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Problemi metodologici ed epistemologic

6. L'estetica e il darwinismo: modalità di interazione

6.1. Problemi metodologici ed epistemologic

I paragrafi precedenti sono serviti a suggerire legittimità, storica e teorica, e opportunità di una ricerca disposta sul doppio versante dell'estetica e della biologia. Restano qui da enucleare, almeno in via preliminare, i principali problemi metodologici ed epistemologici che pone un programma di ricerca di estetica evoluzionistica, problemi ai quali si cercherà di rispondere in concreto, confrontandosi di volta in volta con i casi e le difficoltà specifici, nei capitoli successivi.

Il primo problema, come detto, concerne il modo in cui vanno intesi i concetti di “estetica”, “attitudine estetica”, “senso estetico”. Gli estetologi evoluzionisti contemporanei, come vedremo, utilizzano il termine “estetico” secondo significati anche molto distanti tra loro: “estetico” come preferenza di caratteri sessuali ad alto valore riproduttivo (è il caso degli psicologi evoluzionisti); “estetico” come preferenza di tratti ambientali (è il caso della cosiddetta environmemntal aesthetics); “estetico” come modalità espressiva di relazionarsi col mondo e i propri simili (è il caso, ad esempio dell’antropologa Ellen Dissanayake); “estetico” come produzione di opere d’arte. Nel paragrafo precedente abbiamo proposto una “definizione di lavoro” dell’estetico come “attitudine percettiva”: una certa modalità, non strettamente funzionale, di esplorare il mondo traendo piacere (o dispiacere) da tale esplorazione. È chiaro che un’attitudine non fossilizza, né fossilizzano i neuroni e i circuiti neurali che l’hanno sostenuta in senso neuro-biologico: come scrive l’etologo Giorgio Vallortigara (2011, p. 5), “gli organismi viventi [sono] gli unici che possiamo studiare direttamente per ciò che riguarda il comportamento e i tessuti molli come il cervello”108. 108 In G. Vallortigara, La mente che scodinzola. Storie di animali e cervelli, Milano, Mondadori 2011, p. 5. Di G. Vallortigara si veda anche il dettagliato e utile Altre menti. Lo studio comparato della cognizione animale, il Mulino, Bologna 2000.

Fossilizzano, al massimo, gli oggetti, i manufatti, a cui tale attitudine può eventualmente aver dato origine. Come accennato, però, prendere le mosse dalle prime attestazioni di produzioni artistiche nella nostra specie non è nostro intento in questo lavoro, e oltretutto il passaggio da artefatto ad attitudine o facoltà che può averlo prodotto è spesso rischioso. Le ricostruzioni proposte nei capitoli successivi sul passato evolutivo del senso estetico nella nostra specie saranno dunque per forza di cose

congetturali109, basate soprattutto sul confronto con il comportamento attuale di specie animali più o meno vicine a noi nella classificazione filogenetica.

Un'ulteriore difficoltà implicata da un progetto di ricerca sulle origini evolutive del senso estetico è legata alla prospettiva multidisciplinare che esso inevitabilmente esige: occorre che paleoantropologia, psicologia cognitiva, biologia evoluzionistica, antropologia, archeologia preistorica, estetica e storia dell’estetica recuperino una minimale piattaforma comune di dialogo e confronto, al di là delle legittime specificità disciplinari. Lavorare all’intersezione tra più domini disciplinari è infatti l’unica via per tentare di ovviare all’indisponibilità di dati “decisivi” in merito all’evoluzione del senso estetico. Detto altrimenti, si tratta di circoscrivere uno spazio di ricerca e gettare sullo stesso “specchio d’acqua” molte reti dalle maglie diverse, nella speranza che qualcosa, infine, riesca a essere guadagnato110.

Nella nostra ricerca sulle origini evolutive del senso estetico è inevitabile che si muova da quella che, per la nostra specie, è l’esperienza estetica. Una delle obiezioni che potrebbero essere mosse a un progetto di ricerca impostato in questo modo è il taglio “antropomorfico”, che suppone negli animali non umani rudimenti o precursori di una facoltà che si dà nella sua compiutezza solo nella nostra specie. Già Darwin aveva 109 Quando si affrontano problemi complessi come l'origine dell'arte o dell'estetico, in prospettiva evolutiva, la congetturalità è inevitabile. Cfr. a proposito, S. Davies, The Artful Species, cit., p. 43: “I don’t mean to fault theories for being speculative in part, especially if they acknowledge the extent to which they go beyond the evidence. But where a range of very different proposals about the evolutionary significance of some behavior are in competition, with none clearly established as superior to all others, which is often the case where aesthetics and art are the topic, it will be more appropriate to reserve judgment than to opt for what we might like to be true”.

