• Non ci sono risultati.

Il percorso teorico fino ad ora delineato ci impone al momento una riflessione sul concetto di “servizio” e sulla relazione dello stesso con metodi, metodologie e strumenti di lavoro, che sottendono il passaggio da una “teoria per la pratica” ad una “teoria della pratica”, secondo il metodo storico di costruzione della conoscenza nel social work.

Riprendendo quanto teorizzato da Dal Pra Ponticelli (1985) con il termine “teoria della pratica” si intende un sapere di tipo operativo e metodologico fondato principalmente su processi osservativo-induttivi; si tratta di tutti quegli assunti ricavati direttamente dalla descrizione e interpretazione della realtà operativa. Quando invece si parla di “teoria per la pratica”, ci si colloca al livello normativo del sapere, su di un piano teorico, cioè si costruiscono modelli di analisi e di intervento utili all’esercizio della professione attraverso un confronto con le teorie idiografiche delle scienze sociali.

Consapevoli che solo attraverso una piena comprensione degli assunti alla base del nostro oggetto di studio, ed una accurata riflessione circa la loro natura, sarà possibile giungere all’intento valutativo che ci si propone di perseguire, occorre dunque chiarire alcune connessioni tra il principio di relazionalità e il mondo dei servizi.

Storicamente, i modelli teorici di servizio sociale hanno percorso due strade: una di tipo scientifico finalizzata alla sistematizzazione della pratica, mediante gli strumenti forniti dalle altre scienze umane; l’altra di tipo pragmatico, volta ad accumulare esperienza e riflettere sui risultati. Allo stesso modo i paradigmi di riferimento e gli assunti fondamentali delle diverse teorie si muovono anch’essi secondo uno schema dicotomico che vede da una parte una grande enfasi sull’utilizzo del paradigma medico (strutturato secondo lo schema studio-diagnosi-trattamento) e dall’altra la diffusione di saperi che si rifanno alla teoria dei sistemi come quadro esplicativo dei fenomeni e tendono verso interventi in prospettiva unitaria e globale.

Nella sua prima fase il servizio sociale opera prevalentemente nella logica della “cura”, e quindi la presa in carico viene concepita come tentativo di soluzione a situazioni problematiche, secondo un’ottica di tipo terapeutico, fondata sulla convinzione che gran parte delle situazioni di disagio, di devianza, ha origine in una condizione personale di incapacità, o impossibilità, a governare i cambiamenti e i problemi che si verificano nel corso della vita.

Se da un lato si sarebbe portati ad asserire che i metodi di stampo medico-lineare siano obsoleti, riduzionistici e ormai superati, rifacendoci alle più moderne teorie e al grado di crescente complessità che gli operatori sociali sono oggigiorno chiamati a fronteggiare, dall’altro occorre riflettere sul fatto che il servizio sociale, tutt’ora, pur distanziandosi da un modello di tipo medico, non può fare a meno di integrarlo nella propria progettualità.

Nel corso dello sviluppo del Social Work si diffuse il modello di lavoro psico-sociale, basato su di una visione della personalità in interazione con l'ambiente (secondo un principio di dinamismo interno) che spinge l’individuo a realizzarsi attraverso il rapporto con gli altri.

Secondo tale approccio lo sviluppo della personalità avviene all’interno di un contesto di relazioni, pertanto nelle pratiche professionali l'azione dell’operatore sulle persone significative dell'ambiente dell'utente/cliente, si configura come una pratica volta ad offrire delle risorse e un aiuto concreto. Un esempio che ben chiarisce tale ottica è l’utilizzo della relazione sociale per rispondere alle richieste d’indagine psico-sociale da parte dell’autorità giudiziaria. Il servizio sociale incaricato ha diverse possibilità: potrebbe optare per una valutazione disgiunta o congiunta con la componente sanitaria (psicologo, psichiatra, medico curante…) e approfondire gli elementi più disparati, privilegiando aspetti individuali, ambientali, familiari, relazionali… allo stesso modo l’esito del percorso attivato potrebbe variare da una conclusione a seguito dell’indagine, proseguire all’interno di un progetto di intervento, sino ad arrivare all’applicazione di misure urgenti di tutela. Appare evidente dunque come la relazione sociale possa configurarsi come l’esito di un processo valutativo di tipo strumentale, fine a sé stesso, o andare oltre, cercando di non posizionarsi ad un livello di intervento individualista, ma cercando di integrare i vari attori coinvolti.

Proseguendo nelle fasi di sviluppo dei modelli di servizio sociale giungiamo alle teorizzazioni di Helen Perlman. Secondo l’ottica del problem solving l'obiettivo degli interventi sociali è di arrivare ad una modificazione del comportamento degli utenti, siamo ancora, dunque, in una cornice medica, tuttavia emerge il tentativo di superare lo schema diagnostico, affermando una centralità della relazione di aiuto. Riprendendo allora l’esempio concreto della relazione di indagine psico-sociale, pur continuando ad essere un intervento che nasce in una cornice giuridica definita dal mandato istituzionale, che attiva un intervento specifico legato alla valutazione, e che solo potenzialmente richiede l’integrazione multiprofessionale tra operatori, mette in gioco un processo di aiuto che è fatto di relazioni. Tali relazioni sono quelle che si instaurano tra gli operatori, tra gli stessi e il minore, nonché con la sua famiglia e con tutte le componenti coinvolte; in questo processo i ruoli e le funzioni non sono sostituibili e non sono comparabili tuttavia è necessario superare questo livello di riflessione per chiedersi cosa i professionisti possono offrire l’uno all’altro e alla famiglia coinvolta nell’osservazione di quanto accaduto. Si tratta insomma, di mettersi in gioco con l’obiettivo di potenziare in uno specifico contesto relazionale, quegli elementi che a loro volta possono favorire scambi e relazioni, anche negli altri contesti esistenti, superando la tendenza problematizzante per favorire l’emergere delle capacità e delle potenzialità.

