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CAPITOLO II: LA CONVENZIONE DEI DIRITTI DEL FANCIULLO E DELL’ADOLESCENTE DEL 1989 58

2.3 I principi fondamentali

2.3.1 Il principio di non discriminazione

La Convenzione garantisce ai bambini di poter godere dei loro diritti senza alcuna discriminazione.

L’elemento che distingue una discriminazione s’incontra quando si trattano in modo diverso persone o situazioni simili, ma anche quando si trattano in modo simile persone o situazioni diverse. In ogni caso non tutte le differenze di trattamento sono discriminatorie; lo sono soltanto quelle prive di una giustificazione oggettiva, cioè quelle sprovviste di uno scopo e che non prendono in considerazione gli effetti che possono produrre95. Due

95 BESSON SAMANTHA, Il principio di non discriminazione in Vent’anni d’infanzia:

retorica e diritti dei bambini dopo la Convenzione dell’Ottantanove, BELLOTTI VALERIO e RUGGIERO ROBERTA, (a cura di), Milano, Edizioni Angelo e Guerini, 2008, pp. 125 e ss.

forme di discriminazione sono capaci di gravare negativamente sul principio di parità del trattamento: la discriminazione diretta e quella indiretta.

La discriminazione diretta è presente quando, per la razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in situazione simile. La discriminazione è indiretta invece quando una disposizione, un atto, un patto o un comportamento in apparenza imparziali possono mettere le persone di una determinata razza, religione o etnia in una posizione di particolare svantaggio96. “Sono altresì considerati discriminazioni anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.”97

L’art. 2 della Convenzione sui diritti del Bambino e dell’Adolescente afferma che gli Stati parti “si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli ad ogni bambino che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del bambino o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine azionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza”. Quest’impegno universale costituisce un elemento fondamentale di qualunque strumento sui diritti umani; infatti già altri documenti internazionali e regionali, hanno presentato delle garanzie del principio di non discriminazione. Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 l’art. 2 afferma: “ognuno è titolare di tutti i diritti e di tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzioni di nessun tipo, come quelle di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione,

96 MORO ALFREDO CARLO, op., p. 70.

97 Ibidem.

di opinioni politiche o di altre genere, di origine nazionale o sociale, di proprietà, di nascita o di altra condizione”. Allo stesso modo nel Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 e nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo del 1950 vengono raccomandate agli Stati parti il rispetto dei diritti di libertà senza discriminazioni di alcun tipo.

In questi documenti però il bambino non è nominato se non per fissare misure speciali di protezione rivolte a contrastare la specifica discriminazione contro di essi, ad esempio l’art. 24.1 del Patto internazionale sui diritti civili e politici stabilisce che: “ogni bambino, senza discriminazione di razza, colore, sesso, lingua, religione, origine nazionale o sociale, proprietà o nascita, avrà diritto alle misure di protezione richieste dalla sua condizione di minore da parte della famiglia, della società e dello Stato”.

Queste norme prevedono unicamente la possibilità di approntare speciali misure di protezione in favore dei bambini e la necessità di garantire che esse non abbiano valore di discriminazione98. Per cui in questi documenti il minore è ancora visto come semplice oggetto che richiede protezione e tutela in quanto egli non è considerato in grado e non possiede le caratteristiche per poter partecipare e conoscere i suoi diritti.

È solo negli anni Ottanta che le cose incominciano a cambiare, quando nel 1989 la Convenzione sui diritti del Bambino e dell’Adolescente, mise in primo piano tra gli aspetti fondamentali il principio di non discriminazione (art. 2).

Nonostante l’art. 2 della Convenzione del 1989 sia simile a quello di altre disposizioni internazionali sui diritti umani che garantiscono il principio di non discriminazione, esso è l’unico promotore della tutela del bambino contro le discriminazioni a lui direttamente rivolte e “riconosce sia la condizione e i bisogni particolari dei bambini, legati alla loro specifica situazione di dipendenza, sia, al tempo stesso, il loro diritto a molti degli

98 Cfr. BESSON SAMANTHA, op., pp.135-142.

stessi basilari diritti umani e di libertà fondamentali già riconosciuti agli adulti.”99

La forza innovatrice e la fondamentale importanza dell’art. 2 della Convenzione diviene evidente quando nell’elencare i motivi di discriminazione garantisce espressamente il diritto di tutela a specifici gruppi di bambini che potrebbero essere particolarmente vulnerabili alla discriminazione, come: i bambini portatori di disabilità, i bambini stranieri privi di documenti, i bambini resi orfani dall’AIDS o i bambini appartenenti a gruppi etnici autoctoni. Nelle clausole antidiscriminatorie dei documenti internazionali degli anni Cinquanta e Sessanta, queste categorie di bambini che richiedono una tutela specifica a causa della loro frequente discriminazione, non venivano considerati se non come oggetti bisognosi di

“cure speciali”.

