• Non ci sono risultati.

Come abbiamo visto molti dei motivi per cui l’opposizione destra-sinistra viene contestata risiedono direttamente nel modo in cui viene concettualizzata, che non colgono la natura del fenomeno.

Tuttavia dal momento che destra e sinistra descrivono una antinomia, un’altra delle argomentazioni sostenute per deliggitimare la diade è quella di affermare che la contrapposizione cui sottendono è nei fatti svuotata, per cui l’antitesi destra-sinistra non avrebbe più significato e sopravviverebbe solo come residuo terminologico.

Per rendere più sistematica e chiara l’esposizione, a costo di esporci a qualche forzatura, trarremo i domini della contrapposizione dai modi di concettualizzare la diade descritti nel paragrafo precedente, per cui le argomentazioni dei detrattori possono essere raggruppate come segue:

a) ad un modo di intendere la distinzione destra-sinistra come classificazione di ideologie viene opposta una qualche forma di convergenza ideologica;

b) alla concezione dell’opposizione destra-sinistra come class cleavage viene ribattuto che la frattura capitale/lavoro nei paesi occidentali si è esaurita, o quantomeno ha perso molta della sua forza. In questo caso il focus sarà spostato maggiormente su aspetti della struttura sociale e possiamo pertanto parlare di una convergenza strutturale;

c) ad una interpretazione dell’asse destra-sinistra come issue dimension viene opposto il fatto che i partiti tendono ad essere sempre più programmaticamente simili in quanto la loro offerta politica mira a conquistare il consenso dello stesso tipo di elettore, l’elettore mediano;

1.3.1 La fine delle ideologie. Come abbiamo osservato in precedenza, concepire

l’opposizione destra-sinistra come una classificazione, intesa in senso strettamente logico, di ideologie e forze politiche si rileva poco soddisfacente, in quanto le ideologie sono sistemi di idee altamente complessi che non si lasciano ricondurre ad una semplice contrapposizione concettuale. Tuttavia questo modo di intendere la diade ha ancora senso se la si concepisce come un prodotto culturale, una categorizzazione sociale che, con tutte le aporie di questa forma di conoscenza, offre una mappa per l’orientamento degli attori del sistema politico.

La tesi della fine delle ideologie mette in discussione anche questo modo di intendere la diade, svuotando per così dire, l’universo dei fenomeni che dovrebbe ordinare. La tesi acquisisce due valenze differenti a seconda che si adotti una concezione forte o debole dell’ideologia119. La prima ha una forte valenza negativa e si rifà alla formulazione del concetto di ideologia elaborata da Marx, secondo cui l’ideologia consiste in una ‘falsa coscienza’, cioè in una visione del mondo distorta dalla propria posizione sociale che impedisce di vedere la realtà oggettiva dei rapporti di produzione e quindi, secondo l’ottica marxiana, della realtà sociale tout court. Quando il concetto ha smesso di essere un’esclusiva dell’armamentario concettuale di intellettuali e militanti socialisti, ed anzi, è stato rivolto prevalentemente contro di essi da parte di esponenti liberali e moderati, questa concezione forte dell’ideologia ha perso ovviamente il riferimento fondamentale ai rapporti di produzione, ma ha preservato la valenza di un sapere ‘falso’ in quanto impermeabile ai dati di fatto della realtà, connotandosi come un sistema di credenze chiuso e dogmatico120, sostenuto da un impegno appassionato ed emotivo121. Nella sua versione debole, che è riconducibile al paradigma della sociologia della conoscenza di Mannheim122, invece, il concetto di ideologia viene inteso in maniera assiologicamente neutra, stando ad indicare il sistema di pensiero di un gruppo sociale che in quanto tale risulta socialmente condizionato dalla prospettiva esistenziale esperita dal gruppo in questione.

119

La distinzione è ripresa con alcune modifiche da Bobbio, N., Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Roma, 1996, p.100. Per una sistesi della posizione dell’autore sul tema si veda anche Ideologie, in Teoria generale della politica, Einaudi, Torino, 1999, pp. 271-320.

120 Si faccia riferimento in particolare al già citato saggio di Sartori, Ideologia, in Elementi…, op. cit., pp.

111-138.

121 Questo punto è stato messo particolarmente in evidenza da Bell in The end of ideology, Paperback, New

York, 2000 (ed. or. 1962), specialmente il saggio The end of ideologies in the west: an epilogue, pp. 393- 408.

