2. La politica antiebraica fascista e i provvedimenti del regime
2.2 Stranieri
L’analisi della definizione di «ebreo» nella politica antisemita dello Stato fascista ha riguardato finora l’elemento razziale, ovvero l’appartenenza a una determinata razza secondo criteri naturali e biologici, nonché politici e culturali. Analizzando la normativa del 1938 e le successive circolari prodotte a sua integrazione dalla Demorazza tra il 1938 e il 1943, Michele Sarfatti insiste proprio su questo aspetto: le leggi antiebraiche classificavano una persona appartenente alla razza ebraica in base alla razza dei genitori e così via indietro nelle generazioni fino ad arrivare a un punto non ben definito nel passato, dove si dava per scontata la coincidenza razza ariana/religione cristiana e razza ebraica/religione ebraica110. Il criterio principale di classificazione era dunque il principio della trasmissione ereditaria, determinante per stabilire la quantità di sangue ebraico presente in un individuo: avere più del 50% di sangue semita significava cioè essere considerati di razza ebraica. La classificazione delle persone non destava problemi nel caso di figli di genitori entrambi appartenenti a un’unica razza (ariana o ebraica), sebbene dopo l’accertamento fatto su basi parentali intervenissero altri fattori individuali (storici, sociali, religiosi) a determinare una eventuale discriminazione. Nel caso in cui invece ci si trovava di fronte a figli di matrimoni “misti” (un genitore ariano e uno ebreo), la questione si complicava. Non essendo infatti prevista nella normativa una specifica categoria di “misti”, a differenza della legislazione nazista, la posizione delle persone nate da queste unioni dipendeva da altri elementi o caratteristiche individuali111. Innanzitutto dalla nazionalità dei due genitori: l’essere figlio di stranieri, in questo caso, rappresentava un fattore peggiorativo nel processo di valutazione di appartenenza alla razza ebraica. Tra i vari punti del famigerato articolo 8 del Regio decreto legge del 17 novembre, è scritto infatti che i figli di un italiano ebreo e di uno straniero erano considerati sempre di razza ebraica112, mentre colui che era nato da genitori entrambi di nazionalità italiana, di cui solo uno di razza ebraica, poteva essere classificato anche non ebreo (qualora al 1° ottobre 1938 avesse professato una religione differente da quella ebraica)113. La legislazione del 1938 presentava dunque un carattere xenofobo, che si riversò anche nelle misure prese dal governo
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M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 168.
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Sulla questione dei matrimoni misti in particolare G., M. e G. Cardosi, Sul confine. La questione dei matrimoni misti durante la persecuzione antiebraica in Italia e in Europa (1935-1945), Zamorani, Torino 1998; si vedano anche le considerazioni sul ruolo dell'aspetto razziale, morale e genetico riguardo il matrimonio in E. De Cristofaro, Codice della persecuzione cit., pp. 213-219.
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Si dice testualmente: «è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di razza straniera».
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«Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1° ottobre 1938-XVI apparteneva a religione diversa da quella ebraica».
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nei mesi successivi all’emanazione delle disposizioni di novembre. A livello pratico, la politica nei confronti degli ebrei stranieri si tradusse in una precisa attività persecutoria, che non si limitava a contemplare per il momento, come nei confronti degli ebrei italiani, solo l’estromissione dalla società e dalla vita pubblica, ma si prefiggeva fin da subito il radicale obiettivo della loro scomparsa dal Regno, da attuare mediante l’emigrazione e l’espulsione all’estero114.