Purtroppo però ancora oggi la disparità nella realizzazione dei diritti dell’infanzia sono evidenti in tutti i Paesi soprattutto in quelli in via di Sviluppo, dove i bambini rischiano maggiormente di venire esclusi e trascurati. Particolarmente a rischio di discriminazione sono i bambini e ragazzi che si trovano in situazioni di svantaggio o bisogno, o semplicemente le minoranze: i minori, specie se non accompagnati, i richiedenti asilo o i rifugiati, i bambini disabili o ospedalizzati, i bambini che appartengono a famiglie in situazioni di disagio economico, i bambini nati al di fuori del matrimonio, i minori appartenenti a minoranze etniche, linguistiche, religiose, i minori rom, sinti e camminanti, i bambini senza una famiglia e i minorenni negli istituti penali100.

Partendo da questa realtà diseguale il principio di non discriminazione enunciato nella Convenzione può rappresentare il punto di partenza dal

99 Ibidem, cit. p. 142.

100 AA.VV., Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, 4° rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, 2007-2008, Gruppo CRC, Roma, 2008.

quale gli Stati instaurino a livello nazionale, locale e internazionale una collaborazione per cercare di rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione della tutela contro ogni forma di discriminazione, mettendo a disposizione delle vittime di discriminazione gli strumenti adatti a far valere il proprio diritto, per fare in modo che ogni bambino minore di anni diciotto disponga di uguali opportunità di crescita e di sviluppo.

Nonostante sia indubbia l’importanza dell’articolo 2 della Convenzione sui diritti del Fanciullo e dell’Adolescente, bisogna prestare attenzione a non adottare misure di tutela troppo rigide e inclusive nei confronti delle minoranze particolarmente vulnerabili alla discriminazione, in quanto possono anche involontariamente avere conseguenze distruttive causando l’allontanamento di questi gruppi dalla società e favorire la “ghettizzazione”

di alcuni casi di discriminazione dei bambini101. 2.3.2 Il principio del superiore interesse

L’articolo 3.1 della Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo afferma che “in tutte le decisioni relative ai bambini, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del bambino deve essere una considerazione preminente”102.

Questo principio chiave sta alla base di tutta la tutela giuridica e dell’assistenza del soggetto di minore età e delle pratiche nelle quali il

101 Cfr. BESSON SAMANTHA, op., p. 156.

102 Numerosi altri articoli della Convenzione fanno esplicito riferimento all’interesse preminente del fanciullo: in relazione alle diverse disposizioni della Convenzione, l’interesse preminente del fanciullo è menzionato o precisato con riferimento ai suoi legami familiari, alla continuità della propria educazione, alla sua origine etnica, religiosa culturale o linguistica. In particolare: art. 18. 1: “Gli Stati parti si devono adoperare al massimo per garantire il riconoscimento del principio secondo cui entrambi i genitori hanno comuni responsabilità in ordine all’allevamento ed allo sviluppo del bambino. La responsabilità di allevare il fanciullo e di garantire il suo sviluppo incombe in primo luogo sui genitori o, all’occorrenza, sui tutori. Nell’assolvimento del loro compito essi debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo”; art. 21: “Gli Stati parti che riconoscono e/o autorizzano il sistema dell’adozione devono accertarsi che l’interesse superiore del fanciullo costituisca la principale preoccupazione in materia[…]”.

bambino stesso dovesse trovarsi coinvolto. Il principio del superiore interesse richiede agli Stati parti di esaminare ogni loro azione in base alle possibili conseguenze sui bambini. “Proprio sul concreto ed effettivo perseguimento dell’interesse del bambino deve ruotare tutta l’azione delle istituzioni pubbliche o private in ambito minorile, dovendo necessariamente essere l’interesse non un concetto generico e astratto bensì una reale valutazione in considerazione del bambino nella sua concretezza e unicità”103.

