4 LA RIDUZIONE COME ESERCIZIO DI APERTURA ALLA RELAZIONE
4.3 Relazione e moralità: il senso etico della riduzione come apertura al relazionismo
§1 La monade come nulla originario che tende ad essere
L’evidenza negativa dell’irriducibilità della fatticità rende quindi necessaria una reinterpretazione delle verità fenomenologiche che, presentandosi comunque in una esperienza riduttivamente purificata, mantengono invariato il loro valore di verità trascendentali intuitive ed indubitabili. Occorre mantenere le evidenze fenomenologiche fondamentali e al tempo stesso reinterpretarle in base ad una genesi che non è mai pura e che viene ad identificarsi infine con la storia personale di ogni individuo e, ad un livello di analisi superiore, con l’intera storia dell’umanità che deriva dalla relazione tra ogni singola storia personale.
378 Sostiene in questo senso Merleau-Ponty: “La vera solitudine trascendentale non è questa [quella attinta
mediante l’esclusione del senso alter-ego]: essa ha luogo solo se l’altro non è nemmeno concepibile, e ciò esige che non ci sia neppure un io per rivendicarla. Noi siamo veramente soli unicamente a condizione di non saperlo, la nostra solitudine è questa stessa ignoranza […]. La solitudine da cui emergiamo alla vita intersoggettiva non è quella della monade: è solo la nebbia di una vita anonima che ci separa dall’essere; la barriera tra noi e l’altro è impalpabile” (M. Merleau-Ponty, Il Filosofo e la sua ombra, in Segni. Fenomenologia e strutturalismo, linguaggio e politica, Il Saggiatore, Milano 2015, p.202).
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Ogni monade si svela allora, originariamente, come un nulla379. Non vi è alcuna ragione originaria, alcuna universale vita fungente. La coscienza, originariamente priva di ogni mondo e di ogni consapevolezza, tende verso l’estraneo che la circonda da tutti i lati. Essa vi tende inizialmente a partire dai bisogni corporei e dagli istinti. In una totale oscurità della coscienza l’istinto e il bisogno dirigono l’individuo verso gli oggetti e verso gli altri soggetti380. Poiché però la monade è essenzialmente in un qui ed ora, individualizzata e legata indissolubilmente al proprio Leib, essa non può unificarsi con ciò verso cui tende: vi tende senza poterlo raggiungere, senza potervisi identificare. La datità assoluta di ogni tema, allora, è irraggiungibile poiché coscienza e non-coscienza sono originariamente separati e non riunificabili. La monade, nel tendere verso l’altro, tende all’unità assoluta di coscienza e mondo, di soggetto ed oggetto, ma non può raggiungerla, poiché essa sorge originariamente come individualità separata, e senza questa originaria separazione, decretata dalla nascita corporea come evento trascendentale, non potrebbe neppure sorgere come coscienza.
La monade è un divenire incessante non in virtù della sua essenza autonoma, bensì in virtù del suo essere in una distanza infinita e insuperabile da ciò verso cui essa tende. Ogni costituito può sorgere per-la-monade solo nella misura in cui, primariamente, le sfugge, ogni darsi immanente ed ogni possesso non è che la manifestazione limitata di ciò che rimane irraggiungibile. Il movimento teleologico verso l’universalità sorge allora originariamente col riconoscimento dell’altro in quanto altro, e non prima di esso. Esso sorge poiché la coscienza si esprime fin dall’inizio come mancanza, come insufficienza. Nel riconoscimento dell’altro in quanto altro ogni possesso si rilancia oltre se stesso, ogni donazione di senso si rivela nella sua parzialità. Ma, nel sottolineare l’originarietà della relazione all’estraneo, occorre distinguere l’estraneità propria delle cose, da quella che caratterizza l’alter-ego.
379 In questo senso è possibile rielaborare la domanda leibniziana, conseguente al “principio di ragion
sufficiente”: “Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?” (G.W. Leibniz, Principi razionali della natura e della grazia, in Monadologia, cit., §7). Leibniz risponde a questa domanda esponendo la necessità dell’esistenza di Dio come “ragion sufficiente ultima dell’universo”. Nel nostro contesto argomentativo la questione non riguarda l’esistenza reale del mondo e dell’universo, bensì la necessità che una coscienza totalmente oscura, priva originariamente di un mondo e di una storia personale nella quale riconoscersi, si sviluppi, in donazioni di senso sempre rinnovate, costituendo il mondo e se stessa come uomo singolo in comunicazione con gli altri uomini. La “ragion sufficiente” di questo dispiegarsi costituente e mondanizzante è, a nostro avviso, l’originaria relazionalità della coscienza.
