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Storia e crisi: i paradossi della separazione fenomenologica di genesi e storia

4 LA RIDUZIONE COME ESERCIZIO DI APERTURA ALLA RELAZIONE

4.2 Storia e crisi: i paradossi della separazione fenomenologica di genesi e storia

L’insufficienza di una genesi intesa come progressiva stratificazione di senso interna alla monade che ci ha condotto a dubitare della differenza fenomenologica tra storia e genesi, si rivela con ancora più forza nel contesto di una fenomenologia della storia. In Crisi Husserl muove dalla situazione storica attuale, in cui rileva una profonda crisi dell’umanità e della filosofia. Uno degli aspetti della crisi, oltre alla più centrale critica al positivismo, è il moltiplicarsi delle teorie filosofiche, delle “lotte tra filosofie”363. Questo aspetto è messo in evidenza anche nell’ Introduzione alle Meditazioni cartesiane:

Al posto della filosofia vivente in modo unitario, non abbiamo che una letteratura crescente all’infinito quasi priva di connessione; al posto di una seria meditazione tra le teorie in contrasto […] ma non si trova la minima traccia di uno studio convergente, consapevole e responsabile, condotto nello spirito di una collaborazione […]. Ci sono in verità congressi filosofici, ma in essi convergono solo i filosofi, non le filosofie364.

L’attenzione che Husserl rivolge alla moltiplicazione delle teorie filosofiche, alla perdita di un fine comune alla comunità filosofica, allo smarrimento del filosofo di fronte alla mancanza di qualsiasi seria collaborazione, di un autentico co-filosofare, getta nuova luce

362 “L’Eidos dell’io trascendentale è impensabile senza l’io trascendentale in quanto fattuale” (HU XV,

p.385, tr.it. mia).

363 Crisi, p. 51.

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sul problema dell’intersoggettività trascendentale e dell’armonia intermonadica, illuminando alcuni aspetti che, fino a questo momento, non erano pienamente emersi.

L’intersoggettività non è solo uno dei temi principali dell’indagine fenomenologica, sorto nel tentativo di rendere conto del senso dell’alterità all’interno dell’esperienza fenomenologico-riduttiva, bensì riguarda direttamente il senso e il ruolo che la filosofia può e deve ancora rivendicare all’interno di un’epoca caratterizzata dalla morte di ogni vitalità filosofica, dallo smarrimento del senso e di ogni fine comune. L’intersoggettività trascendentale non è una semplice risposta all’obiezione teoretica di solipsismo, bensì si inserisce in un contesto argomentativo più ampio, derivando dall’intenzione profonda che muove la fenomenologia fin dall’inizio: il tentativo di riscoprire in modo indubitabile il senso dell’uomo e l’autentico compito della filosofia di fronte all’avanzata irrefrenabile del relativismo e dello scetticismo da un lato, e del positivismo dall’altro.

Da questo punto di vista l’esperienza fenomenologica non rischia mai di cedere al solipsismo, non può concretamente dubitare della vita intersoggettiva dal quale ogni filosofare necessariamente muove: piuttosto è la fenomenologia in quanto esperienza che pretende di essere trascendentale che rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio, e, nel tentativo di sconfiggere il relativismo, trasformarsi nella sua più elevata espressione. Se nel fondare in evidenza apodittica ogni senso ingenuamente assunto, essa si trovasse isolata in una esperienza solipsistica, in una immanenza monadica incapace di trascendersi, in una apoditticità privata dalla quale è escluso ogni alter-ego, ogni soggettività estranea, la riduzione non avrebbe mostrato altro che l’impossibilità di qualsiasi teleologia storica, di qualsiasi idea universale di ragione, di qualsiasi senso razionale dell’uomo.

