendo così il potere delle compagnie.

I primi paesi furono l'Algeria e l'Iraq nel 1971, seguite poi dall'Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti fino alla Libia nel 1973.

In questo stesso anno scoppiò la guerra dello Yom Kippur, la quale causò la prima crisi energetica. Una riduzione del 5% della produzione OPEC scatenò la crisi generale: il prezzo dell'olio minerale aumentò di 5 volte in poco tempo e l'Occidente cadde nel panico anche a causa del contemporaneo crollo nella produzione industriale. La stessa cosa accadde nel 1979-1980, quando la produzione del greggio diminuì dalle 3,2 gigatonnellate del 1979 alle 2,7 del 1980.

Gli scontri e le tensioni del decennio 1970-1980 sancirono definitivamente la fine della stabilità e della pace petrolifera.

15 Come nel caso del patto IPC (Iraq Petroleum Company) dove entrarono francesi anglo-olandesi e, degli americani, la Mobil e la Standard Oil N.J., scatenando appunto l'ira degli esclusi. A. Biancotti, C. Biancotti (eds.), op. cit., p. 20.

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1.1.3 Unione Sovietica

Nel 1975 l'Unione Sovietica aveva riconquistato il suo primato mondiale di produttore di petrolio e di gas naturale, com'era già accaduto fra la fine del 1800 e i primi anni del 1900 quando era arrivata ad estrarre fino a 12 milioni di tonnellate all'anno. A partire da quegli anni l'URSS sperimentò delle fasi altalenanti nella produzione, dovute a diversi fattori: prima la caduta durante la Rivoluzione d'Ottobre, seguita poi da un lento ma nuovo incremento dell'attività fino alla Seconda guerra mondiale, poi la perdita di parte dei pozzi delle regioni caucasiche cadute in mano ai tedeschi, diminuendo quindi la disponibilità delle risorse. Ma dal 1950 in avanti la crescita assunse dimensioni spettacolari, aumentando da 100 milioni di tonnellate del 1958, a 200 milioni nel 1963, a 400 nel 1973 fino a 615 nel 198416. Successivamente la produzione si mantenne costante fino a iniziare il

suo declino, coinciso con le tensioni dei primi anni Novanta, lo scioglimento dell'URSS e la conseguente nascita di nuovi stati indipendenti.

La crescita della potenza russa era basata principalmente, e si basa in parte ancora oggi, su tre aree giganti: Baku, la prima grande risorsa, Volga e Urali e, dal 1980 circa, la Siberia occidentale.

A Baku le prime notizie della presenza di olio di roccia risalgono al VI secolo a.C. È la conformazione stessa del terreno che indicava l'inconfutabile presenza di combustibili fossili, dove spesso nascevano improvvisi vulcani di fango e si verificavano spettacolari auto-combustioni dalle eruzioni di gas che fuoriuscivano dal terreno, come nel 1922 quando le fiamme del Turgai erano visibili a 700 Km di distanza17 (per rendere l'idea è

come se un eruzione dell'Etna fosse visibile da Roma!).

I primi giacimenti scoperti a Baku risultavano collegati appunto ai “vulcani di fango”, zolle di terreno in movimento che, ribollendo, rilasciavano gas metano che si incendiava spontaneamente. Il petrolio si trovava quindi associato a questo tipo di conformazione del terreno, in zone fangose e/o sabbiose, ma una volta esauriti i cumuli così facilmente raggiungibili i campi russi entrano in crisi. Inoltre l'incombenza della guerra rallentava l'introduzione di nuove tecniche di trivellazione per raggiungere l'olio più profondo, tecniche che comunque diedero i suoi primi frutti a partire dal 1950, quando la produzione risalì intorno ai 15 milioni di tonnellate.

16 ivi, p. 21. 17 Ibidem

(18)

Ma la Seconda guerra mondiale urgeva soprattutto ai confini del Volga e degli Urali, dove i pochi pozzi trovati fino a quel tempo erano stati sfruttati solo superficialmente prima che cadessero nelle mani dei tedeschi.

Dal 1944, con la Germania in ripiegamento, la situazione migliorò grazie alla scoperta di diversi giacimenti che avrebbero poi fatto le fortune dell'URSS, raggiungendo un totale di 6.000 pozzi (pochi se paragonati ai 45.600 degli USA). Ma dalla fine degli anni Settanta la produzione iniziò a diminuire, anche a causa di importanti infiltrazioni d'acqua che ne hanno compromesso la produttività complessiva, così l'attenzione si spostò oltre gli Urali, verso la Siberia occidentale.

Data la conformazione del terreno che da sempre l'ha reso un ambiente ostile e impraticabile, le autorità avevano esitato nell'impegnarsi pesantemente in Siberia, ma mentre i pozzi di Baku parevano in via d'esaurimento, e con quelli del Volga usciti stremati dagli sforzi imposti dall'approvvigionamento bellico, la Regione iniziò a suscitare interesse. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, per tentare una rapida ripresa economica, vennero investiti «miliardi di rubli, senza successo immediato. I primi ritrovamenti risalgono al 1960, poi anno dopo anno si rivelano le grosse scoperte dei giacimenti giganti. La produzione sale con progressione esponenziale, fino ai 300 milioni di tonnellate del 1980»18. Vennero scoperti così i campi di gas più ricchi del mondo.