380 I temi della pulsione (Trieb) e dell’istinto (Instinkt), di centrale importanza in relazione al tema
dell’intersoggettività e dell’empatia originaria, sono affrontati da Husserl in numerosi manoscritti degli anni ’30, in particolare negli inediti del gruppo E III (per una breve ma interessantissima analisi di questi manoscritti cfr. A. Pugliese, Unicità e relazione, cit., cap. V, §3). Per una analisi approfondita di queste tematiche vedi Nam-In Lee, Edmund Husserls Phänomenologie der Instinkte, cit.; e anche J. Mensch, Instincts – A Husserlian Account, “Husserl Studies”, 14, 1998)
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Se proviamo ad ipotizzare un mondo abitato da un singolo individuo, da un unico soggetto, possiamo immaginare che egli, tendendo verso tutto ciò che lo circonda, costituirebbe il proprio mondo di oggetti sensati, di unità sintetiche oggettuali. Anche in questo caso l’irraggiungibilità della datità assoluta sarebbe motivata dalla distanza originaria tra il soggetto e ciò verso cui esso tende. Il soggetto, spinto dai bisogni primordiali, si spinge verso ciò che lo circonda, ma non può raggiungere il pieno soddisfacimento della tensione, poiché la separazione corporea tra lui e tutto il resto è attualmente insuperabile. Da questa tensione primitiva potrebbero sorgere e svilupparsi tensioni e donazioni di senso di livello superiore: egli potrebbe imparare a costruire strumenti, a dominare e conoscere la realtà che lo circonda. Anche per l’uomo in solitudine, dunque, la coscienza sorgerebbe come tensione verso l’ignoto, e, in donazioni di senso sempre più elevate, costituirebbe progressivamente il suo mondo. Anche per questo ipotetico unico uomo la tensione sarebbe dunque perennemente insoddisfatta, motivata e rilanciata sempre di nuovo dalla insufficienza che la muove, dalla insuperabile e fattuale distanza tra coscienza e non-coscienza. Anche in questo caso la coscienza potrebbe sorgere come divenire solo tendendo verso ciò che essa non possiede, e, dal momento che ogni possesso è provvisorio, dal momento che ogni intenzione non si risolve mai nella perfetta identità tra soggetto e oggetto, il divenire della coscienza sarebbe, anche in questo caso, potenzialmente infinito.
Non sembra dunque che la coscienza, per sorgere nel suo divenire costituente infinito, abbia bisogno di un alter-ego. Ma l’irraggiungibilità della datità assoluta, nel caso della cosa, si manifesta come potenzialmente sempre superabile, come un’inesauribilità potenzialmente esauribile. La cosa ha i suoi modi di datità, e in base ad essi il soggetto può donarle il senso che le è proprio. Tale senso è sempre provvisorio poiché la coscienza, nel suo tendere, fluisce perennemente, poiché anche in questo caso ogni singola esperienza sarebbe, di fatto, irriducibile, e pur costituendo ogni cosa in sé come possesso definitivo, non potrebbe mai giungere ad un pieno soddisfacimento, e la definitività potrebbe essere smentita da un vissuto successivo. Ad esempio, anche se tutto ciò che, nell’esperienza di questo singolo uomo, viene scoperto come commestibile, assume definitivamente il senso di “cibo”, ad ogni morso della fame il soggetto dovrebbe comunque spingersi di nuovo verso l’esterno, in una nuova esperienza. E in questa nuova esperienza egli sarebbe guidato dall’abitualità, da ciò che ha già costituito in sé come “noto”, ma potrebbe comunque vedere disattese le proprie aspettative: qualcosa di molto somigliante a ciò che aveva ingerito ieri potrebbe rivelarsi inaspettatamente un’altra cosa, ed egli potrebbe
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scoprire che è velenosa, nociva o non commestibile. L’esperienza di questo singolo uomo sarebbe comunque un infinito tendere verso un’identità di coscienza e mondo che è e rimane irraggiungibile, verso un dominio ed un possesso inattuabili.
