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2. La politica antiebraica fascista e i provvedimenti del regime

2.1 La razza ebraica

La questione dell’esistenza o meno di un razzismo fascista e del ruolo che l’antisemitismo ricoprì nel fascismo sono da molti anni al centro del dibattito storiografico italiano. L'opera di Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, ha rappresentato per lungo tempo l’unico punto di riferimento della storiografia sul tema e, per molti anni, ha avuto il merito di essere il solo contributo storico che trattasse in maniera specifica la persecuzione degli ebrei durante il regime fascista. Nell’introduzione all’edizione del 1993 (il libro uscì per la prima volta a metà degli anni ’60), lo storico affermava, come già avvenuto nelle precedenti edizioni, che il fascismo non era stato né razzista né antisemita e che «con l’adozione dei provvedimenti razziali Mussolini si proponeva di conseguire una serie di obiettivi»: dare al fascismo nuovo dinamismo, compiere un gesto di amicizia nei confronti di Hitler, regolare i

rapporti tra gli Italiani e le popolazioni africane42. Secondo De Felice, quindi, sia

l’antisemitismo che il razzismo erano elementi entrambi estranei al fascismo; il razzismo, in

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«Corriere della Sera», 17 novembre 1943, Vigilia della costituente. Le linee maestre del nuovo Stato popolare nel manifesto del Partito repubblicano fascista. I 18 punti del programma, prima pagina.

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particolare, sarebbe stato introdotto con scopi opportunistici, con l’obiettivo di far accettare in Italia l’emanazione di una legislazione antisemita:

il razzismo aveva il vantaggio di essere molto più impersonale e totalitario, di coinvolgere gli ebrei non direttamente, ma in un contesto di gran lunga più ampio, di presentarsi con una veste apparentemente scientifica e di cadere, per la sua stessa estraneità alla cultura media italiana su un terreno meno premunito contro di lui43.

Le ricerche sul tema uscite negli ultimi anni hanno in realtà messo in luce una specificità del razzismo italiano, soprattutto nei confronti dei sudditi delle colonie. Per Roberto Maiocchi, negli anni Trenta gli scienziati italiani non condividevano l’idea generale di un razzismo “biologico”: insistendo piuttosto su criteri spirituali, storici o religiosi, si ponevano in posizione critica rispetto alle teorie provenienti dalla Germania nazista, che propugnavano la purezza della razza o del sangue ariano. D’altronde simili teorie avrebbero potuto difficilmente trovare seguito in un paese come l’Italia: per prima cosa, su basi prettamente biologiche, una supposta razza italiana correva il rischio di risultare essa stessa inferiore alla pura razza ariana germanica; in secondo luogo – il che non era peraltro affatto secondario –, era molto complicato far accettare l’idea che esistesse nella penisola un popolo fisicamente omogeneo44. Allo stesso tempo però, se si sposta il discorso sulla percezione dei neri e dei sudditi africani, era comunemente riconosciuta da anni, a livello scientifico, antropologico o culturale, l’inferiorità delle razze “negre” rispetto a quelle bianche:

il razzismo biologizzante quasi sempre respinto nelle enunciazioni teoriche, si manifestava concretamente operativo quando venivano analizzate le genti di colore, i negri in particolare. Nei libri dei nostri africanisti, ma anche nelle opere letterarie, era presente una pressoché indiscutibile immagine delle razze negre quali razze inferiori. Nell’Italia degli anni Trenta praticamente nessuno sosteneva che i negri non fossero intellettualmente e moralmente inferiori ai bianchi45.

Nel momento in cui il fascismo intraprese la via delle conquiste coloniali, si presentarono problemi di gestione e amministrazione di quei territori. Dopo la conquista dell’Abissinia, la politica fascista si indirizzò soprattutto contro la possibile contaminazione tra la popolazione italiana e quella africana. In Italia il governo cominciò a pensare subito all’opportunità di provvedimenti che accelerassero le operazioni per rimpatriare i sudditi coloniali presenti nel

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Ivi, pp. 219-220.

44

R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 321-325; sullo stesso tema si veda anche G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Il Mulino, Bologna 1998.