Il solipsismo non evidenzierebbe dunque un impasse teoretico tra gli altri, bensì il fallimento totale del tentativo fenomenologico nel suo complesso, che, proprio perché mosso dalla radicalità e guidato dall’evidenza, finirebbe col fondare definitivamente l’insuperabilità di ogni relativismo. Husserl non vuole solo mostrare che l’alter-ego è uno strato di senso fondato e motivato all’interno dell’autocostituzione monadica, bensì anche e più profondamente mostrare che l’umanità intera come comunità intermonadica, nel suo sviluppo storico, è guidata tacitamente da una tensione verso un telos razionale: vuole mostrare che l’uomo nel suo essere in comunità ha un senso, che in esso si esprime una ragione universale, che ogni relatività fattuale non è che un momento dell’umano divenire razionale:

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Portare la ragione latente all’autocomprensione, alla comprensione delle proprie possibilità e perciò rendere evidente la possibilità, la vera possibilità di una metafisica – è questo l’unico modo per portare la metafisica, cioè la filosofia universale, sulla via laboriosa della propria realizzazione. Solo così sarà possibile decidere se quel telos che è innato nell’umanità europea dalla nascita della filosofia greca, e che consiste nella volontà di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così – nel movimento infinito dalla ragione latente alla ragione rivelata […] sia una mera follia storico-fattuale, un conseguimento casuale in un’umanità casuale in mezzo ad altre umanità e ad altre storicità completamente diverse, oppure se piuttosto nell’umanità greca non si sia rivelata un’entelechia che è propria dell’umanità come tale365.

Solo mostrando in piena evidenza, dunque, una tensione verso la razionalità che trascende ogni esistenza empirica, la fenomenologia potrà svelare all’uomo il suo autentico senso, e rifondare la filosofia come attività che guida l’umanità verso il suo autentico compito. Ma se, nel riscoprire l’originario come ragione universale la fenomenologia non si mostrasse in grado di fondare, in piena apoditticità, l’esperienza dell’estraneo, sulla quale si fonda non solo l’appercezione di un mondo obiettivo, bensì anche e soprattutto la possibilità di una socializzazione, di un fungere razionale comune, di una radice intersoggettiva della soggettività trascendentale scoperta riduttivamente, di fatto il senso che essa pretenderebbe di aver riscoperto all’origine della costituzione risulterebbe completamente separato e isolato dalla storia concreta dell’umanità. Se l’altro soggetto non trovasse concreto fondamento all’interno del fungere originario della soggettività trascendentale scoperta riduttivamente nessuna teleologia potrebbe svilupparsi da essa, ed ogni co-filosofare teleologico sarebbe di fatto un illusione.

Perciò l’alter-ego non può essere ridotto a semplice costituito, ma deve rivelare il proprio valore costituente: perché altrimenti ogni autentica comunità filosofica sarebbe destinata a rivelarsi impossibile, ed ogni filosofare sarebbe ridotto ad esercizio solipsistico e relativo. Il fungere universale deve rivelarsi per ogni monade al proprio interno, e allo stesso tempo trascendersi verso l’altro, rivelare, nell’alter-ego, un analogo fungere. Solo così, pur essendo la separazione delle monadi insanabile, e pur non potendo la singola monade esperire direttamente i vissuti di un’altra monade, ogni monade è capace di intenzionare nell’altro un fungere analogo al proprio, e dirigendosi verso di esso, può co- costituire insieme a lui un mondo oggettivo, un mondo che tende verso l’oggettività, il cui

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correlato soggettivo è la tensione verso la perfetta armonia intermonadica, verso una costituzione intermonadica perfettamente razionale ed armonica.

È questo il risultato che la Quinta meditazione sembra raggiungere. Essa dunque non conquista solo la possibilità di rendere conto dell’alter-ego e dell’intersoggettività dal punto di vita fenomenologico-riduttivo, bensì anche e soprattutto la possibilità di rendere conto della storia come luogo di affermazione di una socializzazione, di un fungere comunitario, di una costituzione intersoggettiva che non avrebbero senso se l’altro non si rivelasse come altro-ego-trascendentale all’interno dell’immanenza monadica apodittica. Nel passaggio dal mondo primordinale al mondo oggettivo la monade conquista la possibilità di leggere la storia come contesto di affermazione dell’originaria tensione teleologica che ha scoperto apoditticamente dentro di sé tramite il regresso genetico: la possibilità di rintracciare nella storia empirica il segno indelebile della tensione universale dell’uomo verso il proprio senso, verso la propria originaria razionalità.