Circa un ventennio fa si cominciò poi a credere che le riserve fossero in via di esaurimento, dato l'intensivo sfruttamento del secolo precedente, ma a seguito della disintegrazione dell'URSS e la nascita delle repubbliche asiatiche indipendenti il quadro sembrò cambiare nuovamente. Infatti le ultime esplorazioni, le scoperte, i progetti, gli investimenti e gli interessi economici hanno concentrato maggiori attenzioni nell'Azerbaijan, nel Kazakistan, nel Turkmenistan e sulle coste meridionali iraniane19.

In quest'area sono concentrate le riserve più abbondanti trovate al mondo negli ultimi vent'anni, seconde soltanto alla provincia gigante di Ghawar in Arabia Saudita.

È anche vero che parte del merito di tanta improvvisa ricchezza fu dovuta alle tecnologie importate dalle compagnie occidentali, che hanno potuto investire in quelle zone solo dopo la fine del monopolio sovietico. In quest'area agiscono le maggiori società mondiali come la Exxon, la Shell, la Eni e alcune compagnie iraniane, fattore che indica l'importanza strategica di questi giacimenti secondi solo al Medio Oriente.

18 ivi, p. 24. 19 ivi, p. 25.

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1.1.4 Il petrolio europeo

Fino alla metà del XX secolo, dove si susseguirono continue scoperte di giacimenti giganti in URSS, in Medio Oriente e ancora in America, nessuno aveva dato molta importanza al Mare del Nord, il bacino d'acqua chiuso su tre lati da terre emerse, aperto solo a nord verso il Mare Artico che bagna il nord Europa.

L'assetto geologico e il clima glaciale ne sconsigliavano l'esplorazione e gli investimenti, scoraggiati inoltre dalla scarsa produttività dei pozzi trovati fino a quegli anni20, ma nel

decennio 1950-1960 qualcosa iniziò a muoversi.

Nonostante i vari studi e test geofisici condotti sui fondali del bacino avevano ormai certificato la presenza di idrocarburi sedimentati, l'area non aveva mai suscitato particolare interesse alle grandi compagnie petrolifere fino a quando, nel 1959, venne effettuato un pozzo all'estremo nord-est delle coste olandesi presso Groningen, il quale ha portato alla scoperta di un campo di enorme potenzialità21, che poi risultò essere il più grande

giacimento metanifero dell'Europa e uno dei maggiori del mondo.

La certezza di abbondanti ricavi mise in movimento sia le compagnie petrolifere, che da quegli anni in avanti iniziarono l'esplorazione sistematica dei fondali, sia le cancellerie dei paesi limitrofi, dato che non era ancora stato stabilito a chi sarebbe appartenuto il petrolio estratto. Nel 1964, a Ginevra, venne raggiunto l'accordo con la fissazione delle aree di pertinenza norvegese, danese, olandese, britannica e qualche anno dopo quella dell'allora Germania Occidentale.

Ma estrarre idrocarburi dal Mare del Nord si rivelò terribilmente caro, e inoltre v'era la necessità che i prezzi si mantenessero sempre alti sul mercato internazionale altrimenti l'olio norvegese e inglese non sarebbero stati più competitivi.

L'impulso decisivo all'esplorazione dell'intera area fu la scoperta, nel 1969, dell'accumulo gigante di Ekofisk, che diede inizio al boom petrolifero della regione.

Nel 1970-1971 vennero scoperti altri giacimenti enormi, tra cui i britannici Forties e Brent, e proprio quest'ultimo darà il suo nome al greggio ancora oggi utilizzato come riferimento di mercato22.

20 «Dove in 35 anni s'erano estratti appena 3,5 milioni di tonnellate di greggio». ivi, p. 26.

21 G. Testa, Il distretto petrolifero: struttura e funzionamento: il caso Val d'Agri, Milano, FrancoAngeli, 2012, p. 152.

22 L. Maugeri, L'era del petrolio: mitologia, storia e futuro della più controversa risorsa del mondo, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 155-156.

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Lo sfruttamento delle riserve del Mare del Nord ha avuto inizio nel 1970, poco prima della crisi petrolifera del 1973, e il successivo aumento dei prezzi internazionali del petrolio ha fatto sì che i grandi investimenti necessari per l'estrazione divenissero molto più interessanti e frequenti, dati i costi di produzione particolarmente elevati in questa regione. In fin dei conti bisogna ammettere che la produzione e le riserve del Mare del Nord non sono mai risultate eccezionali o sorprendenti, né sotto l'aspetto quantitativo né per le rese finanziarie, ma nonostante ciò hanno fornito comunque una modesta autonomia europea nell'approvvigionamento delle materie prime energetiche essenziali. Però, è anche vero che:

il tasso di estrazione del petrolio e del gas britannici nel Mare del Nord abbiano raggiunto il picco nel 1999-2000. Negli ultimi trent'anni il petrolio del Mare del Nord ha dato un'enorme spinta economica al Regno Unito; ma nel giro di qualche anno la Gran Bretagna cesserà di essere un esportatore di petrolio e avrà bisogno d'importare crescenti quantità di greggio per tenere in piedi la sua economia23.