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Regno e di leggi che contemporaneamente ne limitassero al massimo l’ingresso. Nel 1938 fu ordinato dal ministero per l’Africa italiana, e eseguito dalle prefetture, un censimento dei sudditi coloniali presenti in Italia: si contarono in realtà solo 28 eritrei e 11 libici46. Già a partire dalla proclamazione dell’Impero, nel maggio 1936, furono stabilite una serie di misure improntate chiaramente a principi razzisti e biologici, volte a colpire in particolare la contaminazione e la promiscuità tra italiani bianchi e africani neri. La “tutela” della razza italiana passava cioè attraverso il divieto delle unioni e dei matrimoni tra italiani e persone appartenenti alle inferiori razze africane. Il risultato di questi “inaccettabili” (ma frequenti47) incroci era il meticciato, simbolo dell’impoverimento della razza italiana48. Il Regio decreto legge del 1 giugno 1936 n. 1019 «Ordinamento e amministrazione dell’Africa orientale italiana», che impediva al mulatto figlio di genitori ignoti di ottenere la cittadinanza italiana, fu probabilmente il primo passo in direzione di una legislazione razziale nelle colonie49. Nel 1937 furono varate norme che formano un vero e proprio corpus legislativo coloniale di ordine razziale: in aprile, la proibizione di relazioni coniugali con sudditi coloniali; a giugno, voluta dal governatore dell’Eritrea, l’ammiraglio De Feo, la segregazione razziale per motivi di ordine pubblico e di igiene, onde evitare la promiscuità tra italiani e africani; a dicembre, il decreto che ampliava il divieto delle relazioni coniugali tra italiani e indigeni (in pratica una ratifica del precedente decreto di aprile)50. L’attività legislativa fu accompagnata da un

battage propagandistico: nel maggio del ’36 il Ministro della stampa e della propaganda

Ciano ricordava ad esempio ai giornali che

è necessaria una netta separazione fra razza dominante e razza dominata. La razza italiana non deve subire ravvicinamenti di sorta con la razza negra e deve mantenere intatta la sua forte purezza51.

Quale fu dunque il collegamento tra razzismo coloniale e antisemitismo? Abbiamo già accennato al fatto che le idee razziste e antisemite provenienti dalla Germania non erano state accolte favorevolmente negli ambienti scientifici, governativi e intellettuali del fascismo, anzi il più delle volte erano state criticate:

46

G. Gabrielli, Africani in Italia negli anni del razzismo di Stato, in La menzogna della razza cit., pp. 201-215.

47

Si pensi ad esempio alla celebre canzone «Faccetta nera», che esaltava la virilità del soldato italiano di cui sarebbe stata “vittima” la donna abissina e che per questo fu ampiamente criticata dai vertici del regime fascista.

48

E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 35.

49

R, Maiocchi, Scienza italiana cit., p. 218.

50

Il decreto di aprile condannava al carcere solo il cittadino italiano che avesse avuto rapporti con un suddito dell’Africa Italiana, lasciando fuori quest’ultimo da provvedimenti giudiziari. A dicembre, invece, furono ratificate sanzioni anche per il suddito africano che si rendesse colpevole di tali unioni, E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., pp. 22-39; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., pp. 114-119.

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tanto le concrete analisi sulla struttura e sulla storia delle popolazioni italiane, quanto le riflessioni metodologiche sul rapporto tra antropologia fisica e etnologia, concordemente portavano gli studiosi a respingere le teorizzazioni degli “scienziati” cari al nazismo. Simile atteggiamento critico, che era comune agli ambienti bio-medici e – con meno decisione – a quelli sociologici risultava, alla metà del decennio [si parla degli anni Trenta] perfettamente coerente con le direttive ufficiali, che si manifestarono duramente avverse alle prime traduzioni legislative della “religione del sangue” in Germania52.