122

Nel primo caso, la tesi della fine delle ideologie inficerebbe la distinzione destra-sinistra svuotando il campo stesso delle ideologie, anche se è facile replicare con le parole di Bobbio che “sinistra e destra non indicano soltanto ideologie. Ridurle a pura espressione di pensiero ideologico sarebbe un’indebita semplificazione: indicano contrapposti programmi rispetto a molti problemi la cui soluzione appartiene abitualmente all’azione politica, contrasto non solo di idee ma anche di interessi e di valutazioni sulla direzione da dare alla società, che esistono in ogni società, e che non si vede come possano scomparire.”123 Se si adotta un’accezione ristretta di ideologia si lasciano fuori troppe cose che ricadono sotto il dominio semantico della diade. Del resto anche un autore come Sartori, che ha egli stesso elaborato una concezione forte del concetto di ideologia ha puntualizzato che “non tutti i sistemi politici di credenza sono ideologici.”124 Per cui anche facendo a meno dell’ideologie, nella loro accezione forte, il campo dei fenomeni che possono riguardare la distinzione destra-sinistra rimane comunque molto affollato.

Adottando invece una concezione debole del concetto, dove il concetto di ideologia viene equiparato a quello più generale di sistema di credenze, la tesi della fine delle ideologie, assume la valenza di una progressiva convergenza verso un unico sistema di pensiero, una crescita del consenso attorno l’attuale status quo, che toglie spazio alla disputa sui fini, lasciando che la politica acquisti una valenza pragmatica e tecnica come discussione sui mezzi. Destra e sinistra, diverrebbero allora categorie senza senso, in quanto incapaci di esprimere alternative in termini di valori e di assetti normativi.

E’ da notare che le due concezioni della fine delle ideologie non si escludono affatto a vicenda. Anzi, in numerosi autori esse appaiono come complementari. Il venir meno delle ideologie, nel senso forte, lascerebbe il posto ad un medesimo sistema di credenze condiviso (che garantisce il consenso sui fini ultimi), il quale però non avrebbe carattere ideologico nel senso di un sapere chiuso e dogmatico.

Le prime formulazioni della tesi della fine delle ideologie possono essere fatte risalire a due convegni organizzati dal Congresso per la libertà della Cultura, sul finire degli anni 50. Il primo di questi si svolse a Milano nel 1955. Più di 150 invitati, rappresentanti tutti i paesi democratici e tutte le tendenze politiche, si trovarono a discutere sul tema “Il futuro della libertà”. Come ricorda Lipset, a dispetto delle aspettative, tutti i delegati si trovarono d’accordo nel ritenere che:

123 Bobbio, N., Destra e Sinistra, op. cit., p.51. 124

“ormai i tradizionali problemi che opponevano la destra alla sinistra avessero perso gran parte della loro importanza. In effetti, tutti concordavano nell’idea che l’aumento dei controlli statali che si era verificato nei vari paesi non comportasse una diminuzione della libertà democratica. I socialisti non si fecero sostenitori del socialismo; essi erano quanto i conservatori preoccupati del pericolo di uno strapotere dello Stato. I problemi ideologici che una volta dividevano destra e sinistra si ridussero più o meno a quelli della proprietà pubblica e della pianificazione economica.”125

Nella successiva conferenza di Rheinfelden, Raymond Aron nella sua relazione generale perviene a considerazioni del tutto simili:

“Proprietà privata contro proprietà pubblica, anarchia del mercato contro pianificazione, sfruttamento capitalista contro eguaglianza, i tre temi della dottrina socialista hanno perduto molto della loro risonanza. Siano in causa lo statuto di proprietà, la pianificazione o l’eguagliamento dei redditi, si tratta ormai non di scegliere tra i due termini di una alternativa, quanto di combinare, in una certa proporzione, due modalità complementari, di andare più o meno lontano in una data direzione.”126