Alcuni dati indicano come tutta l'area del Mare del Nord abbia già raggiunto il picco delle estrazioni nel 1999, quando venivano prodotti all'incirca sei milioni di barili al giorno. Negli ultimi anni alcune grandi società ne hanno interrotto l'estrazione e dal 2000 lo sfruttamento di questi pozzi è diminuito continuamente a causa dell'esaurimento delle riserve.

23 R. Heinberg, La festa è finita. La scomparsa del petrolio, le nuove guerre, il futuro dell'energia, Roma, Fazi Editore, 2004, pp. 197-198.

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1.1.5 Il caso specifico dell'Italia

Anche in Italia, fin dalla seconda metà del 1800, era scoppiato l'interesse per il petrolio. Lo sviluppo del motore a scoppio e dell'automobile stimolarono particolarmente la ricerca attraverso prospezioni sia in territorio nazionale sia oltre i confini.

La prima spedizione all'estero, iniziata nel 1911 in Libia, non ebbe molta fortuna, dato che gli sforzi furono concentrati maggiormente nella ricerca d'acqua nel deserto, ma non venne trovata né l'acqua né l'olio minerale, risorse che in realtà sono piuttosto abbondanti in questo paese anche se sarebbero state localizzate e poi sfruttate dal governo di Gheddafi soltanto a partire dagli anni Ottanta24.

La generalizzata scarsità di materie prime, incluso il carburante, che afflisse le forze armate durante il secondo conflitto mondiale, diede un ulteriore impulso per la creazione di un ente che si occupasse delle risorse energetiche a livello nazionale.

In realtà nel 1926, durante il regime fascista, era già stata creata l'Agip, l'Azienda Generale Italiana Petroli. Ma a causa dei vari insuccessi appunto, e degli elevati costi di mantenimento, una volta terminata la guerra lo Stato aveva deciso di smantellare l'azienda, che si salvò solo grazie al profondo impegno e all'astuzia di Enrico Mattei, che invece di assecondare le direttive del Governo riorganizzò l'azienda fondando nel 1953 l'ENI, l'Ente Nazionale Idrocarburi.

Mattei, per tutta la sua vita, diede anima e corpo nel suo progetto: la sua idea “rivoluzionaria” di intraprendere nuovi rapporti più equi con le nazioni produttrici si affermò progressivamente su tutti i mercati internazionali, senza trascurare il territorio italiano.

A partire dagli anni Cinquanta le aree più promettenti vennero sottoposte a ripetute campagne di prospezione geofisica, che effettivamente svelarono la presenza di idrocarburi: la Pianura Padana, ricca di gas, l'area dell'Emilia Romagna (e il Nord Adriatico)(Monte Alpi in Val d'Agri), dove sono stati effettuati diversi ritrovamenti di piccoli giacimenti di petrolio; o in Sicilia, dove si registrarono i giacimenti di Ragusa, dell'agrigentino e, nel 1959, il successo di Gela Mare 21, il primo pozzo europeo offshore, dimostrando così l'alto livello tecnologico e imprenditoriale ormai raggiunto dall'industria petrolifera italiana.

(22)

Le disastrose conseguenze ambientali però, certificate e visibili attraverso le modificazioni della superficie di campagna che si ripetevano di anno in anno (con conseguente abbassamento dai 30 cm ai 2 m all'anno e il devastante arretramento della linea di costa), consigliarono la chiusura degli impianti nel 1961. Nonostante le quantità presenti sul territorio nazionale non garantiscano nessun tipo di indipendenza energetica, i giacimenti non sfruttati potrebbero però costituire una riserva strategica importante a disposizione del Paese in caso di eventuali future crisi internazionali.

Negli ultimi sessant'anni sono stati comunque esplorati all'incirca 6.500 pozzi in tutti il territorio nazionale, l'80% in terraferma e il 20% in mare. Sommando le riserve note, l'Italia occupa il quarto posto fra i paesi produttori dell'Europa occidentale dopo la Norvegia, l'Olanda e il Regno Unito, i tre grandi del Mare del Nord25.

Sfortunatamente, queste piccole quantità di idrocarburi presenti nel nostro Paese son ben lontane da un qualsiasi concetto di autosufficienza, Paese che manifesta fra l'altro un forte squilibrio tra disponibilità e consumi. L'autosufficienza metanifera terminò nel 1973, e da allora la produzione nazionale non è più aumentata se non con cifre irrisorie

Fonte:

http://www.indexmundi.com/energy.aspxcountry=it&product=ngl&graph=production

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e dall'ultimo ventennio tende piuttosto a diminuire, dato che le riserve sono in continuo esaurimento. Per quanto riguarda i consumi interni invece, e quindi anche le importazioni, questi sono andati crescendo negli anni a causa dell'aumento generale della popolazione e delle quasi inesistenti risorse sfruttabili in territorio nazionale. Lo Stato italiano è così costretto ad importare il 90% del gas naturale necessario al proprio fabbisogno energetico, posizionando l'Italia come quarto paese al mondo per importazioni di gas (preceduto da Stati Uniti, Germania e Giappone)26.