Queste posizioni erano del resto condivise anche dalla Chiesa cattolica, il cui antisemitismo rimaneva ispirato a tradizionali motivi religiosi. Perfino gli intellettuali fascisti propugnatori di teorie più radicali (Preziosi, Cipriani, Evola), che pure si addossarono il compito di diffondere in Italia gli aspetti del razzismo tedesco, ne criticavano gli elementi biologici legati al “sangue” e alla “terra”, e ne proponevano una re-interpretazione in chiave «spiritualistica»53. Alla teoria biologizzante di derivazione tedesca, cioè, si opponeva piuttosto l’immagine di una comunità nazionale italiana, una “stirpe” invece di una “razza”. L’unità di questa “stirpe” italiana era realizzata attraverso il riferimento alla storia di Roma: il mito della romanità, la continuità tra il regime fascista e l’Impero romano, la leggenda di un popolo colonizzatore e portatore di civiltà nel mondo (confermata ora dalle nuove conquiste coloniali) fornivano da sole una risposta convincente all’esistenza di una razza spirituale italica superiore54. In questo contesto, l’antisemitismo di carattere nazista non riusciva ad attecchire facilmente. Le motivazioni religiose, costitutive di un antisemitismo italiano non solo negli ambienti cattolici ma anche in quelli nazionalisti, mal si conciliavano con un riferimento al “sangue” ebraico: anche in questo caso, riscontrava maggiore successo l’immagine evoliana di un’opposizione tra “spirito” ariano e “spirito” semita55. Tuttavia:

nella stessa Italia fascista vi fu una sorta di schizofrenia tra l’esaltazione tutta nazionalista della stirpe e dei trascorsi della romanità, sino a gonfiarsi in veri e propri impeti razzistici, e l’originaria sufficienza nei confronti del razzismo e dell’antisemitismo tedeschi. Quella ambiguità che rese possibile tra il 1933 e il 1938 anche l’accoglienza in Italia di rifugiati che avevano preso la via del sud per sfuggire alla persecuzione razziale in Germania, ma che già pochi mesi dopo l’Anschluss, proprio quando l’allargamento della Grande Germania

52

R, Maiocchi, Scienza italiana cit., p. 209.

53

Cfr. F. Germinario, Razza del sangue, razza dello spirito. Julius Evola, l'antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003.

54

E. Gentile, Il culto del Littorio: la sacralizzazione della politica fascista, Laterza, Bari 2005, pp. 146-154; M.A. Matard-Bonucci, L’Italie fasciste cit., pp. 250-256.

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significava l’inglobamento nell’area di sovranità nazista di nuovi consistenti nuclei di popolazione ebraica, era destinato a diventare un rifugio sempre più precario56.

Nel 1937, le polemiche e gli spunti antiebraici comparsi sulle pagine di molti giornali, nonché la pubblicazione di alcune opere chiaramente orientate contro gli ebrei italiani e stranieri, prepararono il terreno alle leggi del 1938. La storiografia è ormai concorde nel ritenere che questa vera e propria campagna antiebraica della stampa e della pubblicistica italiana fu orchestrata molto probabilmente da Mussolini e dagli ambienti governativi fascisti57, in un momento in cui, anche in considerazione del nuovo contesto internazionale (l’avvicinamento alla Germania nazista dopo le conquiste coloniali e la guerra in Spagna), stava maturando l’opportunità di emanare una serie di provvedimenti antisemiti a livello statale58. Con la pubblicazione del libro di Paolo Orano, Gli ebrei in Italia, e il dibattito che ne seguì, si procedette a un attacco politico e religioso nei confronti degli ebrei: l’ebraismo, tanto più dopo la crescita del movimento sionista internazionale, era considerato un elemento perturbatore delle società europee. La polemica non risparmiava neanche gli ebrei italiani e poneva l’accento sull’idea dell’incompatibilità tra l’essere ebreo e il dichiararsi buon fascista: per scongiurare qualsiasi pericolo interno, secondo l’autore, ogni espressione ebraica in Italia, dai giornali alle comunità, doveva essere inglobata dalla propaganda e dall’educazione fascista59. Del ‘37 fu inoltre la riedizione dei Protocolli dei Savi di Sion, con introduzione di

Evola, a opera di Giovanni Preziosi60. Sempre dello stesso Preziosi apparvero numerosi

articoli antisemiti sul giornale «La Vita Italiana», nei quali l’autore denunciava con toni violenti la congiura mondiale di un’Internazionale ebraica. Dello stesso tenore erano i pezzi di Interlandi sulle colonne de «Il Tevere»: il futuro direttore de «La Difesa della razza» prospettava già la necessità di una legislazione razziale che colpisse gli appartenenti a una razza differente da quella italiana, ebrei in primo luogo, al fine di tutelare la purezza di quest’ultima. Gli esempi appena citati sono solo alcuni degli episodi più rappresentativi della

56

E. Collotti, L’antisemitismo cit., p. 108.

57

Sul processo che portò all'elaborazione delle leggi razziale si veda M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Silvio Zamorani editore, Torino 1994.

