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La protezione dei richiedenti asilo criminalizzati in ragione dell’orienta- dell’orienta-mento sessuale nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani

TRA BIOETICA E DIRITTI UMANI

EUROPEO E IN QUELLO ITALIANO

2. La protezione dei richiedenti asilo criminalizzati in ragione dell’orienta- dell’orienta-mento sessuale nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani

Nel continente europeo, com’è noto, opera un efficace meccanismo di controllo sul rispetto dei diritti umani incentrato sulla Corte di Strasburgo, organo giurisdi-zionale istituito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima, all’art. 14, bandisce qualsiasi discriminazione nel beneficio delle situazioni giuridiche soggettive contemplate. Sebbene tra le cause di discriminazione vietate non figuri l’orientamento sessuale, questo può ben essere fatto ricadere nella formula “ogni altra condizione”, riportata a chiusura della norma. Il prot. n. 12, adottato nel 2000 ed entrato in vigore nel 2005, sancisce poi un divieto generale di discriminazione appli-cabile alle situazioni giuridiche soggettive garantite dall’ordinamento statale12.

Prima di passare ad esaminare la giurisprudenza, alquanto esigua, della Corte di Strasburgo con riguardo alla protezione dall’allontanamento di gay e lesbiche, ci sembra opportuno richiamare alcune sentenze nelle quali è stato affermato il divie-to di discriminazione nei confronti delle suddette persone e il diritdivie-to delle stesse di vivere liberamente la propria vita privata e familiare (diritto tutelato dall’art. 8 CEDU). Va innanzitutto precisato che la ‘vita privata’ comprende sia il diritto a godere di una sfera esclusiva di intimità personale, sia l’identità sociale, intesa quale “diritto allo sviluppo personale e (…) di stabilire e mantenere rapporti con altri esseri umani”13. Il leading case in materia di tutela dell’orientamento sessuale è rappresentato dalla sentenza Dudgeon c. Regno Unito del 198114, con la quale lo Sta-to convenuSta-to è staSta-to ritenuSta-to responsabile della violazione dell’art. 8 CEDU a causa

11 A tal riguardo, appaiono di fondamentale importanza le direttive fornite dall’UNHCR nel documento Guidelines On International Protection No. 9, cit., in particolare p. 58 e ss.

12 Al momento in cui si scrive l’Italia non ha ancora provveduto a ratificare il Protocollo in questione.

13 Corte EDU, Pretty c. Regno Unito, ricorso n. 2346/02, sentenza del 29 aprile 2002, par. 61. Al riguardo si rinvia a Cesare Pitea, Laura Tomasi, Art. 8, in Sergio Bartole, Pasquale De Sena, Vladimiro Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla convenzione europea dei diritti dell'uomo, Padova, 2012, p.

298 e ss.

14 Corte EDU, Dudgeon c. Regno Unito, ricorso n. 7525/76, sentenza del 22 ottobre 1981. Si vedano altresì le sentenze Norris c. Irlanda, ricorso n. 10581/83, del 26 ottobre 1988; Modinus c. Cipro, ricorso n.

15070/89, del 22 aprile 1993.

delle disposizioni penali, in vigore in Irlanda del Nord, che sanzionavano i rappor-ti tra adulrappor-ti consenzienrappor-ti dello stesso sesso. Il giudice di Strasburgo ha precisato che

“the very existence of this legislation continuously and directly affects his private life [del ricorrente, n.d.A.]: either he respects the law and refrains from engaging – even in private with consenting male partners – in prohibited sexual acts to which he is disposed by reason of his homosexual tendencies, or he commits such acts and thereby becomes liable to criminal prosecution” (par. 41 – corsivo aggiunto).

Tale orientamento è stato poi ribadito nella sentenza Modinus c. Cipro del 1993, nella quale il giudice della CEDU si è spinto a sostenere che la presenza di norme incriminatrici delle relazioni tra persone dello stesso sesso viola la vita privata e familiare anche qualora le stesse non siano di fatto applicate.

Malgrado, con la giurisprudenza sopra richiamata, la Corte di Strasburgo abbia precorso i tempi con riguardo alla tutela dalla discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale, la questione sulla quale ci soffermeremo non ha dato origine, fino a questo momento, ad una giurisprudenza significativa: possono in-fatti contarsi solo poche decisioni di non ricevibilità o di radiazione dal ruolo, ma nessuna sentenza nel merito.