Anche per quanto riguarda il petrolio la differenza fra disponibilità e fabbisogni è apparsa da sempre incolmabile27, ponendo il Paese in una condizione di forte dipendenza dalle

forniture provenienti dall'estero. In Italia gli approvvigionamenti di gas arrivano principalmente dalla Russia e dall'Algeria attraverso i condotti che attraversano il Canale di Sicilia. Il petrolio invece affluisce in modesta misura dagli oleodotti provenienti da est attraverso la penisola balcanica, e in prevalenza dal Medio Oriente tramite petroliere che si riforniscono nel Mediterraneo orientale e nel Mar Rosso, attraverso le rotte del Canale di Suez o la rotta transafricana.

26 D. Pescini, Italia: la geopolitica dei gasdotti di un paese che importa il 90% del proprio fabbisogno, in “Notizie geopolitiche – quotidiano online”, 12 aprile 2015. http://www.notiziegeopolitiche.net/?p=27133

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1.1.6 Medio Oriente

Il maggior numero di riserve di petrolio nel mondo certificate fino ad oggi, è ormai noto, sono situate nell'area del Golfo Persico, facendo del petrolio un prodotto (potremmo dire) in prevalenza islamico.

Questa condizione di quasi monopolio però non ha fatto altro che fomentare le tentazioni egemoniche latenti di alcuni Paesi dell'area, e non solo. Si è assistito a due casi di questo tipo con l'Iraq, prima contro l'Iran e poi contro il Kuwait (quando la regione deteneva il 70% delle disponibilità globali conosciute), e più recentemente con Bin Laden, che fece dell'Afghanistan il centro del suo progetto proprio mentre veniva certificata la massiccia presenza di idrocarburi in Azerbaijan, Kazakhstan e Turkmenistan. (Inoltre geograficamente l'Afghanistan rappresenta il tratto di unione fra i paesi turco-mongoli dei grandi rilievi asiatici e quelli arabi meridionali in un vasto insieme musulmano).

La peculiarità più importante dell'area del Golfo Persico consiste appunto nella massiccia presenza di campi giganti di petrolio, dove ad esempio «vi si concentrano sei dei dieci accumuli di più di due miliardi di tonnellate (2 Gt) ciascuno esistenti al mondo, ventidue dei ventotto con più di un miliardo di tonnellate (1 Gt)28.

Del resto il quadro geopolitico attuale non è nato di certo adesso, ma come ogni cosa ha delle profonde origini ben radicate nel passato. Già dal 1700, nella metà sud-orientale dell'impero turco era maturata la riforma del sistema religioso e sociale islamico, dalla quale si creò un movimento potente e persuasivo che, capeggiato da Muhammad Abd al-Wahab, all'inizio del 1800 era ormai padrone dell'Arabia centrale. I wahabiti, e il wahabismo, riuscirono a mantenere autonomo un importante nucleo territoriale nel cuore della penisola per quasi tutto il XIX, fino a quando nel 1900, complice il crollo dell'antico ordine, si arrivò alla formazione dello stato dell'Arabia Saudita.

Questi primi cambiamenti misero in allerta le vecchie potenze coloniali, in particolare Russia e Gran Bretagna: mentre gli zar annettevano una dopo l'altra le province più settentrionali (del Golfo), gli inglesi stabilirono un patto con Teheran in chiave antirussa. Anche la Germania, attraverso un'antica e solida amicizia con Istanbul, riuscì a penetrare nelle ricche province della Mesopotamia. Così la fine dell'era coloniale europea vide riflettersi gli stessi schieramenti anche nello scenario petrolifero internazionale.

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Dalla prima metà del 1900 si certificò la presenza di petrolio e si iniziarono a scoprire i primi pozzi in territorio persiano. La Corona britannica, ovviamente, non voleva e non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione di poter sfruttare queste immense risorse, così incaricò il giovane ministro Winston Churchill di occuparsene, il quale fondò poi la Anglo Persian Company. (Da allora fino all'inizio degli anni Cinquanta il greggio persiano rimase monopolio della Gran Bretagna).

A principio del XX secolo esistevano pochissimi stati arabi indipendenti, e l'attuale Iraq era una regione facente parte dell'Impero Ottomano. Il territorio che oggi forma l'Iraq consisteva di tre province: una a nord, con prevalenza curda sunnita; Baghdad al centro; e una regione a sud, costituita da una popolazione a grandissima maggioranza sciita.

Nei primi anni del 900 queste tre regioni vennero spartite tra tedeschi, inglesi e turchi, per esplorare le potenzialità del sottosuolo mesopotamico, e nel 1914 l'accordo raggiunto portò alla nascita della Turkish Petroleum Company, costituita per metà dalla Anglo Persian Company e l'altra metà suddivisa tra la Royal Dutch Shell e la Deutsche Bank.

