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Punti fermi (e critici) sulla soggettività attiva

Nel documento Il dolo nella bancarotta (pagine 110-132)

L’estensione della bancarotta ai soggetti diversi dall’imprenditore e alle procedure concorsuali diverse dal fallimento

1. Punti fermi (e critici) sulla soggettività attiva

Dopo aver lumeggiato le profonde differenze intercorrenti tra bancarotta pre- e post-fallimentare, occorre approfondire l’analisi dell’estensione della soggettività attiva del delitto di bancarotta nonché porre a raffronto l’‘insolvenza’ e lo ‘stato di crisi’, chiarificando le peculiarità e le criticità della disciplina posta dall’art. 236, commi 2 e 3, l.f., recentemente aperta alla rilevanza anche degli accordi di ristrut- turazione dei debiti e delle convenzioni di moratoria con intermediari finanziari. Queste riflessioni, rivolte alle molteplici ‘forme di manifestazione’ del tipo di bancarotta incentrato sull’imprenditore individuale fallito, condurranno allo svi- luppo e alla maturazione di ulteriori distinzioni concettuali che completeranno la ‘fattispecie oggettiva’ dei delitti di bancarotta.

Com’è noto, il soggetto attivo della bancarotta propria è l’imprenditore com- merciale secondo la nozione privatistica1, ovverosia chi svolge in via continuativa e

professionale un’attività economica organizzata allo scopo dello scambio di beni o di servizi (art. 2082 c.c.), a prescindere dall’obbligo di iscrizione al registro delle imprese (art. 2195 c.c.). Ciò posto sul fronte formale, dal punto di vista sostanziale occorre l’assunzione in proprio delle obbligazioni inerenti all’impresa e il concreto esercizio dell’attività, che deve manifestarsi nell’impiego delle facoltà previste dalla legge; dal punto di vista fallimentare, peraltro, la novella del 2005-2007, intervenen- do anche sulle soglie di fallibilità (art. 1 l.f.), ha nei fatti ristretto il campo solo alle imprese connaturate da un esercizio effettivo dell’attività.

Non va messa in ombra la rilevanza dell’imprenditore ‘occulto’, che, per le più varie ragioni, non compare con regolarità formale all’interno dell’impresa: quest’ultimo, al pari del suo omologo ‘manifesto’, può fallire in proprio e concorrere nei reati di bancarotta2. Si tratta, anzi, di una delle fenomenologie criminali più dif-

1 C. Pedrazzi, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. soc., 1962, 220 ss.; Al. Rossi, I reati fallimentari, cit., 79. Contra A. Pagliaro, Il delitto di bancarotta, cit., 56 ss., secondo cui la bancarotta

costituirebbe un reato proprio dell’imprenditore commerciale fallito.

2 La questione del fallimento in proprio dell’imprenditore occulto è pacifica in giurisprudenza (Cass.

civ., Sez. Un., 7 giugno 2002, n. 8257, in Foro it., 2002, 3082), nonostante non manchino discordanti posizioni dottrinali: cfr. S. Bonfatti, P. F. Censoni, Lineamenti di diritto fallimentare, Padova 20172, 258

diversità ontologica dei presupposti delle procedure concorsuali, ed il conseguente grado di approfondimento dell’offesa al bene protetto, se dovesse intervenire il fal- limento la restituzione riparatrice potrebbe ipotizzarsi, naturalmente a patto che sia del tutto satisfattiva; in questo senso, peraltro, sembra potersi leggere la giurispru- denza che ritiene impossibile omologare in toto le procedure (proprio in ragione dell’offesa portata ai creditori, soprattutto ai fini della loro successione nel tempo), affermando parimenti che «la sentenza dichiarativa di fallimento […] ricapitola in sé quanto occorso in precedenza e, per il versante penale, fornisce maggiore sostanza nell’elemento costituivo dei reati concorsuali»224.