Sulla stessa scia si pone Daniel Bell, nel 1960, con la sua celebre opera, The end of

ideology. Per Bell le ideologie “non sono semplici Weltanschauung, visioni del mondo

culturali, ma sistemi di credenze storicamente situati che fondono idea e passione, così da convertire le idee in leve sociali, e trasformando le idee, trasformano allo stesso modo le persone.”127 Le ideologie sono piuttosto delle religioni secolarizzate che hanno spinto gli uomini a realizzare sulla terra l’aspirazioni chialistiche di un regno di armonia e di giustizia. Tuttavia, dopo le tragedie dei regimi totalitari e della seconda guerra mondiale, ed in seguito ai cambiamenti avvenuti nelle società occidentali esse hanno perso gran parte del loro potere di persuasione:

“Poche menti serie credono ancora che si possa stendere un ‘progetto’ ed attraverso un’opera di ‘ingegneria sociale’ pervenire ad una nuova utopia di una società armoniosa. Pochi liberali ‘classici’ insistono nel dire che lo Stato non dovrebbe svolgere alcun ruolo

125 Lipset, S., L’uomo politico, Edizioni Comunità, Milano, 1963, p. 434.

126 Citato da Meynaud in Il destino delle ideologie, Cappelli, 1964, p.41. Di Aron si veda anche il capitolo

‘Fin de l’age ideologique?’ in L’opium des intellectuels, Gallimard, Paris, 1955.

127

in economia, e pochi seri conservatori, almeno in Inghilterra e nel continente, credono ancora che il Walfare State sia ‘la via della schiavitù”. Nel mondo occidentale piuttosto c’è oggi un ampio accordo tra gli intellettuali sugli argomenti politici: l’accettazione del Welfare State, la preferibilità di un potere decentralizzato, un sistema di economia mista e di pluralismo politico. Anche in questo senso, l’era delle ideologie è finita.128

Nella sua brillante ricostruzione critica del dibattito sulla fine delle ideologie, Meynaud, individua ed analizza le evidenze empiriche su cui si basano le asserzioni che abbiamo appena esposto e le loro principali spiegazioni. Secondo la sua opinione i segni più evidenti del declino delle ideologie sono stati rinvenuti: a) nella trasformazione in senso riformista dei partiti socialisti; b) nell’indifferenza dei cittadini nei confronti dei problemi pubblici; c) nell’importanza data all’efficienza dell’azione governativa. Le spiegazioni dell’affievolimento ideologico sono state invece fornite attraverso il riferimento alla cosiddetta ‘società affluente’ di Galbraith, ed all’istituzione di un neo- capitalismo. Con il primo aspetto si intende il fatto che l’aumento della produttività nei paesi industrialmente avanzati ha tolto al problema dell’ineguaglianza molta della sua gravità. Con il secondo, invece si vuole sostenere che il capitalismo del dopoguerra presenta caratteristiche che lo rendono assai differente dalla sua forma precedente: a livello macro esso ha incorporato forme di partecipazione statale nell’economia, a livello micro le relazioni tra datori di lavoro e dipendenti non sarebbero più orientante ad una rigida conflittualità ma la proprietà cercherebbe invece di integrare i lavoratori all’interno dell’impresa attraverso partecipazioni azionarie e lo sviluppo delle tecniche di gestione delle ‘relazioni umane’.

Ci riserviamo di esporre successivamente, dopo aver esposto anche versioni più recenti della tesi della fine delle ideologie, le critiche che acutamente Meynaud solleva sul dibattito degli anni sessanta, in quanto gli argomenti messi in campo rimangono grossomodo gli stessi.

La tesi del declino delle ideologie sarà smentita, poco più di un decennio dopo la sua formulazione, dalla Storia. E’ superfluo ricordare che dalla fine degli anni sessanta in poi seguirono un decennio di contestazioni studentesche, l’emergere di un forte movimento pacifista in reazione alla guerra in Vietnam, il femminismo, e più tardi ancora movimenti ecologisti, per non parlare poi dei terrorismi rossi e neri.

128

Bisognerà aspettare il 1989, con il crollo del blocco comunista affinché la tesi del declino delle ideologie torni prepotentemente ad imporsi nel dibattito scientifico.