A partire dal 198915 il giudice della CEDU ha affermato il principio in base al quale l’allontanamento configura la violazione del dettato convenzionale “where substantial grounds have been shown for believing that the person concerned, if deported, faces a real risk of being subjected to treatment contrary to Article 3”16, che gli stessi siano imputabili ad organi statali o ad agenti privati17. La responsabi-lità che si viene a configurare non è del Paese di destinazione, generalmente estra-neo alla CEDU, ma dello Stato Parte che, adottando o attuando un provvedimento di espulsione o di rimpatrio, ha esposto il ricorrente al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti o tortura. Ad essere vietato è sia l’allontanamento diretto verso un Paese nel quale il ricorrente potrebbe subire trattamenti vietati, sia quello indiretto, qualora vi sia il rischio che lo stesso possa essere ulteriormente respinto fino a trovarsi in una situazione di pericolo. Il principio del non-refoulement ricavato dal divieto di tortura di cui all’art. 3 CEDU ha portata assoluta e inderogabile, e trova applicazione indipendentemente dalla condotta del ricorrente. Al fine di verificare se sussistono motivi ragionevoli per ritenere che, una volta attuato l’allontanamento, il ricorrente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani e degradanti e/o tortura, gli elementi da prendere in considerazione sono la situa-zione personale del ricorrente e quella generale del Paese di destinasitua-zione, per la

15 A partire dalla sentenza Soering c. Regno Unito, ric. n. 14038/88, del 7 luglio 1989, par. 91.

16 Corte EDU, Sufi e Elmi c. Regno Unito, ricorsi n. 8319/07 e n. 11449/07, sentenza del 28 giugno 2011.

Sul divieto di allontanamento ricavato dall’art. 3 CEDU si consenta di rinviare al nostro “La protezione dello straniero in fuga da situazioni di violenza generalizzata nella CEDU e nella direttiva ‘qualifiche’”, in A.A.V.V., Percorsi Migranti, Milano, pp. 47-58, e bibliografia ivi indicata.

17 Corte EDU [GC], H.R.L. c. Francia, ricorso n. 11/1996/630/813, sentenza del 22 aprile 1997, par. 91.

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ricostruzione della quale possono acquisire rilievo le informazioni fornite dalle organizzazioni internazionali. La Convenzione europea non contempla il diritto d’asilo, pertanto l’organo di controllo da essa istituito non può sindacare sul dinie-go della protezione da parte delle autorità statali. Nondimeno anche i richiedenti asilo cadono nell’ambito di applicazione ratione personae della CEDU qualora, in seguito al rigetto della domanda di riconoscimento di detto status, vengano allon-tanati verso un Paese nel quale siano a rischio di trattamenti vietati dall’art. 3 della Convenzione18.

I principi sinteticamente richiamati sopra hanno consentito di estendere la pro-tezione garantita dal dettato convenzionale a situazioni altrimenti non contempla-te. Malgrado i ragguardevoli sviluppi registrati in alcuni settori, la questione della tutela dall’allontanamento di gay e lesbiche che nel Paese di destinazione possano subire trattamenti e pene inumani e degradanti e/o tortura in ragione dell’orientamento sessuale non ha ancora costituito oggetto, come si è anticipato, di una giurisprudenza significativa. Vengono in rilievo, innanzitutto, le due decisioni di non ricevibilità rese nel 2004, concernenti due cittadini iraniani fuggiti dal Paese di origine perché omosessuali19. Entrambi avevano raccontato di essere stati arre-stati, di aver subito abusi da parte della polizia a causa del proprio orientamento sessuale e di aver deciso, una volta rilasciati, di abbandonare l’Iran, la cui legisla-zione punisce con la pena capitale le relazioni tra persone dello stesso sesso. Tutta-via, la credibilità dei due ricorrenti era stata messa in dubbio sia dalle autorità na-zionali, che avevano negato lo status di rifugiato, sia dalla Corte europea, che ha escluso che corressero un rischio reale di trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU in caso di rimpatrio. Dai rapporti consultati per ricostruire la situazione del Paese di origine emergeva infatti che, sebbene la pena di morte fosse prevista in caso di relazioni tra persone dello stesso sesso, non fosse di fatto applicata dal 1995. Appa-re sconcertante che il giudice della CEDU, pur riconoscendo la generale disaffezio-ne delle autorità iraniadisaffezio-ne per i diritti umani e la condiziodisaffezio-ne di grave vuldisaffezio-nerabilità vissuta dalle persone LGBTI in Iran, non abbia riscontrato il rischio per i ricorrenti di subire violazione della propria integrità psico-fisica nel caso fossero stati costret-ti a rientrare. In F. c. Regno Unito il suddetto organo è giunto addirittura ad affer-mare che “the applicant was unlikely to face difficulties from the Iranian authori-ties in respect of homosexual activity conducted in private”, ed anche che “it cannot be required that an expelling Contracting State only return an alien to a country

18 In argomento Nuala Mole, Asylum and the European Convention on Human Rights, Council of Europe Publishing, Strasburgo, 2008; Andrea Saccucci, “Diritto di asilo e Convenzione europea dei diritti umani”, in Chiara Favilli (a cura di), Procedure e garanzie del diritto di asilo, Milano, 2011, p.147 ss.