Ma a ben vedere tutti i problemi che abbiamo evidenziato sopra a proposito della fenomenologia genetica si ripropongono in questo contesto con maggior evidenza. Se la genesi viene separata dalla storia e ridotta a struttura originaria, la distanza che separa l’ego dall’ alter-ego, rivelatosi nella genesi trascendentale come strato di senso superiore, si riduce, come mostrato, ad una determinazione della distanza che separa la soggettività trascendentale da se stessa. Se l’originaria fatticità del singolo, l’individualità pre- egologica, viene ridotta ad un’originaria forma universale e separata da essa, ogni alterità concreta viene, a ben vedere, definitivamente persa.

La fenomenologia riduce l’uomo ad ego trascendentale, e in virtù di questa riduzione ritrova anche l’altro come alter-ego-costituente. Nella misura in cui ho ridotto me stesso ad ego trascendentale io posso intenzionare l’alter-ego come ego analogo a me. In questo senso io ritrovo entrambi, me stesso e l’altro, come semplici espressioni di un'unica soggettività fungente. L’altro io lo intenziono solo come ego fungente e mai come persona. Lo ritrovo non come altro uomo: l’appercezione analogica non è tra me come uomo singolo e l’altro come altro-uomo, ma tra me come ego trascendentale e l’altro, come alter-ego trascendentale366. Proprio perché l’ego trascendentale è la forma della

366 Con l’espressione “alter-ego-trascendentale” non intendiamo indicare un alter-ego che abbia, al pari

dell’ego fenomenologizzante, già attuato la riduzione. L’altro viene colto come alter-ego-trascendentale nel senso che viene esclusa preventivamente dalla considerazione la sua vita concreta personale (al pari della mia), la sua individualità fattuale, per essere riconquistata solo successivamente come semplice prodotto della costituzione, come strato di senso di livello superiore rispetto alla Paarung originaria. Nell’indicare questo come limite dell’argomentazione husserliana vogliamo sostenere, da un lato, che la Paarung abbia bisogno, per attuarsi, di una distanza tra le monadi che presuppone un’individualità pre-genetica, una fatticità

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riappropriazione di sé in piena evidenza della soggettività trascendentale, attuata immediatamente nel vissuto apodittico “Ego cogito”, io posso cogliermi come ego trascendentale solo riducendo me stesso. E, poiché la riduzione e l’epochè sono ancora attive quando, a partire dal dominio primordinale, si analizza il sorgere dell’appercezione dell’alterità, nell’altro io non posso che ritrovare un’espressione dell’universale soggettività fungente che io stesso sono mentre, in una riflessione trascendentale, faccio rivivere in me l’esperienza originaria dell’estraneo. Se l’altro rimane altro e non diviene medesimo è in questo senso solo perché la distanza spaziale e temporale tra me e lui è insuperabile, e perché, costituendolo come altro, intenziono una vita soggettiva analoga alla mia senza mai poter giungere ad un pieno riempimento. Allo stesso tempo, però, poiché il fungere che si esprime nell’altro si manifesta come analogo al mio, nei suoi comportamenti potrò ritrovare, riduttivamente, la sorgente universale di ogni senso: potrò cogliere appercettivamente nell’altro la stessa tensione teleologica che ho ritrovato in me.

L’ego trascendentale come Ur-ich si esprime in me come si esprime nell’altro, e io colgo l’altro come alter-ego proprio perché i suoi comportamenti si mostrano motivati, al pari dei miei, da un fungere universale e attraversati da una tensione teleologica. L’universalità dell’io originario agisce dunque in due modi nell’appercezione dell’alterità: da un lato rende possibile descrivere la costituzione monadica dell’alter-ego come uno strato di senso necessario ed universale, poiché la genesi che esso fa rivivere è trascendentale e la fatticità è esclusa dalla considerazione; dall’altro lato permette di ritrovare nell’altro così costituito un analogo fungere costituente, attraverso un’appercezione analogica che intenziona in esso la stessa vita fungente che trovo in me, la stessa originaria soggettività trascendentale. In questo senso, come abbiamo visto, Husserl sostiene che l’ego in questione nell’espressione “alter-ego” sono io stesso: sono io stesso in quanto ego trascendentale.