Il principio è stato introdotto per la prima volta nei documenti internazionali dal 1959, quando fu incluso nella Dichiarazione dei Diritti del Bambino. In seguito è stato inserito in altri documenti come la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne del 1979104 e in altre indagini giuridiche al livello internazionale, per esempio nella giurisprudenza relativa alla Convenzione europea sui diritti umani in cui il Comitato per i diritti umani definisce “l’indubbio diritto e dovere di una corte interna di decidere nel migliore interesse del bambino”.

Nonostante il principio sia già stato riconosciuto nei documenti sopranazionali, esso doveva ancora acquisire un contenuto specifico o essere oggetto di uno studio minuzioso che ne chiarisse l’esatto contenuto.

Infatti, gli altri provvedimenti citati, non si erano posti lo scopo di riconoscere i diritti dei bambini, in quanto essi erano considerati solo come oggetti più che soggetti dei diritti; di conseguenza l’interesse della comunità internazionale e le leggi promulgate erano più centrate sui diritti di altri gruppi, quelli ad esempio delle donne. Invece, la formulazione dell’interesse superiore del bambino contenuta nell’art. 3.1 della Convenzione del 1989

103 MILANESE FRANCESCO e BARES FABIA MELLINA, op., cit. p. 78.

104 L’art. 5.b della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne del 1979 afferma che: “gli Stati membri devono intraprendere tutte le misure appropriate “al fine di far sì che l’educazione familiare contribuisca alla comprensione che la maternità è una funzione sociale e che uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura di allevare i figli e di assicurare il loro sviluppo, restando inteso che l’interesse dei figli è in ogni caso la considerazione principale.

sottolinea il fatto che il concetto si applichi non solo in procedimenti legali o giudiziari ma “in tutte le decisioni relative ai bambini”,e richiede che il principio di interesse del minore appaia come criterio guida primario che deve accompagnare ogni iniziativa relativa ai fanciulli attraverso l’individuazione di meccanismi di tutela effettivamente operanti105.

Al termine superiore interesse del minore si possono attribuire due significati. Il primo si riferisce all’interpretazione della Convenzione del 1989, secondo cui, il concetto può essere riferito alla necessità che ogni decisione che riguardi un minore sia adottata tenendo presente il suo esclusivo benessere, e in questo caso l’interesse del minore conserva il grado di una categoria giuridica. Il secondo significato pone l’accento sulla pura discrezionalità nella valutazione e quindi nell’attuazione di interventi a favore o sfavore di ciò che è bene o male per un minore e ciò comporta un giudizio privo di qualunque giustificazione oggettiva. In questo caso l’interesse del minore non ha alcun significato giuridico ma rappresenta una formulazione paternalistica ad alto rischio d’imprecisione e di falsificazione106.

Partendo da queste considerazioni si è sviluppato un ampio dibattito, con forti contrapposizioni tra i giuristi, in merito alla possibile definizione della nozione di superiore interesse del minore. Moro A.C. riconosce il bambino come titolare e portatore di diritti soggettivi perfetti. Tuttavia la stessa nozione di diritto soggettivo può essere insufficiente a tutelare in maniera esaustiva il minore perché troppo rigida e limitata. Per questo il concetto di interesse del minore deve sopperire le mancanze del diritto soggettivo e diventare la pietra cardine e di confronto dell’ordinamento giuridico, in quando esso non rappresenta un’attenuazione di un diritto di cui è portatore

105 ALSTON PHILIP, Il principio del «migliore interesse»: verso una riconciliazione tra cultura e diritti umani in Vent’anni d’infanzia: retorica e diritti dei bambini dopo la Convenzione dell’Ottantanove, Bellotti Valerio e Ruggiero Roberta, (a cura di), Milano, Edizioni Angelo e Guerini, 2008.

106 DOSI GIANFRANCO, L’avvocato del minore, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 7 e 8.

il minore, ma è un giudizio utile a cui la legislazione fa ricorso per valutare nel caso di conflitti, ad esempio nei casi di divorzio o in quelli riguardanti l’adozione, la preminente attenzione al bambino. Moro A.C. riconosce la correlatività del principio del superiore interesse con il caso concreto, per questo esso deve esser mutabile nel tempo e rapportato al soggetto, alla sua età, alla sua storia precedente, alla sua personalità e alla realtà storica e sociologica in cui il bambino è immerso per capire al meglio le tradizioni e la cultura che compone la sua soggettività. Per questo, per analizzare quale sia il migliore interesse del bambino, la valutazione non deve essere composta solo da elementi giuridici, talvolta rigidi e informali, ma è indispensabile utilizzare accanto alla legislazione anche altri saperi come quelli psicologici, sociologici e pedagogici.