Ma se la cosa è ineasauribile per-me, in virtù della mia originaria gettatezza, mancanza e temporalità, l’altro si rivela negativamente come inesauribile-in-sé, come infinito fluire non oggettivabile, non finitizzabile. L’alterità dell’altro si rivela come alterità-per-me, solo in base al suo essere altro da me in modo essenziale ed originario. È nel confronto con questo abisso di estraneità, sul quale l’empatia non può che gettare uno sguardo protentivo ed appercettivo, ma mai intuitivo, che l’uomo diviene, autenticamente, uomo.
L’ipotetico individuo isolato non potrebbe mai porsi il problema della conoscenza in un modo che esuli dal semplice dominio tecnico del mondo. Egli non potrebbe sviluppare in sé i problemi della morale e della conoscenza teoretica, non potrebbe aspirare alla verità in senso proprio, sebbene in lui siano già presenti, potenzialmente, questi sviluppi. Il fatto è che l’uomo nasce e si sviluppa come uomo, da sempre, in società, in comunicazione con altri uomini. Se tentiamo di eliminare l’alterità e la relazione, l’essere umano diventa poco più che un animale dotato di una grande capacità cognitiva. Dove finisce l’animale razionale se eliminiamo la sua peculiare capacità comunicativa e relazionale? Dove è la razionalità originaria che deve precedere e fondare l’intersoggettività?
È la capacita di essere-in-relazione, prima di ogni presunta facoltà razionale, prima di ogni presunta soggettività trascendentale originaria, a rendere l’uomo animale razionale, animale che tende verso l’universalità del senso. È nella relazione che l’uomo diventa uomo, che la soggettività trascendentale come infinita tensione verso l’idea di universalità può sorgere. Compiendo la riduzione al proprio Husserl dovrebbe ammettere che la condizione ultima affinché dal dominio primordinale (paragonabile, anche se con qualche riserva, al mondo dell’uomo solitario) si sviluppi il mondo oggettivo (come idea) non è il sorgere, sul fondamento di esso, del senso alter-ego. Egli dovrebbe riconoscere che, affinché questo senso possa sorgere, occorre più originariamente che l’alter influenzi da sempre il proprio, che esso stia a fondamento del modo in cui io mi relaziono al mio mondo: che anche il mondo primordinale, nella sua storicità concreta, è influenzato dall’alterità in tutte le sue forme (tra le quali un ruolo centrale è svolto dall’umanità passata), e quindi che una concreta riduzione dell’alterità risulta, in ultima analisi, impossibile, se vogliamo che l’oggetto della nostra ricerca non si trasformi in qualcosa di diverso, in un animale primitivo che ha poco in comune con l’essere umano.
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L’uomo solitario non è l’uomo da cui sorge la filosofia, né l’uomo di cui la filosofia si interessa. L’uomo originariamente isolato e solo nel mondo non è uomo etico, morale, né teoretico. Sebbene esso sia immaginabile e ipotizzabile, l’ipotesi stessa dell’inesistenza dell’alter-ego e dell’assenza o non originarietà della relazione rende l’uomo un non-uomo, rende l’essere razionale un essere definitivamente irrazionale.
Il motivo di questa inseparabilità dell’essere umano dalla sua relazione all’altro si manifesta, a ben vedere, nell’analisi fenomenologica stessa, liberata da ogni condizionamento. Il fatto irriducibile dell’incontro con l’altro, nella forma dell’appercezione di un corpo vivo come corpo di un alter-ego è condizione di possibilità di ogni genesi monadica e intermonadica. Pur potendo immaginare un mondo in cui questo incontro non si realizza mai, o non si sia ancora realizzato, non possiamo far questo senza escludere dall’uomo tutto ciò che lo rende, di fatto, tale: possiamo escludere il fatto concreto dell’estraneità e reincluderla come semplice strato di senso all’interno di una genesi monadica perfettamente autonoma, ma non possiamo fare questo senza perdere definitivamente il senso storico dell’uomo come essere relazionale e relativo. Muovendo dalla genesi pre-storica e dalla soggettività trascendentale non ritroviamo mai né la storia né l’uomo: perdiamo quel senso che volevamo ritrovare, poiché lo recludiamo in una originarietà chiusa su se stessa.