L’atteggiamento ostile contro gli ebrei stranieri tenuto dal governo fascista dopo il 1938 sorprese quanti avevano trovato rifugio in Italia durante gli anni Trenta. La maggior parte di questi erano ebrei tedeschi, che avevano lasciato la Germania con l’avvento del nazismo115. Nella prima metà degli anni Trenta, il regime non ne aveva impedito l’ingresso in Italia, anzi aveva rilasciato, senza troppe difficoltà, le autorizzazioni necessarie e non aveva mai revocato il permesso di immigrazione. In generale, furono applicate le leggi liberali in vigore prima del fascismo. Il fenomeno migratorio tra il 1934 e il 1938 non fu certo di massa: le statistiche effettuate dagli organi ministeriali e dai comitati di assistenza ebraica del periodo fanno ammontare a meno di 2.000 le persone di confessione ebraica giunte in Italia tra il 1934 e il 1936. Il censimento degli ebrei stranieri, voluto nel settembre 1938, calcolava vi fossero quasi 3.000 ebrei tedeschi arrivati dopo il 1933116. D’altronde, in assenza di una legislazione antiebraica in Germania fino al 1935 e quindi di appositi segni di riconoscimento (come la segnalazione di appartenenza alla razza ebraica sui documenti d’identità), era difficile distinguere gli ebrei dai non ebrei venuti dalla Germania. Alla base dell’atteggiamento liberale del governo fascista nella prima metà degli anni Trenta vi erano considerazioni d’ordine politico ed economico. Tra il 1933 e il 1934 italiani, francesi e inglesi si schierarono contro le mire espansionistiche tedesche sull’Austria, periodo culminato con il “fronte di Stresa” del 1935. L’uccisione del cancelliere austriaco Dolfuss a opera di fanatici nazisti (1934) aveva provocato una decisa reazione di Mussolini, il quale aveva perfino ordinato di schierare le truppe italiane alla frontiera del Brennero. L’accoglienza, o meglio, la non opposizione all’ingresso in Italia di emigrati tedeschi era dunque in parte conseguenza dei contrasti del periodo tra Roma e Berlino. Allo stesso tempo, però, vi erano anche motivi di opportunità economica, legati non soltanto al patrimonio che gli emigranti ebrei avrebbero
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Del resto anche nei piani di Hitler inizialmente era prevista l’espulsione degli ebrei dal paese. Accanto all’idea nazista di concentrare gli ebrei in Madagascar, in un primo momento il regime pensò al progetto, presto abbandonato, di trasferire in massa tutti gli ebrei europei in Etiopia, invece che ad esempio in Palestina, cfr. K. Voigt, Il rifugio precario cit., pp. 298-299.
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Per una ricostruzione dell’emigrazione ebraica in Italia negli anni Trenta e la politica d’accoglienza del Regime fascista si fa qui riferimento al lavoro K. Voigt, Il rifugio precario cit..
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portato con loro, soggetto in realtà alle limitazioni degli accordi internazionali tra i due paesi117: dalle zone industrializzate della Germania poteva infatti arrivare gente ricca e specializzata, come imprenditori o dirigenti di aziende. Le facilitazioni all’ingresso in Italia si spiegavano, infine, col fatto che la penisola era un paese di transito, dove gli emigranti, se provvisti di visto e documenti di viaggio, passavano per trasferirsi altrove. Chi veniva a stabilirsi in Italia sapeva certamente di imbattersi in una dittatura, dove qualsiasi manifestazione politica antifascista era vietata. Coloro che abbandonavano la Germania non solo per sfuggire alla violenza nazista, ma anche spinti da convinzioni ideologiche (intellettuali, artisti, lavoratori ecc.), una volta entrati nel territorio italiano erano pertanto obbligati a rinunciare all’attività politica. Quella degli anni Trenta dalla Germania verso l’Italia non fu dunque un’emigrazione politica, perché questa si indirizzò piuttosto su altre mete: Stati Uniti, Francia e Palestina prima di tutto. E il governo fascista, da parte sua, molto probabilmente considerava una garanzia la sua organizzazione statale autoritaria: l’essere una dittatura, infatti, poteva dimostrarsi un elemento sufficiente a scongiurare l’ingresso di antifascisti e di oppositori politici118.
L’atteggiamento del governo fascista cominciò a mutare a partire dalla metà degli anni Trenta. Questo cambiamento va letto all’interno di un duplice ordine di ragioni: da una parte gli ebrei provenienti dal Reich iniziarono a crescere di numero; dall’altra era in corso un riavvicinamento tra lo Stato nazista e l’Italia di Mussolini. Nel 1936 la comunità d'intenti fra i due regimi fu suggellata dal conflitto in Spagna; nello stesso anno fu stipulato un accordo di collaborazione tra la polizia italiana e quella tedesca (la Gestapo). Questo accordo non prevedeva alcuna misura di controllo nei confronti degli ebrei tedeschi presenti in Italia, ma era in realtà incentrato per lo più sull’attività di sorveglianza e persecuzione degli oppositori politici119. Un decisivo cambiamento si ebbe dopo l'Anschluss, a seguito del quale aumentò considerevolmente il flusso migratorio dai territori appena annessi al Reich: il governo fascista rispose vietando l'ingresso in Italia agli ebrei austriaci. Prima della definitiva promulgazione delle leggi razziali, un altro avvenimento determinò un “salto di qualità” nella
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Ivi, pp. 29-36.