In particolare Francis Fukuyama, con un opera che ha suscitato ampio dibattito e non a caso intitolata La fine della Storia, si riconnette, anche se indirettamente con la classica versione della fine delle ideologie. La tesi dell’autore è che nella Storia dell’umanità sia ravvisabile una direzione ed un fine che avrebbe il suo momento culminate nell’affermazione globale della democrazia liberale e dell’economia di mercato. Fukuyama parte dalla considerazione che l'unica attività umana, che può essere definita come costantemente cumulativa e progressiva sia lo sviluppo della scienza e della tecnica. Tale attività diviene quindi, di riflesso, indice di uno sviluppo costante nell'ambito della storia umana poiché impone, tramite il continuo aumento qualitativo e quantitativo della produzione di beni, un continuo e parallelo allargamento del sistema dei bisogni che si fanno sempre più raffinati e complessi. Il movimento della storia sarebbe quindi orientato verso il lebero mercato in quanto questi sarebbe l’unico sistema in grado di garantire uno sviluppo costante attraverso un equilibrio fra bisogni, conoscenze e tecniche. Tuttavia, come nota lo stesso Fukuyama, se il progresso tecnico-scientifico è l’elemento capace di giustificare l’idea di una storia progressiva che sfocia nel liberismo economico, non è altrettanto efficace nel giustificare il passaggio necessario ad un sistema politico democratico. Vi sono infatti numerosi paesi in cui si assiste a un impetuoso sviluppo delle capacità produttive, non accompagnato però da un parallelo sviluppo verso istituzioni politiche democratiche. Entra qui in gioco il secondo elemento ritenuto capace di giustificare la fine della storia nel sistema liberaldemocratico occidentale: la lotta per il riconoscimento. Solo nella democrazia liberale si riesce a raggiungere quell’equilibrio che permette di realizzare sia il riconoscimento reciproco, tendenzialmente egualitario, attraverso l’eguaglianza formale di tutti i cittadini ed una certa redistribuzione della ricchezza, sia il riconoscimento come affermazione della propria libertà personale e della propria superiorità attraverso la competitività che pervade ogni aspetto della vita sociale. Questo regime che è insieme economico, politico e sociale, avrebbe o starebbe progressivamente eliminando tutte le disuguaglianze che Fukuyama definisce ‘convenzionali’, cioè legate a fattori culturali, lasciando che permangono le disuguaglianze ‘naturali’, legate cioè alle capacità e all’impegno degli individui129. E’ questo equilibrio a garantire alla democrazia liberale il suo fondamento di legittimità. Secondo l’autore infatti,

129

i regimi concorrenti alla democrazia, di destra e di sinistra, sono crollati proprio per una crisi di legittimità. Il fascismo fondava la sua legittimità sulla affermazione della superiorità di una razza o di una nazione, principio che ha condotto inevitabilmente ad una politica di potenza ed alla guerra, ed in ogni caso alla sua autodistruzione. Se anche le forze fasciste fossero uscite vittoriose dalla seconda guerra mondiale “il fascismo avrebbe perso egualmente la sua intima raion d’etre nella pace di un impero universale.”130 I regimi autoritari, da parte loro non elaborarono mai una ideologia in grado di legittimarli. “Tutti furono perciò costretti ad accettare il principio della democrazia e della sovranità popolare, e ad affermare che i loro paesi non erano ancora pronti per la democrazia per le più varie ragioni[…] Ciascuno dovette giustificarsi come transitorio in attesa di un ritorno definitivo della democrazia”131 I regimi comunisti invece hanno basato la loro legittimità sulla realizzazione di una eguaglianza materiale che non sono poi riusciti a sostenere, ma che dall’altra parte ha comportato -sia nella fase di industrializzazione forzata sia nel tentativo di nascondere i fallimenti del regime- il tentativo di controllare ogni aspetto della vita sociale e privata dei suoi cittadini. Un regime di terrore che non potè essere protratto perché lesivo delle stesse elite burocratiche al potere e che a poco a poco ha portato alla disgregazione dell’intera impalcatura del regime sovietico.

Secondo Fukuyama, l’universale affermazione della democrazia liberale e dell’economia di mercato sta producendo un’auspicabile ‘accordo sui fini’ che la società dovrebbe perseguire. Per cui non ci sarà più spazio per diatribe di ordine ideologico ma piuttosto “le principali questioni saranno di tipo economico, quali promuovere la competitività e l’innovazione, gestire il deficit interno ed esterno, mantenere la piena occupazione.”132 Come si può facilmente osservare l’opera di Fukuyama, ricalca da vicino la tesi della fine delle ideologie degli anni cinquanta. Dalla constatazione del declino delle grandi ideologie si passa a prospettare una società pacificata in cui la politica acquisisce una valenza sempre più tecnica in relazione ad obbiettivi non più soggetti a discussione in quanto, secondo le parole dell’autore, “siamo arrivati ad un punto in cui non possiamo immaginare un mondo sostanzialmente diverso dal nostro, in cui non si vede in che modo il futuro potrebbe costituire un miglioramento essenziale rispetto al nostro ordinamento attuale.”133

130Ibidem, p. 39. 131 Idem. 132 Ibidem, p. 283. 133 Ibidem, p.72.