224 Cass. pen., Sez. V, 30 giugno 2011, n. 31117, in CED, rv. 250588.

Capitolo III

L’estensione della bancarotta ai soggetti diversi dall’imprenditore

e alle procedure concorsuali diverse dal fallimento

1. Punti fermi (e critici) sulla soggettività attiva

Dopo aver lumeggiato le profonde differenze intercorrenti tra bancarotta pre- e post-fallimentare, occorre approfondire l’analisi dell’estensione della soggettività attiva del delitto di bancarotta nonché porre a raffronto l’‘insolvenza’ e lo ‘stato di crisi’, chiarificando le peculiarità e le criticità della disciplina posta dall’art. 236, commi 2 e 3, l.f., recentemente aperta alla rilevanza anche degli accordi di ristrut- turazione dei debiti e delle convenzioni di moratoria con intermediari finanziari. Queste riflessioni, rivolte alle molteplici ‘forme di manifestazione’ del tipo di bancarotta incentrato sull’imprenditore individuale fallito, condurranno allo svi- luppo e alla maturazione di ulteriori distinzioni concettuali che completeranno la ‘fattispecie oggettiva’ dei delitti di bancarotta.

Com’è noto, il soggetto attivo della bancarotta propria è l’imprenditore com- merciale secondo la nozione privatistica1, ovverosia chi svolge in via continuativa e

professionale un’attività economica organizzata allo scopo dello scambio di beni o di servizi (art. 2082 c.c.), a prescindere dall’obbligo di iscrizione al registro delle imprese (art. 2195 c.c.). Ciò posto sul fronte formale, dal punto di vista sostanziale occorre l’assunzione in proprio delle obbligazioni inerenti all’impresa e il concreto esercizio dell’attività, che deve manifestarsi nell’impiego delle facoltà previste dalla legge; dal punto di vista fallimentare, peraltro, la novella del 2005-2007, intervenen- do anche sulle soglie di fallibilità (art. 1 l.f.), ha nei fatti ristretto il campo solo alle imprese connaturate da un esercizio effettivo dell’attività.

Non va messa in ombra la rilevanza dell’imprenditore ‘occulto’, che, per le più varie ragioni, non compare con regolarità formale all’interno dell’impresa: quest’ultimo, al pari del suo omologo ‘manifesto’, può fallire in proprio e concorrere nei reati di bancarotta2. Si tratta, anzi, di una delle fenomenologie criminali più dif-

1 C. Pedrazzi, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. soc., 1962, 220 ss.; Al. Rossi, I reati fallimentari, cit., 79. Contra A. Pagliaro, Il delitto di bancarotta, cit., 56 ss., secondo cui la bancarotta

costituirebbe un reato proprio dell’imprenditore commerciale fallito.

2 La questione del fallimento in proprio dell’imprenditore occulto è pacifica in giurisprudenza (Cass.

civ., Sez. Un., 7 giugno 2002, n. 8257, in Foro it., 2002, 3082), nonostante non manchino discordanti posizioni dottrinali: cfr. S. Bonfatti, P. F. Censoni, Lineamenti di diritto fallimentare, Padova 20172, 258

fuse, che spesso vede l’imprenditore ‘di diritto’ punibile proprio nel caso in cui ab- bia dolosamente contribuito, perlopiù facendo da ‘schermo’, all’attività criminale dell’imprenditore occulto; analogamente, e con maggior frequenza, accade in seno ai contesti societari.

1.1 – Sulla rilevanza dei requisiti di fallibilità

La modifica operata con le riforme degli anni Duemila ai limiti cumulativi posti dall’art. 1 l.f. per la fallibilità ha condotto a sviluppare una serie di notevoli questio- ni di diritto intertemporale delle quali occorre dar brevemente conto, specialmente per evidenziare le rationes che ne hanno orientato la risoluzione.