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Sulla vicenda degli ebrei tedeschi emigrati in Italia negli anni Trenta e l’atteggiamento della comunità ebraica italiana di fronte a questo fenomeno si veda: A. Minerbi, Tra solidarietà e timori: gli ebrei italiani di fronte all’arrivo dei profughi ebrei dalla Germania nazista, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza cit., pp. 309-319.
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Nelle pratiche che portarono a tale accordo fu determinante il ruolo del capo della Polizia dell'epoca, Bocchini: figlio di un ricco proprietario terriero, laureatosi in giurisprudenza entrò nell'amministrazione dell'Interno nel 1903; nel 1919 fu chiamato a dirigere la Divisione del personale e poco dopo fu nominato prefetto a Brescia, Bologna e Genova. Consigliere di Stato dal 1927 e senatore nel 1933 (non prese mai parte ai lavori parlamentari), ottenne un suo importante personale successo con la stipula dell'accordo di collaborazione tra la polizia tedesca e quella italiana. Morì nel 1940. Cfr. G. Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno: dall’Unità alla regionalizzazione, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 186-187.
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politica contro gli ebrei stranieri nel Regno. In occasione della visita di Hitler in Italia, la polizia italiana procedette all’arresto di circa 500 esuli austriaci, tedeschi e polacchi, per la maggior parte ebrei, sulla base di indicazioni fornite dalla Gestapo. Questa azione fu giustificata come misura di sicurezza contro individui sospetti di attività politica120.
Il decreto legge di espulsione del 7 settembre 1938, noto sotto il nome di Provvedimenti nei
confronti degli ebrei stranieri,121 era quindi il punto di arrivo di un processo iniziato qualche anno prima e culminato con la visita di Hitler: in questa occasione, infatti, il ministero dell’Interno prese in considerazione l’ipotesi dell’espulsione in alternativa agli arresti effettuati dalla polizia. Il decreto di settembre stabiliva che gli ebrei stranieri non potessero più fissare stabile dimora in Italia, in Libia e nei possedimenti nell’Egeo. L’articolo 4 del decreto ingiungeva a tutti gli ebrei stranieri che avessero cominciato il loro soggiorno in Italia dopo il 1 gennaio 1919 di lasciare il paese entro sei mesi (ovvero entro il marzo del 1939) per non incorrere nel provvedimento d’espulsione122. La definizione di ebreo risultava essere quella classica:
agli effetti del presente decreto legge è considerato ebreo colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica123.
I figli di matrimoni “misti” erano quindi esclusi dalla misura di espulsione. Due mesi dopo, il provvedimento fu inserito e inglobato nelle leggi del 17 novembre, all’interno delle quali, come abbiamo detto, la classificazione diventava più ampia e contemplava il criterio aggravante della nazionalità straniera nel caso dei nati da unioni miste. Era stabilito anche il divieto di lavorare per gli ebrei stranieri, da applicare contemporaneamente alla misura di espulsione (ovvero dal 12 marzo 1939).
Il regime fascista, dunque, da un lato invitava i cittadini stranieri di razza ebraica a emigrare in un altro paese entro un breve periodo di tempo; dall’altro mostrava i denti, minacciando l’espulsione per chi non fosse emigrato e chiudendo le frontiere, onde evitare l’arrivo di nuovi indesiderati o il rientro di persone già allontanate in precedenza. I provvedimenti legislativi e amministrativi mettevano in pratica quelle che fino a quel momento erano rimaste solo rivendicazioni della propaganda, che traevano alimento dall’orientamento antisemita diffuso
120
K. Voigt, Il rifugio precario cit., pp. 28-29.
121
Su questo decreto legge si veda A. Minerbi, Il decreto legge del 7 settembre 1938 sugli ebrei stranieri, in M. Sarfatti (a cura di), «La Rassegna mensile di Israel», n. 2, Numero speciale in occasione del 70° anniversario dell'emanazione della legislazione antiebraica fascista, maggio-agosto 2007, pp. 169- 186.
122
M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., pp. 186-191.
123
Citato integralmente ad esempio in appendice in M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei cit., primo documento.
