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Ai fini di questa trattazione, parrebbe evidentemente maggiore la ‘tentazione’ verso la secessione in capo a quei territori la cui l’autonomia sia definita in chiave etnica e di ‘proprietà’ da parte dei gruppi dominanti in essi insediati, perché si tratta di regioni che sono già essenzialmente strutturate come stati nazionali.

La realtà europea tuttavia mostra che, almeno finora, non è stato questo il caso. Le regioni nelle quali maggiori sono state le spinte secessionistiche non sono finora state quelle maggiormente definite in chiave etnica. Se si pensa ai ter- ritori appartenenti all’Unione europea nei quali maggiore è stato il richiamo alla secessione, dalla Scozia alla Catalogna, dal Paese basco alle Fiandre, includendo anche i casi in cui le spinte sussistono pur restando ampiamente minoritarie, come la Provincia di Bolzano, la Corsica o l’abbandonata idea della ‘Padania’, in tutti i casi si tratta di territori non costruiti, almeno sul piano giuridico-isti- tuzionale, sulla ‘proprietà’ di un gruppo etnicamente definito. Ciò naturalmente vale in via approssimativa, perché approfondendo le diverse realtà la situazione appare più articolata e l’affermazione dovrebbe risultare meno netta (si pensi ad esempio alle Fiandre e all’Alto Adige, in cui elementi sociali e istituzionali di dominio di un gruppo su un territorio sono in effetti ampiamente presenti e dove senza dubbio la garanzia dell’autogoverno di un gruppo linguistico è alla base della creazione dell’autonomia territoriale). Tuttavia sul piano generale l’af- fermazione sembra fondata. Di certo le richieste secessioniste non hanno quasi alcuna presa nei territori più direttamente connotati in chiave di proprietà di un gruppo, almeno con riguardo ai territori appartenenti all’Unione europea, mentre in contesti, anche europei, esterni all’UE la situazione pare diversa (si pensi in particolare alle entità della Bosnia Erzegovina, al Kosovo, alla Gagauzia, o ai vari conflitti congelati nell’area ex sovietica, per restare all’ambito geografico europeo).

Cosa induce dunque a ritenere che le tendenze separatiste in Europa non derivino, almeno in via primaria, da un assetto istituzionale che favorisce la precomprensione dei territori in chiave di micro-stati nazionali omogenei? E l’appartenenza all’Unione europea potrebbe dunque rappresentare un ostacolo

alla secessione di regioni etnicamente connotate, ma incentivare quella di altri territori diversamente definiti?

Le possibili spiegazioni sono diverse. Innanzitutto esistono strumenti di attenuazione dell’identificazione esclusiva tra gruppi e territorio, che rendono giuridicamente spurie realtà che sarebbero altrimenti più marcatamente conno- tate in via etnica. Basti pensare al potere di intervento dello Stato a garanzia del mantenimento dell’uguaglianza tra i cittadini, alla presenza di un pervasivo cata- logo statale dei diritti fondamentali, o agli istituti della condivisione del potere (power sharing) tra i diversi gruppi volti a superare la logica maggioritaria in una serie di ambiti strategici (McGarry, O’Leary, 1993). Tali istituti, variamente presenti nei diversi contesti, rendono meno oggettivo l’inquadramento dell’uno o dell’altro caso come espressione dei diversi modelli. Conta poi non poco la tradizione culturale in cui i vari casi si collocano, specialmente da un lato quella ‘etnica’ di area germanica e centro-europea e dall’altro quella ‘civica’ di tradizione franco-latina. Così ad esempio appare assai complesso classificare l’esperienza catalana, nella quale l’appartenenza alla ‘nazione’ catalana (termine invocato dal campo separatista, in opposizione alla ‘nazionalità’ riconosciuta al popolo catalano dalla costituzione spagnola) è certamente di carattere civico e tendenzialmente inclusivo, ma la narrazione intorno alla diversità del popolo catalano è intrisa di elementi culturali e storici, e la tensione tra questi fattori emerge con molta evidenza dal preambolo dello statuto di autonomia del 2006 (Poggeschi, 2018; Cagiao y Conde, Ferraiuolo, Rogobon, 2018).

Soprattutto però, i fattori che maggiormente influiscono sulla presenza di spinte separatiste in regioni dell’Unione europea sono di altra natura rispetto al dato puramente etnico-linguistico e nazionale, e alla susseguente volontà di dominio su un territorio, e sono piuttosto di natura economica, politica e istituzionale.