Poi scoppiò la Prima guerra mondiale e l'assetto geopolitico cambiò: le truppe britanniche occuparono la Mesopotamia, e quelle francesi penetrarono in Siria e Libano, eliminando definitivamente la presenza di Berlino nell'area e tentando di escludere gli Stati Uniti già attivi nella penisola araba. Finita la guerra, con l'accordo di San Remo del 1920 vennero stabiliti nuovi confini per la spartizione delle terre all'interno dell'area, con lo scopo di ristabilire l'assetto del Medio Oriente e le rispettive zone d'influenza, oltre alla nascita e/o indipendenza di alcuni nuovi Stati, come ad esempio l'Iraq e la Palestina (quest'ultima sotto il protettorato britannico). «Crollato l'antico ordine ottomano, vi era stato sostituito un governo di stampo e metodo europeo, del tutto alieno agli usi locali»29.

Il futuro del paese appariva incerto, dato che gli stati mandatari erano interessati principalmente alle sicure rendite dagli scambi commerciali: infatti con l'accordo di Sanremo si prevedeva anche la possibilità per l'olio iracheno di trovare sbocco verso i porti del Mediterraneo attraverso i territori sotto mandato francese. Ma in realtà non esistevano ancora prove certe sull'esistenza di petrolio nel Paese.

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I primi indizi di una possibile presenza di greggio furono riscontrati tra il 1916 e il 1929 nel nord del paese, in territorio curdo, e solo nel 1927 si vide estrarre il primo olio: l'eruzione fu così potente che venne messa sotto controllo soltanto tre giorni dopo, dove la resa si rivelò subito di 90.000 barili/giorno.

Il successo di questo primo pozzo portò successivamente all'ispezione del terreno circostante, permettendo la scoperta dell'enorme anticlinale di Kirkuk, 70 miglia di lunghezza, non un unicum come il bacino di Ghawar in Arabia Saudita, ma pur sempre una struttura di una portata impressionante.

Fino agli inizi del 1930 l'Iraq basava il suo peso in campo petrolifero esclusivamente sui pozzi del nord: anche gli Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita stessa decollarono molto lentamente, dato che i tecnici inglesi continuavano a confermare l'aridità della zona, sia d'acqua in superficie che di petrolio nel sottosuolo.

Successivamente, in seguito all'arrivo di alcuni geologi statunitensi della Standard Oil of California, si riscontrarono i primi successi nel 1938 e nel 1940. Il ritrovamento di questi primi pozzi, e quindi la certezza della presenza di greggio in abbondanti quantità, portò la Standard Oil alla creazione dell'Aramco (Arabian American Oil Company) nel 1944, la compagnia petrolifera mista saudita e americana che «regalava ai petrolieri di oltre Atlantico enormi introiti dalla commercializzazione del greggio»30, configurandosi col

tempo come il punto di incontro degli interessi fra USA e Arabia Saudita dalla quale nacque poi la fitta collaborazione durata fino ad oggi.

Fino ai primi anni del 1950 il sottosuolo del Medio Oriente era praticamente in mano agli anglosassoni, con gli americani a Occidente e gli inglesi a est e a nord. Fu proprio durante questa fase che iniziarono le prime grandi scoperte e le prime tensioni politiche nell'area. Nel 1947-1948, dopo un'approfondita campagna di prospezioni nel deserto, venne trovato il bacino di Ghawar. Il primo olio venne spillato da un pozzo situato al nord di quello che sarebbe risultato poi essere un'enorme distesa, poi subito nel 1949 venne reso produttivo un altro pozzo più a sud, ed infine nel 1951 venne trovato un terzo pozzo situato a metà strada fra i due, deducendo che tutti quei giacimenti appartenevano a un'unica provincia petrolifera. Nel 1959 venne pronunciata l'ipotesi, abbastanza precisa, circa una prima analisi di riserva totale, valutata in 11,6 miliardi di tonnellate31.

30 «E la parte di profitti che restava in Arabia in realtà rientrava attraverso altrettanto enormi acquisti di armi prodotte negli USA». G. Lizza, Scenari geopolitici, Torino, UTET, 2009, p. 161.

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Oggi invece, secondo gli ultimi dati rilasciati dalla BP (British Petroleum), le riserve provate ammonterebbero a 36,5 miliardi di tonnellate32.

In quegli anni le esplorazioni proseguirono speditamente e fino al 1970 le scoperte si susseguirono con ritmi altissimi, incluso l'offshore, che già nel 1952 poteva vantare il primo ritrovamento di 4,2 miliardi di tonnellate (a Safanya).

Ma è tutta la regione a godere in quegli anni dei generosi risultati delle scoperte petrolifere: il piccolo Kuwait scoprì anch'esso di possedere bacini con miliardi di tonnellate di olio, secondo in volume solo all'Arabia Saudita. Anche gli Emirati Arabi e l'Oman parteciparono attivamente e con successo alla campagne petrolifere, mentre la Siria, il Libano e la Turchia si rivelarono piuttosto sterili, riscontrando le uniche tracce di greggio solo presso i confini con l'Iraq.