Per l’uomo che nasce in società, ovvero per l’uomo del quale la filosofia si interessa, e dall’attività del quale la filosofia originariamente sorge, l’incontro irriducibile con l’alter- ego è evento costituente ed originario: con la relazione all’altro l’uomo apre se stesso alla possibilità di essere razionale. L’incontro con l’altro si mostra allora come primo evento storico (nel senso della storia personale di ogni singola monade, ma anche nel senso della storia in generale) avente valore di costituente, ed irriducibile ad un costituito. Poiché tale incontro non è racchiuso a priori nella monade stessa, e ipoteticamente potrebbe anche non avvenire (come mostra l’ipotesi sopra esposta), esso non è riducibile a semplice articolazione di una genesi autonoma e pre-storica. Nella genesi originariamente passiva, che è anche storia personale ed individuale, nell’altro la monade non vede originariamente solo un suo analogo, ma un alter-ego che mette in dubbio il suo dominio costituente, la sua autonomia, che possiede un mondo diverso ed estraneo, ignoto, e che, proprio per questo, influisce sulla donazione di senso della singola monade che lo intenziona.
Analizzando lo sviluppo psicologico dell’infante questi aspetti emergono con più chiarezza. Il bambino, crescendo e donando progressivamente senso alle cose, non costituisce prima il mondo solo in base a se stesso, per poi donargli ulteriori
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determinazioni in base all’influenza della madre, e dell’educazione familiare e sociale, bensì costituisce il mondo in un rapporto dialettico tra ciò che egli intenziona in una esperienza diretta e ciò che, attraverso la relazione all’alter-ego (originariamente, alla madre), gli viene insegnato. Nel momento in cui nell’infante si sviluppa una coscienza desta e capace di rimemorazione e riflessione, egli ha già appreso una determinata lingua, ha già dato un nome alle cose in base a ciò che ha appreso dagli altri, vive già in un mondo intersoggettivo, culturale e relativo. Non è un caso se la capacità di parlare sembra sorgere nello stesso momento in cui sorge la capacità di ricordare. La relazione all’alterità, nel bambino che, dopo una prima fase di onnipotenza riesce a cogliersi come individuo separato dalla madre e in comunicazione con lei, è la porta di passaggio affinché l’uomo diventi uomo.
La fase neonatale dello sviluppo del bambino aiuta inoltre a comprendere meglio la passività intematizzabile che precede ogni passività tematizzata: nella fase iniziale della vita il bambino non ha propriamente alcun mondo, ogni sua esperienza viene vissuta nel presente vivente e sprofonda nel passato, motivando un vissuto successivo. Ogni vissuto influenza quello successivo ma non può, a questo livello, costituire alcuna immanenza, né alcuna trascendenza: non può infatti essere ricordato, e non potrà essere ricordato neppure quando la coscienza si sarà risvegliata e sarà capace di rimemorazione. Nonostante questo lo sviluppo dell’infante mostra che ogni vissuto, ogni esperienza, ha valore costituente e non rimane chiusa in se stessa. Ogni vissuto si sedimenta in abitualità e motiva i vissuti successivi, poiché se così non fosse non potrebbe di fatto esservi alcuno sviluppo: l’uomo rimarrebbe perennemente un bambino privo di autocoscienza. Solo che a questo livello l’abitualità non può essere ridestata, il passato non è passato rispetto ad un presente, non è trascendenza rispetto all’immanenza attuale, e ciò nonostante agisce da motivante nella genesi dell’individuo.
Ciò che questo breve cenno rende comprensibile è che l’altro non sorge, originariamente, come alter-ego trascendentale, bensì come alter-ego empirico, dotato di una cultura, di una storia personale, di un carattere e di una individualità irripetibili. È questa individualità personale ad agire da co-costituente nella genesi della monade, ad insegnare al bambino il nome delle cose, i valori morali, le conoscenze tradizionali già acquisite dall’umanità passata, e, soprattutto, a mettere radicalmente in dubbio e contemporaneamente a far sviluppare ogni donazione di senso privata. In questa relazione costituente tra individualità irripetibili, l’obiettività, prima di sorgere come telos, sorge come problema. L’obiettività diviene il telos di una costituzione relazionale e relativa, in
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cui ogni monade costituisce se stessa e il proprio mondo in relazione alle altre monadi e al loro mondo. In questo senso ci sono tanti mondi quanti sono i soggetti che vi si riferiscono. Il mondo unico e perfettamente oggettivo non sorge da una costituzione armonica in una molteplicità di individuazioni di un’unica soggettività, ma da una costituzione eteronoma in cui ognuno ha il suo proprio mondo individuale che, nella relazione con l’altro e con il suo mondo, viene posto in dubbio, viene criticato, smentito, mostrato nella sua relatività381. Nell’altro la monade scopre, prima di tutto, la propria relatività e singolarità e non trova specchiata in esso, come invece vorrebbe mostrare la genesi intesa nel suo senso eidetico, la propria razionalità. È proprio perché l’altro è portatore di un mondo estraneo ed individuo diverso da me, che esso rimane inesperibile ed inesauribile. È la radicale diversità e singolarità dell’altro che permette alla monade di cogliere la propria insufficienza, il proprio limite, la propria fatticità.