Da un punto di vista strettamente penalistico, in effetti, la modifica in senso re- strittivo dei presupposti per la fallibilità risulterebbe idonea, quantomeno in astratto, a incidere sulla configurazione dei delitti di bancarotta in qualità di lex mitior inter- veniente su di un elemento normativo di fattispecie, nella forma della modifica de- terminante una parziale abolitio criminis. Proprio in questa direzione si mosse la prima giurisprudenza di merito intervenuta sul punto, anche provvedendo alla revo- ca di sentenze passate in giudicato, sulla scorta della considerazione per cui, modifi- cando i termini della qualificazione soggettiva dei reati di bancarotta, la riforma avesse indirettamente modificato il precetto dei delitti di bancarotta3.

Diversa fu la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità. In un primo momento, la Suprema Corte ebbe un moto di reazione verso questi approdi interpre- tativi, valorizzando allo scopo il dettato dell’art. 150 del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, secondo il quale «i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concorda- to fallimentare depositati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare presenti alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore». Attribuendo dignità penalistica ad una discipli- na transitoria chiaramente dettata agli esclusivi fini della giustizia civile, la Corte ebbe buon gioco a concludere che l’applicazione dell’art. 2 c.p. ai casi di specie avrebbe richiesto una previsione espressa da parte del legislatore della riforma4. Le

molteplici incongruenze di questa argomentazione, pur sorretta da comprensibili esigenze di certezza giuridica, paiono del tutto evidenti. In particolare, davvero non si comprende per quale motivo – al netto della rilevanza costituzionale (pur non as- soluta) del principio di retroattività della legge favorevole – sarebbe stata necessaria un’espressa previsione per applicare un principio generale del diritto penale: o si ammette che quest’ultimo non sia tale, e davvero non pare possibile; ovvero si ritie- ne che il prefato art. 150 abbia una valenza penalistica esplicita nel limitare la re- troattività in mitius, e si compie un’analogia in malam partem5.

3 In questi termini Trib. Modena, 8 maggio 2007, in Riv. pen., 2008, 301; Trib. Bassano del Grappa, 3

aprile 2007, in Riv. pen., 2007, 906; Trib. Piacenza, 23 marzo 2007, n. 271, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2007, 435 ss.; Trib. Bari, 5 febbraio 2007, in Foro it., 2008, 65; Trib. Trieste, 9 gennaio 2007, in Cass.

pen., 2007, 3024.

4 Così esplicitamente Cass. pen., Sez. V, 20 marzo 2007, n. 19297, in CED, rv. 237025. 5 Sul tema cfr. M. Donini, Per uno statuto, cit., 43.

Le aporie summenzionate furono percepite anche dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che mutò subito il proprio indirizzo in favore della piena applicabilità dell’art. 2, comma 2, c.p. al caso di specie, indipendentemente dalla presenza o meno dell’art. 150, il quale non si sarebbe potuto ritenere espressivo di una deroga al princi- pio di retroattività favorevole6; fu attribuita una precisa rilevanza alla modifica della

disciplina extrapenale in relazione alle qualifiche soggettive7, parimenti rilevando che

la legge non avrebbe inteso rendere ultrattivo lo status di imprenditore fallibile, ma soltanto occuparsi di regolare i termini di una intertemporalità tutta processual-civile8.

La questione pervenne alle Sezioni Unite, che aderirono al primo degli orienta- menti esposti sottolineando che la abolitio criminis ricorrerebbe solo nel caso in cui si verifichi un’incidenza della norma extrapenale sulla fattispecie astratta, essendo irrilevante la situazione di mero fatto che può derivare da una modificazione della legislazione civile. In questa prospettiva, sarebbe la stessa struttura dei delitti di ban- carotta – richiamando la sola dichiarazione di fallimento, e non espressamente le so- glie previste all’art. 1 – a negare la rilevanza dei parametri normativi necessari per pervenire ad un esito concorsuale: la sentenza dichiarativa, pertanto, assumerebbe rilevanza nella sua esclusiva veste di provvedimento giurisdizionale, con la conse- guenza che il giudice penale «non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimen- to non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato d’insolvenza dell’impresa, ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art. 1 legge fall. per la fallibilità dell’imprenditore, sicché le modifiche […] non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 cod. pen. sui procedimenti penali in corso»9.