110 Si consideri, ad esempio, il programma di ricerca di Richard Prum, che propone un’interpretazione dell’arte come coevoluzione di segnali comunicativi e valutazione di questi segnali, entro un orizzonte rigorosamente interdisciplinare: “I propose that the disciplines of aesthetics, art criticism, and art history should encompass both humans and non-human organisms, and that they should span evolutionary biology, behavioral biology, psychology, and the humanities. […] this coevolutionary aesthetic theory is based on the understanding that the subjective, individual, sensory and cognitive experiences of humans and non-human animals can have (genetic or cultural) evolutionary consequences that are independent of, and not reducible to, natural selection”, Richard O. Prum, Coevolutionary aesthetics in human and biotic artworlds, Biol Philos (2013) 28, pp. 811-832, p. 829.

messo in guardia da questo rischio, scrivendo nel Taccuino N che “arguing from man to animals is philosophical”, cioè “argomentare sugli animali partendo dall’uomo è filosofico”, e certo l’espressione “filosofico”, in questo caso, non vale come un complimento. Difficilmente, tuttavia, si può prescindere dalla propria, umana, esperienza, sicché occorreranno tutte le cautele del caso per garantire il riconoscimento dell’autonomia e della specificità del senso estetico nelle altre specie animali.

La mancanza di una definizione condivisa e univoca su ciò che si intende per “estetica” ed “estetico” – il primo problema da tenere in conto, come detto, per un progetto di ricerca di estetica evoluzionistica, e al quale abbiamo tentato di ovviare, certo solo provvisoriamente, con la nostra “definizione di lavoro” – può lasciar adito al sospetto che l'intero programma di “storia naturale dell’estetico” rappresenti un classico caso di

fallacia naturalistica alla Moore. È senz'altro l'obiezione più radicale che può venirci

mossa.

Come noto, il filosofo George Moore, autore dei Principia Ethica (1903), argomentava circa l’impossibile riduzione a proprietà naturali di concetti cardine dell’etica come il “buono” e il “giusto” a partire dal fatto che fosse difficile dare di essi una definizione precisa. Si trattava infatti, per Moore, di intuizioni primitive, non derivabili in alcun modo da proprietà naturali. E se valesse lo stesso anche per il bello? È vero che, se qualcuno ci chiede di definire che cosa è bello, noi non possiamo rispondere elencando caratteristiche precise (fisiche, chimiche, matematiche, in generale “naturali”) in grado di “fare” il bello. La bellezza non è un concetto, asseriva Kant, e non è neppure “un predicato. Lo dimostrano ex negativo tutti i vani tentativi di derivare la “bellezza” di qualcosa da determinate proprietà adducibili di cose o di persone, siano esse proporzioni, simmetrie, sezioni auree o […] serie di Fibonacci”111. La bellezza è una proprietà relazionale sopravveniente, emergente rispetto alle proprietà naturali degli oggetti e non riducibile a esse112. Che senso ha, dunque, una storia “naturale” della bellezza e del senso estetico, volta a ricostruirne il passato evolutivo? In che termini ricercarne l’origine “naturale”, senza però ridurla a proprietà naturale?

Siamo persuasi che il problema dell’origine della bellezza e del senso estetico nella nostra specie e in altre specie animali non possa essere risolto confidando in una 111 G. Böhme, voce: Bellezza in Le idee dell'antropologia, 2 voll., a cura di Ch. Wulf, Milano, Bruno Mondadori 2002, p. 858.

112 Cfr., su questo punto, F. Desideri, On The Epigenesis of the aesthetic mind, cit., soprattutto i paragrafi 4, 5, 6.

eventuale scoperta scientifica: come vedremo, né una dotazione genetica né un qualche modulo psicologico possono, di per sé, spiegare l’estetico. In questo senso, il monito wittgensteiniano coglie nel segno: “Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le

possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono

neppure toccati”113 e l’estetico tra di questi. Crediamo comunque che ci sia una qualche via d'uscita a queste obiezioni e si tratterà dunque di problematizzare possibilità e limiti della cosiddetta “naturalizzazione” dell’estetico, questione che discuteremo in conclusione di questo lavoro, nell’ultimo capitolo, dopo aver tentato, nei due precedenti capitoli, un esperimento di “naturalismo in atto”, che ne testi difficoltà e risorse.

Questi sono dunque i problemi e le difficoltà metodologiche e di merito cui è esposto un programma di ricerca di estetica evoluzionistica. Occorrerà dimostrare, nonostante i rischi di cui si è detto, che vale comunque la pena intraprendere l’impresa: lo sviluppo del presente lavoro ambirà a esserne testimonianza. Nel confronto con le scienze della vita e nell’acquisizione di dati e risultati sperimentali, alla filosofia è assegnato un compito ben più vasto che la mera critica metodologica: il compito “propositivo” di immaginare soluzioni, suggerire interpretazioni, mettere a fuoco i problemi e indagarli in tutte le loro sfaccettature. Le scienze sperimentali, in un programma di indagine come è quello dell'estetica evoluzionistica, potranno , da un lato, corroborare con i loro risultati le intuizioni della filosofia, e sfruttarne, dall'altro, le suggestioni, le sollecitazioni e il patrimonio di concettualità consolidate per la pianificazione e la definizione dei loro progetti di ricerca.