Così, nell’altro, io non trovo inizialmente semplicemente un mio analogo: mentre mi specchio in esso non mi riconosco. Solo così può prodursi, nella monade, una distanza da sé che permette alla coscienza di superare se stessa, di spingersi verso ciò che ancora non è: permette al nulla originario di tendere ad essere, ovvero di costituire in sé un mondo e di auto costituirsi come ego, come uomo, come membro di una comunità.
Se la riduzione mostra in tal modo la relatività di ogni genesi e di ogni monade, al tempo stesso essa non conduce al relativismo. Poiché è proprio nella relazione all’alterità che, cogliendo la propria non-autonomia, la monade intenziona un’oggettività irraggiungibile, una universalità trascendentale che non è nei fatti, ma si esprime come idea-fine, un’armonia che è e rimarrà irraggiungibile, ma che ciò nondimeno guida da sempre l’intera storia dell’uomo come animale relazionale che tende alla propria razionalità. Il telos della razionalità non è un fine autonomo ed immanente alla monade,
381 Questo, del resto, è perfettamente coerente con l’analisi del fenomeno dell’affezione, che Husserl porta
avanti nelle Lezioni sulla sintesi passiva. Qui si legge, ad esempio: “L’affezione presuppone innanziutto il risaltare […]. Poiché l’affezione che si produce nel presente impressionale deve essere considerata la più originaria, il contrasto deve essere a sua volta caratterizzato come la condizione più originaria dell’affezione” (LPS, p. 244, corsivo mio). Ciò che occorre sottolineare è che, nel caso dell’incontro con l’alter-ego e dell’appercezione dell’alterità, affinchè il contrasto sia originario e renda possibile l’affezione occorre che l’alter-ego sia, originariamente altro-da-me, estraneo, diverso, e non un mio simile. In ques’ottica l’originario irriducibile è la differenza e non l’identità: solo a partire dalla differenza è possibile la relazione irriducibile come fonte autentica di ogni donazione di senso. Se si considera, inoltre, che il fenomeno dell’affezione e quello del ridestamento sono fenomeni fondamentali nel condurre la coscienza dalla passività all’attività, ci accorgiamo che l’azione co-costituente dell’alter-ego sulla monade precede e fonda la donazione di senso con cui la monade costituirà in sé l’alter-ego come suo analogo, come trascendenza nell’immanenza. Come già sostenuto: la costituzione del senso “alter-ego” nella genesi monadica presuppone una effettiva azione costituente dell’alter-ego, azione che trascende la donazione di senso e la rende possibile, la quale a sua volta presuppone che la differenza tra le monadi, la loro individualità irripetibile, sia originaria ed irriducibile.
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ma un fine che sorge dall’incontro e dal riconoscimento dell’altro, e che, sorgendo, rende l’uomo uomo, rende l’animale un essere razionale, un dover-essere-razionale.
L’anomalia non può essere in quest’ottica solo una variazione della normalità: è la normalità che sorge come trascendenza, come plus intenzionale, dal reciproco costituirsi di ogni singola monade che, nella sua singolarità, è a suo modo anomala. Il divenire della monade, allora, non è un divenir-se-stessa della soggettività trascendentale, bensì il divenire-altro-da-sé di un singolo, un divenire ciò che ancora esso non è. Nella relazione all’alterità ogni singolo individuo apre il suo esser-così alla possibilità di divenire-altro, alla possibilità del dover-essere.
Così ogni individuo può divenire uomo maturo, uomo di una determinata cultura e di