Vaniamo ora alle critiche che Meynaud muove alla tesi classica della fine delle ideologie e che risultano attualissime anche in relazione al dibattito contemporaneo. In primo luogo, Meynaud contesta il carattere perentorio delle affermazioni sul declino dei conflitti ideologici, come se si trattasse di un traguardo definitivo. Egli piuttosto osserva che l’idea non è affatto nuova. Essa era per esempio già presente nella affannosa ricerca di una terza via consumatesi negli anni trenta134: “Il superamento delle vecchie concezioni è già di moda, e, già allora, spiriti di prim’ordine mettono in dubbio l’opposizione classica destra- sinistra o anche capitalismo-socialismo”135 Secondo l’autore quello che manca è un chiaro termine di paragone. Le tesi dell’affievolimento ideologico presuppone che si sia passati da un era di grande intensità degli scontri ideologici ad un epoca di relativa apatia. Ma se si invertisse la prospettiva, ammettendo che, di norma, l’apatia nei confronti degli affari pubblici si alterna a periodi di eccezionale partecipazione collettiva, l’intero dibattito assumerebbe un senso diverso. “In definitiva”, sostiene Meynaud, “in mancanza di una sufficiente prospettiva storica, non viene forse presentata come idea nuova un fenomeno soggetto a ricorrenza?”136 I fatti sembrano avergli dato ragione. Non solo come abbiamo ricordato una decina di anni dopo la proclamazione della fine delle ideologie è succeduto un lungo periodo di turbolenze sociali e politiche, ma allo stesso modo, con una coincidenza sulla tempistica da lasciare impressionati, una decina di anni dopo la proclamazione della ‘fine della storia’ abbiamo assistito alla nascita di un movimento internazione ‘no global’ sotto lo slogan ‘un altro mondo è possibile’; abbiamo fatto tristemente esperienza del fondamentalismo islamico, tanto da far parlare ad Huntignton di scontro di civiltà, sono riemersi movimenti nazionalisti e xenofobi, si è diffusa una conoscenza ecologista a livello di massa. Certo, i partiti appaiono nettamente in crisi, ma più perché si dimostrano incapaci di sintesi ideologica in rapporto ai mutamenti storici. Non mancano certo le sfide, sia sul fronte interno che esterno, e decisioni cruciali sul corso che la società dovrebbe prendere e che non possono essere delegate alla scienza ed alla tecnica. Paradossalmente, quello che sembra drammaticamente mancare sono proprio sistemi di idee credibili e condivisi da ampie fasce della popolazione con cui affrontare i problemi che l’attuale fase storica ci pone.

134

Sul punto si veda anche l’opera di Sternhell, Z., Né destra, né sinistra, l’ideologia fascista in francia, Bellini-Castoldi, Milano, 1997, in cui viene ben documentata la posizione dei ‘non conformisti’ come Sorel degli anni Trenta che videro nel fascismo la famigerata terza via.

135 Meynaud, J., op. cit., p.98. 136

Ma ci sono altri punti dell’analisi di Meynaud che meritano di essere riportati. In primo luogo egli afferma che i partiti non possono abbandonare il loro ‘mito centrale’ senza perdere consenso. Così, anche convergendo sul modello di un’economia mista i conservatori non hanno mancato di enfatizzare la libertà di impresa e i socialisti l’intervento statale. Allo stesso modo, aggiungiamo, oggigiorno, essendosi imposto il mercato globale come sistema economico le destre non mancano di sottolineare gli effetti benefici per tutta la società di tale modo di condurre l’economia e le sinistre insistono invece su forme di redistribuzione della ricchezza così prodotta. In secondo luogo, Meynaud, osserva che la tecnocrazia è meno ideologicamente neutra di quanto appaia: “Non vi è per esempio un programma neutro di riforma finanziaria: anche se il margine di