58

E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., pp. 40-57. Si veda anche G. Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Garzanti, Milano 2005, pp. 321-340.

59

P. Orano, Gli ebrei in Italia, Pinciana, Roma 1938.

60

L’internazionale ebraica: i protocolli dei Savi di Sion, La Vita Italiana, Roma 1938; cfr. C.G. De Michelis, Il manoscritto inesistente cit., pp. 162-179.

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campagna del 193761. È difficile del resto credere che questa concentrazione di pubblicazioni contro gli ebrei sia stata frutto del caso. Osserva ancora Collotti:

quelle manifestazioni erano espressione infatti di un clima di cui elementi vicini al regime andavano percependo il montare e la consistenza, sicché esse venivano a trovarsi in sintonia con una svolta potenziale del regime, di cui anticipavano prese di posizione o alla quale fornivano argomentazioni e consenso62.

Questa campagna doveva servire al regime anche per capire quali risultati avrebbe raggiunto un ufficiale uso politico dell’antisemitismo da parte dello Stato. La studiosa francese Marie Anne Matard-Bonucci pone l’attenzione sul fascino che l’esperienza tedesca ebbe sul Duce. L’antisemitismo aveva portato in Germania «una rivoluzione economica, sociale, sentimentale e culturale nella vita di centinaia di migliaia di individui» dal momento che i provvedimenti non colpivano solo gli ebrei ma anche tutti gli ariani alleati agli israeliti63. Il governo di Mussolini aveva bisogno, dopo le conquiste coloniali e la guerra di Spagna, di mobilitare le élites intellettuali e le organizzazioni fasciste per rilanciare la «macchina totalitaria fascista» e suscitare un nuovo slancio popolare: la battaglia contro l’ebreo si inseriva allora nel contesto (e al servizio) di una campagna contro il «nemico interno», rappresentato da coloro che avevano interrotto il processo rivoluzionario fascista (ad esempio i borghesi e il loro lassismo)64. Anche per questo motivo, i toni della campagna, seppur in certi casi violenti, rimasero principalmente su un piano etico, politico e religioso.

Certo è che, nel luglio 1938, quando fu pubblicato su «Il Giornale d’Italia» il Manifesto della

razza (sotto il titolo in realtà di Il fascismo e i problemi della razza), le motivazioni storiche,

culturali e religiose lasciarono spazio anche e soprattutto a teorie basate su fattori biologici. Gli storici sono oggi concordi nel legare l’origine del Manifesto alla figura di Mussolini, presente dietro il gruppo degli scienziati firmatari:65 se non fu proprio lui a redigere il testo,

61

Una ricostruzione puntuale della campagna antisemita del 1937 in M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., pp. 131-150; E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., pp. 40-57; R, Maiocchi, Scienza italiana cit., pp. 21-216; M.A. Matard-Bonucci, L’Italie fasciste cit., pp. 124-130.

62

E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 41.

63

M.A. Matard-Bonucci, L’Italie fasciste cit., p. 138. Dice Ian Kershaw: «Con il delinearsi della figura dell’ebreo come antitesi simbolica delle virtù tedesche incorporate nella Volksgemeinschaft, l’antisemitismo offrì la possibilità di un’azione ad ampio raggio in cui i principi ideologici poterono facilmente coniugarsi con motivazioni sociali di tipo più materiale. “Lavorare per il Führer” mettendo in pratica forme di discriminazione contro gli ebrei, infatti poteva significare disfarsi di un rivale in affari o di un vicino indesiderato, acquistare una proprietà a prezzo stracciato o semplicemente sfogare la rabbia causata dalle tante frustrazioni della vita», in I. Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, Laterza, Bari 2001, p. 133.

64

M.A. Matard-Bonucci, L’Italie fasciste cit, p. 138; cfr. anche A. Ventrone, Il nemico interno: immagini, parole e simboli della lotta politica nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma 2005.