Per Husserl, in virtù della genesi come progressiva stratificazione di senso distinta dalla storia empirica, sia io che l’altro, in quanto individui connessi al proprio Leib, non siamo altro che momenti di un’unica soggettività costituente, auto-individuazioni di un unico fungere universale. In questo modo ogni individualità non è che il prodotto

che non succede alla costituzione ed auto-costituzione intersoggettiva, ma le rende possibili. Dall’altro lato vogliamo con ciò evidenziare che c’è una differenza tra la costituzione genetica dell’alter-ego come co- costituente, e il suo agire effettivo da co-costituente nella relazione intermonadica. Se l’appercezione analogica messa in luce nella Quinta meditazione rende possibile la comprensione del primo punto, essa non riesce a rendere conto dell’effettiva azione co-costituente dell’alter-ego: un’azione che non è riducibile ad un fungere universale dislocato in molteplici flussi coscienziali, ma che ha bisogno, per essere spiegata, della vita concreta e fattuale di ogni singola monade, una vita irriducibile alla forma essenziale della genesi alla quale Husserl riduce la passività (cfr. anche infra, cap.4, par.2, §2).

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dell’autoappercezione della soggettività trascendentale come ego umano e dell’appercezione dell’altro come ego analogo a me, e, successivamente, come individuo e come uomo. Ogni concreta individualità empirica non è che una variazione dell’originaria invariabilità trascendentale. Ogni separazione tra ego ed alter-ego, ma anche ogni distanza dell’ego dalla monade, non sono altro che il frutto di una temporalità trascendente, di una costituzione che, in quanto temporale, rende concretamente impossibile il ritorno della soggettività alla perfetta identità con sé. Husserl sembra quindi essere riuscito a riscoprire in piena apoditticità una ragione universale come tensione originaria verso il senso, e ancor di più a mostrare che essa si esprime in ogni individualità, in ogni singola monade, rendendo possibile un riavvicinamento, una comunicazione, una socializzazione che risultano infinite solo perché si inseriscono in una temporalità che le trascende. La soggettività trascendentale si dispiega nella storia come intersoggettività trascendentale, e non può che rivelarsi in essa come movimento teleologico infinito, tensione dell’essere verso il proprio senso originario.

§1 La crisi come paradosso inspiegabile in ottica fenomenologico-riduttiva

Ma a ben vedere, se viene mantenuta la distinzione tra trascendentale ed empirico, tra genesi trascendentale e storia, ogni passaggio dalla soggettività originaria all’individuo, dal fungere trascendentale alla storia empirica, sembra rivelarsi completamente impossibile. Se l’originario è una soggettività trascendentale che precede e fonda ogni individualità, essa non può che produrre un’analoga armonia empirica, una perfetta comunità intermonadica fondata sull’universalità del fungere razionale. È la crisi stessa, quindi, sia come situazione storico-fattuale, sia come necessità trascendentale implicita nella costituzione, a divenire completamente inspiegabile in quest’ottica. Cosa può produrre il passaggio dalla soggettività trascendentale all’individuo empirico? Cosa rende la storia personale una storia empirica, fattuale, contingente, producendo una separazione insanabile tra ragione ed essere, tra eidos e fatto, tra ego trascendentale ed empirico?

Husserl sembra appellarsi alla temporalità originaria della soggettività. Ma è la temporalità stessa che non sembra avere più motivo di svilupparsi a partire da una originaria razionalità costituente. Da un lato, infatti, in una identità pre-tematica e passiva con se stessa, la coscienza non troverebbe alcun motivo per distaccarsi da sé, per produrre una frattura insanabile tra presente, passato e futuro: essa sarebbe temporale senza mai temporalizzarsi, senza distaccarsi da sé, senza poter mai generare una reale differenza tra

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ego trascendentale ed ego empirico. In questo caso, se il fungere costituente fosse razionale, anche il costituito lo sarebbe necessariamente. Dall’altro lato è la passività pre- tematica nel suo divenire a rivelarsi immotivata: perché mai la ragione si rivela come tensione verso il razionale, come divenire, come fluire, se la soggettività, avendo potenzialmente tutto in sé e non producendo mai alcuna distanza da sé, potrebbe sempre realizzare, in ogni attualità, la propria originaria razionalità? Perché mai la ragione si dispiega in una storia teleologica infinita e non si attua come identità atemporale e perfetta tra reale e razionale?