Interrotta dalle due guerre mondiali, nel 1950 decollò anche la produzione in Iran grazie ai due giacimenti giganti di Gach Saran e Agha Jari, anche se i territori petroliferi che contengono i 2/3 delle riserve iraniane sono localizzati vicino al confine con l'Iraq, (anche questo causa di diversi conflitti e tensioni).

L'innumerevole quantità di risorse rinvenute trasformò il Golfo Persico nella regione centrale del petrolio, ma ciò non fece altro che generare un susseguirsi di lotte, di guerre e crisi fra i poteri locali e l'Occidente.

Il primo segnale arrivò dall'Iran nel 1951, che dopo più di un secolo di ingombranti presenze straniere iniziò la propria rivoluzione interna: la Anglo Iranian venne nazionalizzata con la conseguente espulsione di tutti i tecnici stranieri, causando la reazione di USA e Regno Unito che bloccarono così tutte le forniture tecnologiche. Questa privazione fece ridurre di molto la produzione e mise il paese in ginocchio, che ricadde nella mani degli inglesi, ma soprattutto degli americani che avevano investito tanto in quell'area. Poi seguì un periodo di grande sviluppo che portò l'estrazione fino a 300 milioni di tonnellate, secondo solo all'Arabia Saudita33.

Una situazione analoga si presentò anche nel vicino Iraq che, dopo la scoperta di Kirkuk, continuò le ricerche arrivando alla nazionalizzazione di nuove aree limitrofi nel 1961 che permisero un aumento delle quantità estratte, anche se nonostante ciò queste raggiunsero solo la metà rispetto a quelle dell'odiato vicino Iran.

32 BP statistical review of world energy 2014, disponibile presso http://www.bp.com. 33 A. Biancotti, C. Biancotti (eds.), op. cit., p. 52.

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Dal 1970 in poi fu tutto un susseguirsi di stragi e di tensioni: la crisi del 1973, la politica dell'OPEC, la rivoluzione iraniana di Komehini del 1979, la guerra con l'Iraq (la prima guerra del petrolio, la seconda guerra del petrolio) con l'invasione di quest'ultimo ai danni del Kuwait e il successivo embargo imposto dall'ONU. Tutti questi eventi non fecero altro che creare forti insicurezze sull'approvvigionamento energetico, suscitando una continua incertezza riguardo le riserve e una grave instabilità politica, sia nei Paesi interni dell'area sia nei paesi consumatori esteri.

1.2 Le guerre del petrolio

Arrivati al 1980, il quadro geopolitico energetico del Golfo Persico appariva ormai chiaro, dove lungo un territorio relativamente piccolo che va dal Kuwait all'Iran vi si concentrano oltre 1/3 delle riserve petrolifere mondiali. Tutte le riserve del Kuwait e la maggior parte di quelle irachene e iraniane si trovano concentrate lungo questo spicchio di terra, nel quale «si succedono ambienti e popoli diversi accomunati dal dubbio privilegio di vivere sopra un oceano di petrolio»34.

In questo tratto di terra, o meglio di sabbia, da ovest verso est, troviamo: i quattro giacimenti giganti situati sotto il deserto del Kuwait; altri tre giacimenti giganti situati alla confluenza del Tigri e l'Eufrate, in territorio iracheno; infine i due giacimenti giganti iraniani di Gach Saran e Agha Jari, i secondi più grandi al mondo.

Fu proprio in questo contesto territoriale e geopolitico dove nacque il piano egemonico di Saddam Hussein, volto a impadronirsi delle risorse dei Paesi confinanti per raggiungere la vetta del potere petrolifero e mettendosi così alla pari dell'Arabia Saudita (con il rischio della nascita di un monopolio e/o dittatura del petrolio).

Il 1979 può essere considerato come un anno di svolta nel Medio Oriente. Ogni avvenimento accaduto a partire da quell'anno ha mutato profondamente non solo gli assetti di alcuni Stati, ma l'intero equilibrio geopolitico dell'area, avvenimenti che pesano e continueranno a pesare ancora sul futuro della regione.

Questi avvenimenti furono principalmente la rivoluzione iraniana “khomeinista”, l'invasione sovietica dell'Afghanistan, l'assalto alla grande moschea della Mecca e la firma del trattato di pace tra Egitto e Israele.

(29)

Bisogna dire inoltre che questi importanti avvenimenti si verificarono tutti nello stesso anno, generando una catena di conseguenza irreversibili.

Per quanto riguarda lo scoppio della rivoluzione iraniana khomeinista, gli Stati Uniti dell'allora presidente Jimmy Carter, contrario alle politiche di ingerenza esterna, decise di non reagire lasciando che il paese si “autodeterminasse”, non prevedendo però che la Repubblica islamica dell'Iran sarebbe diventata un regime fortemente strutturato e radicato e diventando poi ostile agli stessi USA. Da allora, l'importanza del problema ha fatto si che la risoluzione della questione iraniana diventasse per gli Stati Uniti una priorità.