65

R. Maiocchi, Scienza italiana cit., p. 226; La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Grafis, Bologna 1994, Catalogo della mostra tenuta a Bologna nel 1994, pp. 367-368.

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senza dubbio egli ne condivise il contenuto e vi mise mano prima della pubblicazione66. Il documento rompeva con le esitazioni manifestate ancora qualche mese prima sulla stampa. Ancora nel mese di febbraio, era stata diffusa infatti l’Informazione diplomatica n. 14, nota redatta dallo stesso Mussolini e considerata la prima dichiarazione ufficiale sulla questione ebraica da parte del governo fascista67, in cui si negava che il regime volesse adottare una legislazione antiebraica, ma si proclamava l’obiettivo di vigilare sull’attività degli ebrei affinché la loro presenza «nella vita complessiva della Nazione non risulti sproporzionata ai meriti intrinseci dei singoli e all’importanza numerica della loro comunità»68. Il riferimento all’importanza numerica, in particolare, si ricollegava agli obiettivi di politica demografica che il regime portava avanti ormai da anni69. Riassunta nello slogan «il numero è potenza», questa attenzione al problema demografico passava attraverso l’adozione di precise iniziative politiche di salute pubblica e di ripopolamento delle campagne (le più note sono quelle legate ad esempio alle bonifiche). Con le conquiste coloniali e l’affermarsi della questione del

meticciato e della tutela della razza, il governo prestò sempre più attenzione, come abbiamo

già spiegato, alla preservazione della popolazione italiana dalla contaminazione con i popoli africani. Sulla scia di questo orientamento, il Manifesto della razza esplicitava però nuovi elementi. Innanzitutto le razze umane esistono e sono un concetto «puramente biologico» (punto 3)70. Per la prima volta si annunciava che la popolazione italiana aveva origini ariane millenarie conservatesi fino a quel tempo (punto 4) e che esisteva quindi una vera pura “razza italiana” sulla base della trasmissione del sangue e non di principi culturali (punto 6)71. Dal momento che gli Italiani erano ariani, quella italiana apparteneva alle razze umane nord- europee. Dopo aver messo in guardia contro le teorie che volevano anche le popolazioni africane e semite originarie dell’Europa (punto 8), si chiariva l’estraneità all'Italia degli ebrei, popolo impossibile da assimilare:

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Cfr. M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei cit., pp. 17-21.

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Dal mese di ottobre 1937 il governo decise di dare diffusione ad alcune note redatte da Mussolini o da Ciano, con il titolo di Informazione diplomatica, nelle quali si voleva far conoscere all’estero la posizione del Regime rispetto a questioni di carattere internazionale, cfr. M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei cit., p. 17.

68

Informazione diplomatica n. 14, documento citato in M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei cit., p. 17-18. Su questa si veda anche G. Fabre, L'«Informazione diplomatica» n. 14 del febbraio 1938, in M. Sarfatti (a cura di), «La Rassegna mensile di Israel», n. 2, Numero speciale in occasione del 70° anniversario dell'emanazione della legislazione antiebraica fascista, maggio-agosto 2007, pp. 45-103.

69

E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 22.

70

«Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc. non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa», in «Il Giornale d’Italia», 13 luglio 1938, Il fascismo e i problemi della razza, p. 1.

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«Esiste ormai una pura razza italiana. Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione, ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di Nobiltà della Nazione Italiana», Ibidem.

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gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani72.

L’origine e la trasmissione ereditaria degli elementi fondanti di una razza ricoprivano quindi un’importanza fondamentale nel Manifesto, rendendo così esplicito un discorso basato sulla trasmissione del sangue e non dei valori culturali di un popolo. Da questi concetti conseguiva inoltre il pericolo di un incrocio tra razze europee e extra-europee in grado di alterare il carattere puro dell’Italiano (punto 10)73.

Questo brusco passaggio verso un razzismo di tipo biologico invece che culturale non ricevette un’accoglienza unanime. Non in linea con il più diffuso orientamento scientifico e culturale italiano, il Manifesto fu percepito generalmente come una traduzione del razzismo tedesco, basato su teorie fino a quel momento respinte in Italia74. Sembra quasi che gli