2.3. Economia, politica e asimmetria…

Il punto essenziale di partenza per le spinte secessionistiche è evidentemente la convenienza ad avere uno Stato indipendente. Detto di come tale convenienza non sembri sufficientemente motivata, all’interno dell’Unione europea (mentre al di fuori ancora sì) dalla mera volontà di dominio etno-nazionale su un terri- torio, occorre interrogarsi su cosa possa indurre a ritenere preferibile, per un territorio appartenente all’Unione europea, la rottura dell’ordinamento statuale di appartenenza e la creazione di uno Stato autonomo rispetto alla ricerca di un posto al sole nell’ordinamento multilivello.

Un primo, ovvio fattore è di natura economica. E si declina in due diverse ramificazioni tra loro connesse: la convenienza e la forza. Non pare un caso che l’opzione separatista abbia maggiore seguito in aree economicamente più forti del resto del territorio nazionale e sufficientemente grandi, in termini territoriali

ma anche e soprattutto di prodotto interno lordo, da potersi ritenere economi- camente autosufficienti. Così in Scozia e Catalogna, ma anche nelle Fiandre e in alcuni contesti dove le richieste secessioniste sono presenti pur senza alcun significativo consenso, come le grandi regioni del nord Italia e la Baviera – in quest’ultima l’altrimenti irrilevante movimento secessionista è giunto all’onore delle cronache quasi solo per aver originato una pronuncia del Tribunale costi- tuzionale federale tedesco nel dicembre 2016, in cui i giudici hanno liquidato in pochissime righe la questione, affermando che l’ordinamento costituzionale tedesco non contempla la secessione di un Land.

Naturalmente le dinamiche sono diverse nei diversi territori (Collier, Hoeffler, 2002). Così in particolare in Scozia la forza economica è data da un sistema di welfare diverso dal resto del Regno Unito, finanziato con regole proporzio- nalmente più generose come la cd. ‘formula Barnett’ (Parolari, 2008) nonché da regole differenziate negoziate in sede europea per politiche particolarmente rilevanti per il territorio come la pesca. Nel contempo, l’abbondanza di petro- lio nel mare del Nord e il suo sfruttamento attualmente congiunto sono ritenuti fattori di autosufficienza economica in caso di indipendenza. La Catalogna rap- presenta il 16% della popolazione spagnola ma produce oltre il 20% del PIL nazionale e quasi il 25% della produzione industriale. I suoi dati economici sono tutti migliori rispetto al resto della Spagna, dalla minore disoccupazione al mag- giore export. Nelle Fiandre il PIL pro capite è di un terzo maggiore rispetto alla Vallonia e la disoccupazione è meno della metà. In Lombardia il PIL pro capite è al quinto posto in Europa, come reso noto dalla regione che ha messo a confronto i dati economici lombardi con quelli degli Stati europei in prossimità del referen- dum sull’autonomia differenziata dell’ottobre 2017. La motivazione economica risulta determinante anche in altri territori che hanno avuto uno sviluppo econo- mico particolarmente significativo per essere passati da percettori a pagatori netti nel sistema di perequazione finanziaria nazionale: è il caso della Baviera, delle Fiandre e dell’Alto Adige. Come appare anche intuitivamente, territori economi- camente deboli non sviluppano spinte secessionistiche significative, in quanto sugli aspetti storici, etnici o politici prevale la considerazione della non autosuf- ficienza economica. Per contro, l’essere stati in passato territori poveri che hanno avuto bisogno di ricorrere, anche massicciamente, alla perequazione finanziaria, non sembra aver lasciato alcun residuo solidaristico in tali territori.

Accanto alle motivazioni economiche, un ruolo assai importante è rivestito dalle dinamiche politiche. In primo luogo, un peso assai significativo è svolto dalla presenza o meno di partiti territoriali, tanto più se connotati su base etnica (Elias, 2011). Poiché le richieste di secessione sono di natura politica, la pre- senza di partiti nazionali tende a scoraggiare l’avanzamento di simili richieste, tanto che la loro proposizione è ritenuta possibile solo in presenza di (forti)

partiti territoriali (anche se non necessariamente etnici) (Lluch, 2014). Il dato è confermato da evidenze empiriche in tutti i territori in cui la proposta seces- sionista è anche soltanto presente: dalla Catalogna al Paese Basco, dalla Scozia alle Fiandre, dall’Alto Adige alla Baviera, fino all’interessante caso della cd. Padania, che è stata per qualche tempo una costruzione di un partito politico che (a intermittenza) ne propugnava la secessione e che ha cessato di esistere nella narrazione politica (ma non solo: anche ad esempio nella denominazione dei gruppi parlamentari: da ‘Lega Nord per l’indipendenza della Padania’ nella XVI legislatura 2008-2013 a ‘Lega’ nella XVII, 2013-2018) quando la linea politica di tale partito è mutata.