Al netto delle argomentazioni giurisprudenziali, la questione va impostata di- stinguendo chiaramente le qualifiche di ‘imprenditore commerciale’ e di ‘fallito’.

La prima costituisce pacificamente il nocciolo della soggettività attiva della bancarotta assieme alle qualifiche societarie (amministratore, sindaco, etc.) e deve ritenersi afferente al Tatbestand: la connotazione del soggetto attivo attiene infatti alla sfera del bene giuridico tutelato, sia con riferimento ai reati propri esclusivi, sia

a fortiori con riguardo a quelli non esclusivi o semi-esclusivi, come nel caso dei de-

6 Così Cass. pen., Sez. V, 18 ottobre 2007, n. 43076, in Foro it., 2008, 65.

7 Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 23 maggio 1987, n. 8342, in CED, rv. 176406, con nota di C. E. Paliero, Le Sezioni Unite invertono la rotta: è “comune” la qualifica giuridico-penale degli operatori bancari, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 695 ss., e di P. Veneziani, Le qualifiche soggettive degli operatori bancari secondo le Sezioni Unite della Cassazione, in Giur. comm., 1988, II, 517 ss.

8 Ancora Cass. pen., Sez. V, 18 ottobre 2007, n. 43076, cit.

9 Cass. pen., Sez. Un., 28 febbraio 2008, n. 19601, cit., con nota di E. M. Ambrosetti, I riflessi penalisti- ci derivanti dalla modifica della nozione di piccolo imprenditore nella legge fallimentare al vaglio delle Sezioni Unite, in Cass. pen., 2008, 3602 ss.; C. Paonessa, Abolitio criminis e fallimento del piccolo im- prenditore, in St. iuris, 2008, 1146 ss.; P. Oldi, Sfumata l’occasione di elaborare linee guida sulla suc- cessione di leggi, in Guida dir., 2008, 26, 94 ss.; G. Gambogi, La sentenza delle Sezioni Unite n. 19601/08 in tema di bancarotta fraudolenta: una vera strage delle (fondate) illusioni, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2008, 282 ss.; V. Destito, Irrilevanza delle innovazioni legislative sui presupposti soggettivi del fallimento nei processi penali in corso, in Giur. it., 2008, 2592 ss.; V. Cardone, F. Pontieri, Le Se- zioni Unite chiariscono gli effetti della riforma della legge fallimentare sul reato di bancarotta, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2008, 267 ss.; A. Scarcella, Reati di bancarotta e (in)sindacabilità in sede penale della sentenza dichiarativa di fallimento, in Dir. pen. proc., 2009, 482 ss.

fuse, che spesso vede l’imprenditore ‘di diritto’ punibile proprio nel caso in cui ab- bia dolosamente contribuito, perlopiù facendo da ‘schermo’, all’attività criminale dell’imprenditore occulto; analogamente, e con maggior frequenza, accade in seno ai contesti societari.

1.1 – Sulla rilevanza dei requisiti di fallibilità

La modifica operata con le riforme degli anni Duemila ai limiti cumulativi posti dall’art. 1 l.f. per la fallibilità ha condotto a sviluppare una serie di notevoli questio- ni di diritto intertemporale delle quali occorre dar brevemente conto, specialmente per evidenziare le rationes che ne hanno orientato la risoluzione.

Da un punto di vista strettamente penalistico, in effetti, la modifica in senso re- strittivo dei presupposti per la fallibilità risulterebbe idonea, quantomeno in astratto, a incidere sulla configurazione dei delitti di bancarotta in qualità di lex mitior inter- veniente su di un elemento normativo di fattispecie, nella forma della modifica de- terminante una parziale abolitio criminis. Proprio in questa direzione si mosse la prima giurisprudenza di merito intervenuta sul punto, anche provvedendo alla revo- ca di sentenze passate in giudicato, sulla scorta della considerazione per cui, modifi- cando i termini della qualificazione soggettiva dei reati di bancarotta, la riforma avesse indirettamente modificato il precetto dei delitti di bancarotta3.