Altri giuristi accusano l’art. 3.1 della Convenzione di essere un po’ vago, indeterminato, una “nozione magica”, sfumata dai contorni non ben delineati. Dosi G. “In questa situazione di approssimazione giuridica l’interesse del minore ha assolto finora ad una funzione di cuscinetto; una sorta di passepartout discrezionale in nome del quale da un capo all’altro della penisola sono prese quotidianamente, attingendo al soggettivismo e alla discrezionalità, decisioni una diversa dall’altra.”107

Questa interpretazione mette in chiaro la differenza sia strutturale sia normativa tra l’ambito dei diritti e quella dell’interesse. L’area dei diritti in ambito minorile comporta l’accrescimento e una maggiore tutela di un determinato diritto, che può avvenire concretamente se esplicitata in una legge. Invece l’area dell’interesse per il bambino può presentarsi solamente come pretesa al corretto esercizio del potere e si tratta di una valutazione non basata su fondamenti giuridici, ma unicamente sulla sensibilità e la vicinanza al caso che rappresenta il minore. È quindi il diritto soggettivo secondo questa prospettiva il fondamento della tutela del minore ed è esso che garantisce la comparsa dell’interesse nel minore.

107 DOSI GIANFRANCO, op. cit. p. 7.

È importante non confondere o sottovalutare la differenza tra interesse e diritto, in quanto l’interesse del minore non può sostituire il diritto soggettivo, perché è solo questo ad essere garantito dalla legislazione108. In questa visione che sollecita l'abbandono della nozione d'interesse del minore per adottare quella di diritti del minore, l'interesse sarebbe un concetto debole, in quanto esclude (a differenza dei diritti soggettivi) la sua attuazione concreta.

Indizi evidenti del passaggio dalla valutazione dell’interesse del minore a quella dei suoi diritti sono stati colti nella Convenzione del 1989 e nella Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del minore del 25 gennaio 1996 (ratificata in Italia con la legge 20 marzo 2003). In quest’ultima Convenzione si attribuiscono al minore che abbia sufficiente capacità di discernimento specifiche abilità processuali109. La Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia ha rappresentato il primo passo di questo cammino in quanto ha individuato una serie di situazioni in cui si ritiene che il minore debba essere maggiormente possessore di diritti soggettivi ma, tuttavia, non prevede una diretta azionabilità dei propri diritti da parte del minore, ed anche quando gli dà spazio nel processo (art. 12) lo fa sotto forma “di ascolto” e non di attribuzione di capacità di stare in giudizio. È in questo contesto che la Convenzione europea fa una scelta più incisiva. Essa prende le mosse dalla Convenzione internazionale e mira a promuovere ulteriormente i diritti che quella Convenzione ha riconosciuto;

essa tende ad attribuire al minore non solamente la titolarità, ma anche l'esercizio del suo diritto e, quindi, anche la capacità di ricorrere al giudice quando quel diritto gli è negato. Si tende così ad andare da un'individuazione dei diritti oggettivi a quella di diritti soggettivi.

108 Ibidem.

109 Ibidem.

In ogni caso a conclusione del suo saggio Dosi rileva che “l’analisi tradizionale che viene proposta in dottrina e fatta dalla giurisprudenza, soprattutto minorile, della categoria interesse del minore, ha condotto verso un appiattimento di questa categoria sempre più legata al soggettivismo e alla discrezionalità di chi la usa. In queste condizioni l’interesse del minore ha finito per perdere qualunque capacità di orientamento e si è rilevata una categoria ad altissimo rischio di approssimazione, utilizzata sostanzialmente al posto di quella di diritto soggettivo; così che interessi e diritti del minore si sono sovrapposti confusamente l’uno all’altro non solo nel dibattito dei giuristi ma anche nelle sentenze dei giudici”110. Quindi è bene avere una visione olistica del concetto di superiore interesse del minore, adeguandolo ai molteplici e diversi casi della vita, in quanto esso non esprime una nozione assoluta, ma un insieme di prospettive e parametri relativi che devono essere tenuti simultaneamente in considerazione.