In secondo luogo, oltre alla presenza di partiti in grado di farsi carico della domanda secessionista, vi sono fattori politici più generali, che riguardano le dinamiche della formazione del consenso politico. La vicenda più interes- sante ed emblematica in tal senso è quella relativa alla Catalogna, regione nella quale sono sempre esistite forze indipendentiste, ma dove vi è stata una rapida evoluzione politica a seguito della controversa sentenza del 2010 del Tribu- nale costituzionale sullo statuto di autonomia (in cui lo statuto bilateralmente concordato con Madrid e ratificato con referendum popolare è stato dichiarato illegittimo in alcuni suoi aspetti fondamentali), che ha enormemente aumentato il consenso per le posizioni separatiste, anche in forze politiche non indipenden- tiste ma autonomiste (Castellà Andreu, 2016). Ciò a causa della sensazione di frustrazione per non vedere prese sufficientemente sul serio le richieste di auto- nomia differenziata provenienti da ampi settori della società.

Siamo così ad una ulteriore e fondamentale motivazione della spinta sepa- ratista, di natura istituzionale e tuttavia diversa rispetto alla questione della proprietà etnica di un territorio. Si tratta del tema dell’asimmetria, ossia di una organizzazione istituzionale che concede al territorio in questione “forme e con- dizioni particolari di autonomia”, secondo l’espressione dell’art. 116 c. 1 della costituzione italiana. Si produce in tal modo una distinzione anche giuridica (asimmetria de iure) che si aggiunge alla strutturalmente inevitabile asimmetria di fatto (Watts, 1999, p.63), normalmente concessa per rispondere con norme

ad hoc a specifiche esigenze di specifici territori per ragioni storiche, geogra-

fiche, culturali o linguistiche. L’asimmetria giuridica garantisce ai territori in questione maggiori poteri (almeno in termini quantitativi) e generalmente forme più favorevoli di rappresentanza, finanziamento e relazioni istituzionali con il centro di quanto sia normalmente previsto per gli altri territori. Dando luogo a un trattamento differenziato tra territori e cittadini che li abitano, lo status speciale è previsto a livello costituzionale (talvolta con un ancoraggio internazionale, come nel caso dell’Alto Adige o delle isole Åland). In rari casi lo status differenziato giunge a contemplare l’ipotesi della secessione, come nel caso delle isole Far Oer

e della Groenlandia nel contesto danese e della Gagauzia in Moldova (nel caso lo stato perdesse la propria indipendenza, art. 1 legge speciale sull’autonomia).

L’asimmetria di status non ha solo una componente giuridica ma anche una dimensione psico-politica. Se sul piano giuridico la questione riguarda soprat- tutto la previsione di competenze e del loro finanziamento, su quello politico conta molto la percezione del trattamento differenziato. La Spagna, spesso indi- cata come prototipo del modello asimmetrico, ha in realtà compiuto un percorso di uniformazione, in base al quale a partire dagli anni ’90 tutte le comunità autonome hanno avuto almeno la possibilità di accedere al grado più alto di auto- nomia, secondo la formula nota come clausola Camps o ‘cafè para todos’, una clausola contenta nello statuto valenziano (disposizione addizionale seconda) e poi ripresa in altri statuti secondo cui “qualsiasi ampliamento delle compe- tenze delle comunità autonome che non siano già previste nel presente statuto (…) obbliga le istituzioni dell’autogoverno a promuoverne l’attribuzione, il tra- sferimento o la delega alla comunità valenziana”. In questo modo la specialità catalana e in parte quella basca (che resta comunque particolare per il sistema di finanziamento e per il diritto forale), oltre a quella galiziana, è stata progres- sivamente erosa a causa dell’aumento delle competenze delle altre comunità autonome, così offrendo la sensazione che il resto del sistema spagnolo non prendesse sul serio le rivendicazioni di uno status particolare.