19 Corte EDU, F. c. Regno Unito, ricorso n. 17431/03, decisione del 22 giugno 2004; I.I.N. c. Paesi Bassi, ricorso n. 2035/04, decisione del 9 dicembre 2004.

which is in full and effective enforcement of all the rights and freedoms set out in the Convention” p. 12, corsivo aggiunto)20.

L’approccio adottato dalla Corte di Strasburgo nei casi in esame è incompatibile con le direttive dell’UNHCR, che ritiene non applicabile, quando si tratti di perso-ne provenienti da Paesi perso-nei quali le relazioni omosessuali sono sanzionate, il ‘test della discrezione’, già abbandonato peraltro da molti Stati di accoglienza dei ri-chiedenti asilo. Ad avviso dell’Alto Commissariato e di numerosi tribunali interni non si può pretendere che una persona viva con riservatezza il proprio orientamento sessuale perché ciò comporterebbe una rinuncia alla propria identità. Come emer-ge chiaramente dalla definizione fornita dai Principi di Yogyakarta del 2007, l’ ‘orien-tamento sessuale’ non può essere ridotto tout-court alle scelte sessuali, ma deve essere interpretato in maniera ampia, come “each person’s capacity for profound emotional, affectional and sexual attraction to, and intimate and sexual relations with, individuals of a different gender or the same gender or more than one gen-der”21.

Ad essere criticabile, nell’iter argomentativo seguito dal giudice della CEDU per rigettare la ricevibilità dei ricorsi presentati dai due richiedenti asilo iraniani, sono anche altri due elementi. Innanzitutto, l’orientamento adottato nelle decisioni in esame contrasta con quello, sopra illustrato, cui lo stesso giudice della CEDU era giunto nel pronunciarsi sui casi Dudgeon, Norris e Modinus, con riguardo ai quali era stato precisato che le norme sanzionatrici dell’omosessualità violano la vita privata della persona anche quando non sono concretamente applicate. Nel valuta-re la fondatezza del rischio corso dai due richiedenti asilo iraniani, invece, tali norme non sono state ritenute di per sé persecutorie, e ciò malgrado il fatto che ad essere in gioco era, nei casi di specie, un valore fondamentale e non bilanciabile con altri interessi statali, ovvero l’integrità psico-fisica della persona (tutelata dall’art. 3 CEDU). La Corte ha invece attribuito considerazione alla circostanza che la pena capitale non era di fatto applicata e che le persone LGBTI non venivano perseguite attivamente. Il clima generale di discriminazione e intolleranza nei confronti di gay

20 Corte EDU, F. c. Regno Unito, cit., p. 12. Un concetto analogo viene espresso anche in I.I.N. c. Paesi Bassi, cit., p. 12. Va precisato che tale passaggio si riferisce all’esame nel merito dell’art. 8 CEDU, che, come ricordato dalla Corte, tutela diritti soggetti a bilanciamento, dai quali non deriva un’interdizione assoluta in capo agli Stati contraenti di espellere il ricorrente, come quando a rilevare sono gli artt. 2 e 3.

21 Yogyakarta Principles. Principles on the application of international human rights law in relation to sexual orientation and gender identity, redatti nel 2007 da parte di un gruppo di esperti di diritti umani (funzionari di organi internazionali, giudici, accademici, attivisti). Si tratta di un insieme di principi, accompagnati ciascuno da raccomandazioni rivolte agli Stati, sull’attuazione dei diritti umani indipendentemente dal genere e dall’orientamento sessuale, e sono la risposta agli abusi e alle discriminazioni subiti dalle persone LGBT in tutto il mondo. I Yogyakarta Principles non hanno valore giuridicamente vincolante, tuttavia sono stati richiamati da organi delle Nazioni Unite, corti interne e istituzioni europee. Cfr. Michael O’Flaherty, John Fisher, “Sexual Orientation, Gender, Identity and International Human Rights Law: Contextualizing the Yogyakarta Principles”, in Human Rights Law Review, 2008, pp. 207 ss.

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e lesbiche in Iran non è stato pertanto ritenuto sufficiente a riscontrare il rischio di trattamenti inumani e degradanti22. A tal proposito si vuole ricordare che, secondo la Guidance Note dell’UNHCR, “The very existence of such laws [sanzionatrici delle relazioni tra persone dello stesso sesso, n.d.A.], irrespective of whether they are enforced and the severity of the penalties they impose, may have far-reaching ef-fects on LGBTI persons’ enjoyment of their fundamental human rights”, e che ciò è particolarmente evidente quando la pena consiste nell’esecuzione capitale o nelle punizioni fisiche (par. 17).