Pur supponendo una separazione corporea e spazio-temporale tra le monadi, se in ogni individuo si esprime necessariamente lo stesso fungere teleologico, non risulta comprensibile il motivo per cui ogni monade non realizzi perfettamente in sé la ragione originaria e, riferendosi ad ogni altra monade come espressione della stessa sua razionalità, un’armonia perfettamente razionale, un autentico regno dei fini367. Perché la tensione verso la datità assoluta si rivela inesauribile, se ogni coscienza, in quanto soggettività trascendentale, contiene in sé già il senso eidetico di ogni cosa? Come sorge la necessità, per la coscienza, di dispiegarsi come tempo, se in una genesi (paradossalmente) atemporale essa comprende già in sé il mondo come suo costituito invariante? A questo punto dell’argomentazione, se accettiamo l’originarietà pura del trascendentale e la concreta separazione dall’empirico, è l’empirico stesso a risultare immotivato.

Il tempo diventa, in questa direzione, o il frutto di una inspiegabile auto- temporalizzazione di una soggettività pre-temporale, oppure un fatto che precede e fonda la genesi stessa: poiché o esso è interamente riducibile al suo eidos, a forma immanente di una soggettività assoluta, e allora ogni tensione ed ogni genesi si riducono a struttura originaria invariante di una soggettività già pienamente razionale, rendendo impossibile ogni divenire storico-empirico; oppure esso precede il trascendentale, poiché non trova in esso fondazione, e allora è il divenire storico empirico, la storia stessa, a fondare il trascendentale, rivelandolo inesorabilmente come prodotto contingente e relativo, mostrando che ogni idea di filosofia e di ragione non sono che prodotti casuali del divenire

367 Se Kant risponde a questa domanda appellandosi ad una duplice natura umana, notando che la legge

morale è nell’uomo non come essere, ma come dover essere, poiché l’uomo è originariamente imperfetto, la risposta fenomenologica non sembra poter essere la stessa, poiché è esattamente di questa imperfezione, di questa frattura tra essere e dover-esser, tra reale e razionale, che stiamo chiedendo conto dopo aver scoperto l’originaria razionalità del fungere universale.

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storico-contingente. Questi sono i problemi che Derrida pone alla svolta teleologica della fenomenologia368:

Il paradosso è che a voler discernere assolutamente il senso empirico e il senso trascendentale dell’idea, si trasforma la finalità teleologica, che si vuole assolutamente pura, in una finalità empirica. […] Se questa genesi è tutta spirituale, non si vede perché sia genesi: l’infinità e l’eternità dell’idea dovrebbero benissimo fare a meno di un divenire umano. Quest’ultimo resta allora, in quanto tale, esclusivamente empirico ed esteriore alla vita della teleologia369.

Questo paradosso si produce proprio a partire dalla separazione riduttiva tra trascendentale ed empirico. Se la razionalità, la soggettività trascendentale, è l’originario assoluto, essa non può in alcun modo produrre l’empirico, il relativo, la crisi, come suo momento. Se invece essa non è l’originario allora non può mai essere, poiché il trascendentale, ogni idea di ragione ed ogni telos razionale, si genererebbe dall’empirico, nella storia, ed il suo darsi come idea sarebbe riconducibile al sorgere storico-empirico di una auto-interpretazione umana, ad una sovrastruttura culturale tra le altre.

Eppure è Husserl stesso che, nell’intendere la storia come movimento teleologico, sembra parallelamente descrivere la nascita dell’idea occidentale di razionalità e di filosofia come una nascita storico-empirica, temporalmente e geograficamente determinata. L’idea di filosofia è, come indica il termine “occidentale” che le si affianca, un’idea storica, il prodotto empirico di una cultura, sorto originariamente nell’antica Grecia370. Per sua stessa essenza tale idea è attraversata dalla pretesa di potersi elevare a cultura universale, di poter guidare l’umanità verso il suo autentico senso, verso ciò che essa, da sempre, deve essere. Il sorgere stesso dell’idea occidentale di filosofia deve essere, perciò, al tempo stesso, frutto di una tensione universale verso il senso e prodotto di un divenire storico e contingente. Di fronte a questa impasse l’unica soluzione sembra essere la descrizione dell’antecedenza del trascendentale rispetto all’empirico non in termini temporali, bensì come rapporto di fondazione. Ma in questa direzione, come abbiamo mostrato, la genesi, privata della fatticità, si riduce inesorabilmente ad un apriori formale, perde il suo carattere dinamico e assume i connotati di una originaria struttura statica. Husserl sembra oscillare costantemente tra queste due possibilità, senza porsi