Diversa fu la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità. In un primo momento, la Suprema Corte ebbe un moto di reazione verso questi approdi interpre- tativi, valorizzando allo scopo il dettato dell’art. 150 del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, secondo il quale «i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concorda- to fallimentare depositati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare presenti alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore». Attribuendo dignità penalistica ad una discipli- na transitoria chiaramente dettata agli esclusivi fini della giustizia civile, la Corte ebbe buon gioco a concludere che l’applicazione dell’art. 2 c.p. ai casi di specie avrebbe richiesto una previsione espressa da parte del legislatore della riforma4. Le

molteplici incongruenze di questa argomentazione, pur sorretta da comprensibili esigenze di certezza giuridica, paiono del tutto evidenti. In particolare, davvero non si comprende per quale motivo – al netto della rilevanza costituzionale (pur non as- soluta) del principio di retroattività della legge favorevole – sarebbe stata necessaria un’espressa previsione per applicare un principio generale del diritto penale: o si ammette che quest’ultimo non sia tale, e davvero non pare possibile; ovvero si ritie- ne che il prefato art. 150 abbia una valenza penalistica esplicita nel limitare la re- troattività in mitius, e si compie un’analogia in malam partem5.

3 In questi termini Trib. Modena, 8 maggio 2007, in Riv. pen., 2008, 301; Trib. Bassano del Grappa, 3

aprile 2007, in Riv. pen., 2007, 906; Trib. Piacenza, 23 marzo 2007, n. 271, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2007, 435 ss.; Trib. Bari, 5 febbraio 2007, in Foro it., 2008, 65; Trib. Trieste, 9 gennaio 2007, in Cass.

pen., 2007, 3024.

4 Così esplicitamente Cass. pen., Sez. V, 20 marzo 2007, n. 19297, in CED, rv. 237025. 5 Sul tema cfr. M. Donini, Per uno statuto, cit., 43.

Le aporie summenzionate furono percepite anche dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che mutò subito il proprio indirizzo in favore della piena applicabilità dell’art. 2, comma 2, c.p. al caso di specie, indipendentemente dalla presenza o meno dell’art. 150, il quale non si sarebbe potuto ritenere espressivo di una deroga al princi- pio di retroattività favorevole6; fu attribuita una precisa rilevanza alla modifica della

disciplina extrapenale in relazione alle qualifiche soggettive7, parimenti rilevando che

la legge non avrebbe inteso rendere ultrattivo lo status di imprenditore fallibile, ma soltanto occuparsi di regolare i termini di una intertemporalità tutta processual-civile8.

La questione pervenne alle Sezioni Unite, che aderirono al primo degli orienta- menti esposti sottolineando che la abolitio criminis ricorrerebbe solo nel caso in cui si verifichi un’incidenza della norma extrapenale sulla fattispecie astratta, essendo irrilevante la situazione di mero fatto che può derivare da una modificazione della legislazione civile. In questa prospettiva, sarebbe la stessa struttura dei delitti di ban- carotta – richiamando la sola dichiarazione di fallimento, e non espressamente le so- glie previste all’art. 1 – a negare la rilevanza dei parametri normativi necessari per pervenire ad un esito concorsuale: la sentenza dichiarativa, pertanto, assumerebbe rilevanza nella sua esclusiva veste di provvedimento giurisdizionale, con la conse- guenza che il giudice penale «non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimen- to non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato d’insolvenza dell’impresa, ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art. 1 legge fall. per la fallibilità dell’imprenditore, sicché le modifiche […] non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 cod. pen. sui procedimenti penali in corso»9.

Al netto delle argomentazioni giurisprudenziali, la questione va impostata di- stinguendo chiaramente le qualifiche di ‘imprenditore commerciale’ e di ‘fallito’.