Nello stesso anno vi fu l'assalto, sotto forma di insurrezione armata, «alla grande moschea della Mecca da parte di un gruppo di fanatici religiosi che accusavano la famiglia regnante saudita di tradire l'Islam a causa della loro sottomissione agli Stati Uniti e quindi alla corrotta cultura occidentale»35. Ciò confermò l'instabilità e la pericolosità dell'area, dove

neppure il conferimento del potere ai waabiti (la parte più conservatrice dell'Islam) poteva garantire la sicurezza contro i fondamentalisti. Da qui nacque una seconda priorità per gli Stati Uniti, oltre alla questione iraniana, cioè garantire tutti gli strumenti per tenere sotto controllo una società solo apparentemente stabile.

Nello stesso periodo, lo scontro a distanza tra le due superpotenze della Guerra Fredda sfociò nell'invasione dell'Afghanistan da parte delle truppe sovietiche, chiamate ufficialmente in soccorso dal regime filocomunista in carica.

Gli USA, pur non intervenendo direttamente, ottennero un successo, dato che assistettero sia alla cacciata dei soldati sovietici dall'Afghanistan sia al crollo dello stesso impero sovietico, stremato dalla dispendiosa e sanguinosa guerra36. Come nel caso dell'Iran, anche

in Afghanistan le circostanze sfuggirono successivamente di mano agli statunitensi che non riuscirono a tenere sotto controllo il paese, un tentativo (fallito) al quale cercarono di porre rimedio con l'occupazione iniziata nel 2001.

L'ultimo avvenimento, anche se di sostanza opposta ai precedenti, fu la firma del trattato di pace tra Egitto e Israele, quest'ultimo ancora non riconosciuto come Stato dagli altri paesi del Medio Oriente, motivo che aveva portato allo scoppio della guerra dello Yom Kippur e alla prima crisi energetica del 1973.

35 G. Lizza, op. cit., p. 175. 36 ivi, p. 176.

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Quest'evento rappresentò la conferma del fatto che dal 1979 gli Stati Uniti partecipavano ormai in maniera attiva nella maggior parte delle questioni interne al Medio Oriente, tentando invano di risolvere ogni dinamica regionale ad essi non congeniale.

L'esempio più eclatante fu appunto il tentativo di arginare la rivoluzione iraniana, e lo strumento scelto per combattere l'Iran fu il vicino Iraq di Saddam Hussein, che subito approfittò della causa statunitense per diversi (ovvi) motivi: l'Iran era un paese debole, isolato sul piano internazionale e disorganizzato a livello interno dalla rivoluzione komehinista37, fatto quest'ultimo che lo toccava in prima persona dato che anche la

maggioranza della sua popolazione era sciita e vedendo quindi la rivolta nel vicino Iran come una minaccia al suo stesso Stato.

Tutti questi fattori combaciavano perfettamente con quello che si rivelò poi essere il piano finale di Saddam Hussein, ovvero non la mera conquista dell'Iran, ma principalmente dei suoi enormi pozzi petroliferi (in questo modo, acquisito il dovuto potere, avrebbe successivamente potuto distaccarsi dagli USA e creare insieme all'Arabia Saudita un monopolio, o “duopolio”, del petrolio, stabilendo a chi rifornire e a quali prezzi).

Nel 1980 scoppiò così la Prima Guerra del Golfo Persico (o guerra Iran-Iraq), una guerra combattuta appunto tra l'Iraq, inizialmente appoggiato dagli USA, e l'Iran, che stava vivendo una rivoluzione interna epocale in corso.

Gli iracheni attaccarono per primi e senza nessuna dichiarazione ufficiale di guerra, cercando di sfruttare l'effetto sorpresa. Nonostante i primi successi, dopo qualche anno l'Iraq si trovò in difficoltà e dovette subire gli attacchi e le invasioni degli iraniani (che avevano ormai risvegliato il loro sentimento patriottico).

L'Iraq ricevette così il sostegno da parte di alcune potenze, europee e non, come la Francia, l'Italia, la Germania, la Gran Bretagna, la Cina e l'Egitto per la fornitura di armi, senza dimenticare i vecchi rapporti mai sopiti con l'Unione Sovietica. Intorno al 1985 entrò quindi in gioco l'ONU con le prime iniziative di pace e le missioni di pacificazione. Nel 1988, dopo 8 anni dallo scoppio delle ostilità che portarono i due paesi allo stremo, venne accettato il cessate il fuoco richiesto l'anno prima appunto dall'ONU, mettendo ufficialmente fine alla Prima Guerra del Golfo.

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Ma i piani egemonici e di conquista di Saddam non si fermarono, così decise di attaccare l'altro Stato vicino, il piccolo Kuwait, tentando anche qui di impadronirsi dell'oceano di greggio situato sotto il deserto, dando così l'inizio ad un nuovo conflitto armato conosciuto come la Seconda Guerra del Golfo Persico.