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in Europa e in Italia. Uno Stato alla ricerca dell’unità, della purezza spirituale e storica della sua comunità nazionale doveva obbligatoriamente valutare e tenere sotto controllo l’elemento estraneo rappresentato da persone che non appartenevano, secondo questa teoria, a quella nazione. Osserva Nicola Labanca che, a differenza del razzismo coloniale, l’intolleranza per lo straniero non prevedeva generalmente, come nei confronti del suddito, una politica basata sul dominio e sul potere, giustificata da una supposta inferiorità di chi si aveva di fronte: il pregiudizio xenofobo, cioè, non trovava sempre sostegno da elementi d’ordine razziale124. Le leggi antiebraiche del 1938 unirono invece queste due componenti. Ne uscì un «razzismo xenofobo» che conteneva in sé due elementi: l’attenzione (e la paura) per un elemento estraneo alla comunità nazionale, e motivi di inferiorità razziale. Questo mix, formato da fattori biologici portati a supporto di motivazioni storiche e culturali, provocò quindi due ordini di provvedimenti. Gli ebrei italiani, sebbene estranei alla stirpe pura nazionale perché di razza inferiore e non assimilabile, erano pur sempre nati in Italia e avevano condiviso in parte la storia di questo paese: seguendo un criterio meramente razziale, dunque, il loro “sangue” era diverso, ma la “terra” era comune con il resto degli italiani. Quasi fossero “sudditi” sotto il potere fascista (nati in Italia, ma in una terra che non era la loro), erano soggetti a una restrizione della libertà e della presenza nella vita civile, per evitare che in futuro continuassero a mischiarsi con la società italiana e soprattutto con i “veri” cittadini italiani. In realtà anche per loro era stato previsto l’allontanamento dal Regno: dall’autunno del 1938 in poi, il governo adottò un orientamento volto a facilitare e a non ostacolare l’espatrio, ma non prese misure ufficiali125. Quanto agli «ebrei stranieri», invece, considerati ora una vera e propria categoria a parte, non esisteva nessun elemento che li unisse alla comunità nazionale italiana e che ne giustificasse la presenza in Italia, né storico-culturale, né tanto meno razziale. Di conseguenza, l’allontanamento fisico dal Regno risultava essere un provvedimento coerente, nonché l’unico da prendere.
Il passaggio dalla legge alla sua applicazione poneva tuttavia dei problemi concreti non previsti. Ben presto, infatti, anche le autorità governative si accorsero che il progetto di allontanamento e di espulsione degli «ebrei stranieri» non era attuabile in modo così lineare come lo era a livello teorico. Ai problemi burocratici legati ai tempi di rilascio dei visti si aggiungeva, elemento non secondario di certo, la questione dell’accoglienza di questi individui negli altri paesi. La conferenza di Evian convocata nel luglio 1938 dal presidente americano Roosevelt proprio per discutere dell'accoglienza degli ebrei in fuga dalla Germania
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N. Labanca, Il razzismo coloniale italiano, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza cit., pp. 145-163. Dello stesso autore cfr. Oltremare, storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002.
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nazista non aveva portato ad alcun accordo. All’inizio del 1939, di fronte all’aggressiva politica tedesca e all’avvicinarsi di una guerra che appariva sempre piùinevitabile, ogni paese europeo, già aggravato dagli effetti della crisi del 1929, si stava dunque organizzando per limitare l’ingresso indiscriminato di profughi, ebrei e non. Il regime fu posto subito davanti all’evidenza che non aveva senso, quindi, inviare persone alla frontiera francese, svizzera o jugoslava, se questi governi si rifiutavano di accoglierle. Così, già nel marzo 1939 Mussolini decise, in quanto ministro dell’Interno, di sospendere il decreto di espulsione a favore di un allontanamento più graduale, diluito in un arco di tempo più ampio rispetto ai pochi mesi inizialmente considerati. Come osserva Klaus Voigt, il Duce:
a fine febbraio [1939, Mussolini] aveva ormai deciso di non applicare in pieno il decreto di espulsione, che in effetti costituiva un tipico esempio di politica impulsiva e improvvisata, sulle cui implicazioni non si era riflettuto a sufficienza126.
Allo stesso tempo però il governo perseguì una linea molto più decisa nell’opporsi all’ingresso in Italia di profughi provenienti dall’estero. Nell’agosto del 1939 vietò gli ingressi, anche solo per “soggiorno”, agli ebrei in fuga dai paesi che applicavano una legislazione razziale: Germania, Ungheria, Polonia e Romania127.