La prima costituisce pacificamente il nocciolo della soggettività attiva della bancarotta assieme alle qualifiche societarie (amministratore, sindaco, etc.) e deve ritenersi afferente al Tatbestand: la connotazione del soggetto attivo attiene infatti alla sfera del bene giuridico tutelato, sia con riferimento ai reati propri esclusivi, sia

a fortiori con riguardo a quelli non esclusivi o semi-esclusivi, come nel caso dei de-

6 Così Cass. pen., Sez. V, 18 ottobre 2007, n. 43076, in Foro it., 2008, 65.

7 Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 23 maggio 1987, n. 8342, in CED, rv. 176406, con nota di C. E. Paliero, Le Sezioni Unite invertono la rotta: è “comune” la qualifica giuridico-penale degli operatori bancari, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 695 ss., e di P. Veneziani, Le qualifiche soggettive degli operatori bancari secondo le Sezioni Unite della Cassazione, in Giur. comm., 1988, II, 517 ss.

8 Ancora Cass. pen., Sez. V, 18 ottobre 2007, n. 43076, cit.

9 Cass. pen., Sez. Un., 28 febbraio 2008, n. 19601, cit., con nota di E. M. Ambrosetti, I riflessi penalisti- ci derivanti dalla modifica della nozione di piccolo imprenditore nella legge fallimentare al vaglio delle Sezioni Unite, in Cass. pen., 2008, 3602 ss.; C. Paonessa, Abolitio criminis e fallimento del piccolo im- prenditore, in St. iuris, 2008, 1146 ss.; P. Oldi, Sfumata l’occasione di elaborare linee guida sulla suc- cessione di leggi, in Guida dir., 2008, 26, 94 ss.; G. Gambogi, La sentenza delle Sezioni Unite n. 19601/08 in tema di bancarotta fraudolenta: una vera strage delle (fondate) illusioni, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2008, 282 ss.; V. Destito, Irrilevanza delle innovazioni legislative sui presupposti soggettivi del fallimento nei processi penali in corso, in Giur. it., 2008, 2592 ss.; V. Cardone, F. Pontieri, Le Se- zioni Unite chiariscono gli effetti della riforma della legge fallimentare sul reato di bancarotta, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2008, 267 ss.; A. Scarcella, Reati di bancarotta e (in)sindacabilità in sede penale della sentenza dichiarativa di fallimento, in Dir. pen. proc., 2009, 482 ss.

litti fallimentari, poiché la qualifica non fonda l’offesa, ma conduce a ravvisarne una più specifica, di maggiore gravità10.

Diversamente deve concludersi in relazione alla nozione di ‘fallito’, che non pa- re entrare nella soggettività ristretta, ma concreta il sostrato della condizione obietti- va di punibilità, non essendo direttamente afferente all’offesa o al fatto tipico. Il fal- limento in quanto tale – pur nel già rilevato contrasto con la disciplina delle pregiu- diziali ex artt. 2 e 3 c.p.p. – entra nel precetto penale esclusivamente attraverso la ‘dichiarazione’ del giudice civile: in difetto, come si è già sottolineato, si ammette- rebbe che il reato (pre-fallimentare) possa essere ‘a soggetto qualificato differito’, ovverosia che possa essere commesso da un imprenditore commerciale che, solo in un secondo momento, viene ‘dichiarato’ fallito. La facoltà di aggiornare mediante regolamento le soglie dell’art. 1 l.f. sembra inoltre costituire un ulteriore indice a fa- vore della tesi proposta.

1.2 – L’estensione ai soci illimitatamente responsabili

Al di là della rilevanza delle soglie di fallibilità e della posizione dell’imprenditore occulto, l’impresa individuale non pone particolari questioni problematiche, che so- no al contrario accentuate nei contesti societari, soprattutto al crescere della loro

Nel documento Il dolo nella bancarotta (pagine 110-132)