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Riflessione finale

Nel documento Al di là di ogni ragionevole dubbio (pagine 144-148)

10.Il giudice e la decisione

51. Riflessione finale

Il dibattito sul rapporto tra verità e giustificazione offre sicuramente una risposta alla domanda, per cui ci si occupa della verità delle decisioni penali, oltre che della loro giustificazione razionale. Bisogna pensare alla verità in senso corrispondentista e realista, pur con tutte le difficoltà che si incontrano, poiché la verità è uno degli ingredienti della stessa giustificazione razionale. Sta proprio qui l’indebolirsi di teorie epistemiche e deflazionistiche della verità: come si può dire vero in quanto giustificato, se ciò che è giustificato lo è in quanto si ha ragione di ritenere che sia vero? E come si può dire “non ci interessa la verità, solo la giustificazione”, se c’è motivo di ritenere che “qualsiasi concetto di giustificazione sia direttamente o indirettamente tributario del concetto di verità”197?

Anche le decisioni del giudice penale vanno inquadrate in questo schema esplicativo. Di provato, “oltre ogni ragionevole dubbio”, che

196F. Caprioli, loc. op. cit. Riv. It. Dir.Proc. Pen. edit. Giuffre’ Torino , 2013, pag .624. 197

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Tizio abbia ucciso Caio, significa che si hanno buone ragioni per dire che Tizio abbia ucciso Caio.

Si comprende la mancanza di certezza che il giudice, quando condanna, stia dicendo il vero, perché il ragionamento probatorio si nutre di inferenze che restano inevitabilmente probabilistiche. Ma questo non significa che la verità del processo penale sia una verità formale, convenzionale, relativa, né che sia impossibile da raggiungere. Non bisogna confondersi col tema della verità e quindi bisogna anche distinguere la verità dalla certezza. La verità infatti è alla portata di tutti: ogni persona può non rendersi conto di trovarla in ogni momento, ma la difficoltà rimane nella certezza di ciò che si trova. Né bisogna confondere certezza e conoscenza, cioè rassegnarsi allo scetticismo. Proprio qui viene in aiuto l’“oltre ogni ragionevole dubbio” che scolpisce perfettamente la differenza: un conto è il dubbio ragionevole, un conto il dubbio solamente scettico, cioè quello che a differenza del primo non ha motivazioni specifiche.

Il dubbio scettico cancella ogni certezza, ma solo il dubbio ragionevole impedisce al giudice penale di coltivare credenze razionalmente giustificate e di attingere alla conoscenza dei fatti.

Nel momento in cui non si presentano dubbi ragionevoli, circa la colpevolezza dell’imputato, il giudice avrà sicuramente davanti la verità 198.

Non c’è alcun valido motivo per considerare la verità del processo penale una verità minore. Sicuramente i divieti probatori e le strettoie rituali rendono la ricerca giudiziale della verità senz’altro meno facile della ricerca storica o di quella scientifica; ma quando il giudice condanna un imputato, non è di sicuro una verità minore, rispetto a

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quella di un giornalista o di uno scienziato. Non si può sostenere a

contrario la natura probabilistica dei giudizi di fatto che sostengono

l’affermazione di colpevolezza.

Quando i dubbi che permangono sono unicamente di natura scettica, sarebbe irrazionale ritenere non accertato il fatto. E per quanto detto, nei rapporti tra verità e giustificazione, ritenere accertato un fatto, vuol dire ritenere vero quell’enunciato che lo descrive. Le sentenze di condanna vengono quindi emanate in assenza di ragionevoli dubbi. Tanto basta per ritenere le sentenze veritiere, senza ulteriori specificazioni.

Agli occhi della maggioranza della popolazione, posta una nozione di verità consapevole del relativismo e della difficoltà evocatoria di tale concetto, la visione, fondata su presupposti più ingenui, ma intrisa di un forte desiderio di eticità immanente, basata su un’immagine di verità oggettiva, diretta a considerare la giustizia come uno strumento atto a far emergere una specifica verità, intesa come conformità ai fatti, secondo il canone veritas, non auctoritas, facit iudicium; tale verità, considerata come parametro ed ideale regolativo a cui si dovrebbe tendere, ordinerebbe di definire “ingiusta” una sentenza che, seppur basata sui dati probatori legittimamente acquisiti e rispettosa dei canoni normativi, ricostruisse i fatti di causa in maniera difforme da quanto verificatosi in realtà 199.

È questa l’accezione di verità che si riscontra nel linguaggio delle aule dei tribunali e che viene utilizzato nelle perorazioni dei difensori e nelle requisitorie dei pubblici ministeri, in quanto fa parte del senso comune dire che un testimone abbia riferito il vero oppure il falso, che è vera o è falsa la ricostruzione di una vicenda offerta da una

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requisitoria o da un’arringa difensiva, e che una condanna o un’assoluzione sono fondate o no, se sono vere o false le rispettive ricostruzioni dei fatti in esse contenute e la loro qualificazione giuridica.

Partendo da questo presupposto, il cittadino può nutrire fiducia nella funzione svolta dagli organi che amministrano la giustizia e quindi verso lo Stato, nel suo complesso; così viene valorizzata quell’aspirazione a conclusioni giudiziali rispettose dei dati concreti, al fine di raggiungere quella che si potrebbe definire “realtà fattuale”. Se si eliminasse la parola verità dal dizionario giuridico, per la difficoltà di definirla, si assisterebbe nelle aule giudiziarie alla celebrazione di una giustizia che non soddisferebbe l’aspettativa sociale, e quindi verrebbe vista con sospetto ed incomprensione da parte dell’ opinione pubblica che ha un grande desiderio: raggiungere “La Verità”.

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