L’altro elemento criticabile cui si faceva cenno riguarda l’onere della prova ri-spetto al rischio lamentato dal richiedente asilo in caso di rimpatrio. Sia in I.I.N. c.

Paesi Bassi, sia in F. c. Regno Unito, le affermazioni del ricorrente non sono state ritenute credibili23. Tuttavia è nota la difficoltà per i richiedenti asilo in generale, ed in particolare per quelli LGBTI, di fornire mezzi di prova attendibili, tenuto conto che sono spesso costretti a vivere di nascosto il proprio orientamento sessuale, e che le stesse autorità statali del Paese di origine possono avere tutto l’interesse ad occultare le evidenze delle discriminazioni subite dagli stessi24. D’altronde le fonti utilizzate per ricostruire la situazione generale dei Paesi di origine possono non essere soddisfacenti, se si considera che persino molti Stati europei mancano di dati dettagliati sulle discriminazioni subite da gay e lesbiche25. Ad avviso dell’Alto Commissariato per i rifugiati, al richiedente asilo che sostenga di essere a rischio di maltrattamenti in ragione dell’orientamento sessuale dovrebbe essere riconosciuto il beneficio del dubbio, anche quando non possa fornire prove documentali come fotografie, testimonianze scritte, articoli di giornale26. Viene inoltre precisato che il compito delle autorità statali è quello di verificare il rischio che il ricorrente corre-rebbe, in futuro, in seguito al rimpatrio, e non l’aver già subito, prima di abbando-nare il Paese di origine, tortura o altre violenze fisiche. In quanto agli esami medici e psichiatrici utilizzati in alcuni Stati per verificare l’orientamento sessuale del

22 Marco Balboni evidenzia che l’iter argomentativo adottato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Sufi e Elmi c. Regno Unito (ricorsi n. 8319/07 e 11449/07, sentenza del 28 giugno 2011) “può fare pensare che la violenza massiccia e diffusa nei confronti di certe minoranze sessuali, in particolare quando queste siano visibili, può dar luogo a una protezione contro il rischio obiettivo di persecuzione”. M. Balboni, op. cit., p. 188.

23 Thomas Spijkerboer, “Subsidiary and ‘Arguability’: the European Court of Human Rights’ Case Law on Judicial Review in Asylum Cases”, in International Journal of Refugee Law, 2009, p. 48 ss.

24 Al riguardo si rinvia altresì al commento della sentenza I.I.N. c. Paesi Bassi, cit., disponibile al sito

<www.duit.it>.

25 COE, Discrimination on grounds of sexual orientation and gender identity in Europe, 2011; FRA, Homo-phobia and Discrimination on grounds of sexual orientation in the EU Member States. Part II – The social situation (updated version), 2009, p. 129.

26 UNHCR, Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato, ai sensi della Convenzione del 1951 e del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, 1992, p. 196.

richiedente, questi possono essere considerati alla stregua di trattamenti inumani e degradanti27.

Alla luce delle osservazioni che precedono, a noi sembra che la Corte europea avrebbe dovuto quantomeno svolgere un’analisi più attenta, sia sotto il profilo della situazione personale dei ricorrenti in caso di allontanamento, sia sotto il pro-filo di quella generale del Paese di destinazione. Va tuttavia osservato che si tratta di decisioni risalenti ai primi anni Duemila, quando nell’ordinamento internazio-nale non si era ancora consolidato un orientamento di favore nei confronti delle persone LGBTI. Purtroppo, anche i casi giunti all’attenzione del giudice della CE-DU più di recente non sono stati oggetto di un esame nel merito. Ci si riferisce a R.A. c. Francia28, D.B.N. c. Regno Unito29 e K.N. c. Francia30, tutti radiati dal ruolo, i primi due perché i legali non avevano più notizie dei ricorrenti, rispettivamente un cittadino pakistano e una cittadina dello Zimbabwe, che avevano volontariamente fatto perdere le proprie tracce; l’ultimo citato perché la Francia aveva accettato di esaminare la richiesta di asilo del ricorrente, cittadino iraniano, malgrado sulla base del regolamento Dublino31 la competenza fosse della Grecia. Sarebbe stato interessante capire quale posizione avrebbe adottato la Corte di Strasburgo, anche alla luce degli sviluppi più recenti della sua giurisprudenza, in particolar modo con riguardo alla richiedente asilo dello Zimbabwe (caso D.B.N. c. Francia), la cui credibilità non era in dubbio, né rispetto all’orientamento sessuale, né rispetto alle persecuzioni subite in ragione dello stesso (violenze, stupro, maltrattamenti, anche da parte dei familiari).

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