Tra tutti gli scontri e le guerre precedenti, il primo caso storico di scontro che forse può essere direttamente associato a una questione energetica fu l'attacco del Giappone contro gli Stati Uniti a Pearl Harbor. Da quando era emersa come potenza militare mondiale il Giappone, a causa dell'invasione della Manciuria nel 1931 e dell'attacco alla Cina nel 1935, entrò in diretto contrasto con gli Stati Uniti i quali, controllando insieme al resto dell'Occidente le forniture di quell'area che passavano attraverso l'Indocina, imposero un embargo totale delle forniture petrolifere.

A quel punto la situazione per il Giappone era diventata insostenibile e di contro mossa, tra cercare un compromesso con gli USA (magari ritirandosi dalla Cina), attaccare direttamente l'Indocina per impadronirsi dei campi petroliferi e risolvere il problema energetico, o attaccare direttamente l'America, fecero la scelta più rischiosa attaccando le basi situate in Hawaii38.

Nonostante la scelta non si rivelò delle migliori, l'attacco giapponese a Pearl Harbor può essere definito come il primo atto di guerra nella storia direttamente causata dal petrolio. Ad esempio, la guerra Iran-Iraq non sembrerebbe legata direttamente al petrolio, ma a problematiche territoriali. Viceversa, la Guerra del Golfo del 1991 fu chiaramente una questione di petrolio39 e può essere definita apertamente come la prima vera guerra per il

petrolio. Tutto iniziò per una disputa territoriale, nella quale il Kuwait veniva accusato di rubare petrolio dentro i confini iracheni. Ciò fu il pretesto perfetto per permettere a Saddam di sferrare per primo l'attacco, con l'intenzione poi di occupare il Paese. L'Iraq si trovava in una profonda crisi a causa delle enormi spese per la guerra contro l'Iran, e l'occasione di invadere uno Stato così ricco sembrava la soluzione ai problemi.

«La mancanza di difese naturali e la debolezza oggettiva delle forze armate kuwaitiane portò all'occupazione del paese e alla successiva reazione dell'ONU»40, che attraverso una

coalizione di Stati arabi e occidentali, capitanati dagli Stati Uniti, riuscirono ad espellere gli iracheni dal Kuwait con una breve ma sanguinosa campagna militare.

38 U. Bardi, op. cit., p. 157. 39 ivi, p. 160.

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Ma anche se la battaglia vera e propria durò solo qualche mese, la guerra invece non è mai veramente finita. Per la precisione, i bombardamenti e vari attacchi sul territorio iracheno continuarono fino al 2003. Circa dieci anni dopo lo scoppio della Prima guerra del Golfo, in uno scenario internazionale profondamente diverso, si scatenò la Seconda guerra del Golfo, la terza guerra del petrolio.

Ufficialmente, uno dei fattori che causò la guerra fu la preoccupazione, sia in Occidente sia in diversi paesi arabi, che l'Iraq stesse diventando un paese troppo potente avendo usato le sue considerevoli risorse petrolifere per armarsi di un esercito moderno e agguerrito. In realtà, come accennato in precedenza, oltre alla crisi dovuta alla guerra contro l'Iran e l'enorme dispendio di forze ed energie (e costi) per l'invasione del Kuwait, «nello stesso periodo l'embargo commerciale imposto dalle Nazioni Unite ha causato enormi danni all'Iraq, forse superiori a quelli combinati della guerra e dei bombardamenti»41.

A questo punto sorgono spontaneamente i dubbi sui veri motivi dell'attacco all'Iraq del 2003, e le giustificazioni del governo statunitense furono varie: si sentì parlare di lotta al terrorismo, all'integralismo islamico, di scontro di civiltà, di liberazione delle minoranze kurde o shiite, di lotta alle armi di distruzione di massa, ecc.

L'unico vero fondamento su cui (forse) potrebbero basarsi queste ragioni è l'attentato dell'11 settembre 2001 alle Twin Towers di New York, che hanno rivelato al mondo l'esistenza di reti terroristiche ben organizzate (miranti alla ricostruzione dell'antico califfato anche attraverso l'egemonizzazione delle rendite petrolifere). Potremmo dire che a partire da quel momento iniziò la lotta al terrorismo internazionale.

Così gli Stati Uniti, mentre si preparavano già per l'invasione dell'Afghanistan, considerato come il centro del fondamentalismo rappresentato dalla nuova figura di Bin Laden, chiesero di invadere l'Iraq questa volta con l'intento di voler eliminare definitivamente Saddam Hussein, considerato anch'egli come uno degli artefici dell'attentato.

Mentre l'ONU si trovava divisa difronte l'opportunità di una nuova campagna contro Baghdad, e in mancanza di aggressioni palesi e/o di prove certe circa l'esistenza di armi di distruzioni di massa, la guerra venne dichiarata ugualmente sotto l'iniziativa delle due potenze anglosassoni, le quali essendo state storicamente egemoni all'interno della regione erano quelle che avevano profuso i maggiori sforzi durante la guerra dell'ONU per la liberazione del Kuwait.

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