Un passo in tale direzione è stato fatto con le teorie di Reid ed Epstein che dedicarono particolare ci attenzione alle relazioni sistemiche pur non concependo ancora l’intervento sociale al di là di un modello educativo, finalizzato ad insegnare all’utente adeguate modalità di soluzione dei problemi.

All’interno del servizio sociale, il vero cambiamento si osservò pertanto con il tentativo di abbandonare il modello medico, realizzato a pieno con le teorie fondate sul principio secondo cui utente e servizio sono due sistemi sociali in relazione.

A differenza dei modelli psicodinamici, l'epistemologia che sta alla base della teoria sistemica si fonda sul concetto d’informazione: il suo metodo di ricerca è costituito dall'analisi delle relazioni tra variabili, e operativamente questo si traduce in una relazione che considera la complessità e globalità della condizione della persona (Campanini 2004).

Un esempio utile ad una maggiore comprensione è l’analisi di uno degli strumenti principali del Social Work, ovvero il colloquio di aiuto, attraverso la quale pare possibile ipotizzare rischi e potenzialità relazionali di questo approccio.

Il colloquio di aiuto è definito Zini e Miodini (1997) quale «strumento per costruire un ponte metaforico con l’altro [...] uno spazio mentale e fisico, dove temporaneamente convivono due soggetti in interazione complementare (up-down), di cui uno è l’assistente sociale con la responsabilità della conduzione e del controllo della relazione di aiuto, e l’altro è l’utente» (Ibidem 25). Insieme, «operatore ed utente,

costruiscono un processo dinamico che ha insite le potenzialità di una comunicazione paritaria dal punto di vista delle persone, modalità che nell’evolversi dell’intervento favorisce nell’utente l’acquisizione di nuovi apprendimenti». Come sottolineato dalle due autrici, la scelta dell’approccio sistemico - relazionale «permette di acquisire consapevolezza che ogni intervento (dell’assistente sociale) deve essere strategico e intenzionale, effettuato anche con il singolo, ma inserito nei suoi sistemi di riferimento socio affettivi» (Ibidem 28)

La pragmatica di Watzlawick appare fondamentale per la conduzione del colloquio, che è definito professionalmente come strategico, presupponendo l’utilizzo consapevole di processi di influenzamento e di alcune tattiche della comunicazione verbale e non verbale, come le domande circolari, le affermazioni “specchio”, le prescrizioni (mediante il contratto) e le “ristrutturazioni”.

Pur non volendo mettere in discussione gli assunti teorici della pragmatica della comunicazione, né tantomeno la sua trasposizione nel Social Work, in quanto tale, è possibile sviluppare alcune considerazioni riflessive che tengano conto dei continui cambiamenti e rinnovamenti che caratterizzano il welfare attuale, con particolare riferimento alla partecipazione degli utenti al mondo dei servizi ed individuare alcune criticità, specialmente alla luce dei grandi cambiamenti e rinnovamenti avvenuti all’interno dei servizi in questi anni.

La prima criticità riguarda la possibilità di considerare le relazioni comunicative come qualcosa di controllabile, cadendo potenzialmente nell’errore di confondere l’utilizzo di tecniche comunicative appropriate con il controllo della relazione.

La seconda è invece relativa al ruolo attribuito alle famiglie nei percorsi di presa in carico, poiché sempre più spesso emergono le competenze degli utenti e dei loro familiari, ed appare dunque riduttivo, oltre che irrispettoso prevedere che esse siano solo potenzialmente messe sullo stesso piano di chi detiene competenze tecniche. Pertanto la “potenzialità” di un rapporto paritario è fortemente presente nella pratica quotidiana ed è certamente più significativa e concreta rispetto al passato, sostenuta da una normativa che ha ampliato la partecipazione e il protagonismo delle famiglie. Per queste ragioni, forse anche la formazione stessa alla professione richiederebbe un utilizzo dello strumento del colloquio che parta da assunti diversi.

In conclusione, il colloquio di aiuto, come strumento d’azione e (per quello che qui interessa maggiormente) come strumento comunicativo inserito in un modello sistemico, mantiene di fatto una distanza relazionale tra due sistemi, mantenendo in ombra e in secondo piano il potenziale effetto emergente della relazione e il potenziale aumento di simmetria comunicativa basato sulle competenze reciproche.

Tale affermazione consente di approfondire quanto affermato da Donati, secondo il quale l'approccio sistemico non ha risolto il problema dell'asimmetria delle relazioni, perché l'operatore rimane un sistema “esperto” di fronte ad un sistema patologico, pur nel riconoscimento delle relazioni in cui la persona è

inserita. Più possibilista appare Folgheraiter (1998, 425) il quale sostiene che «la relazione di aiuto si configura come un’effettiva connessione reciproca tra i poli interessati, cioè la relazione di aiuto promana da tutti i punti coinvolti e l’andamento nel corso del tempo si organizza e si produce, strada facendo, in funzione degli input relazionali e delle necessità contingenti.

È così allora che si configura la possibilità di creare servizi relazionali in l’obbiettivo non è l’erogazione di assistenza bensì la realizzazione di «prestazioni che necessitano di relazioni per realizzarsi (la relazione è la materia prima di cui sono costituite) e realizzandosi fanno emergere ulteriori relazioni sociali» (Folgheraiter 2005b, 131).

Di questo cercherò di argomentare nel corso della ricerca empirica, finalizzata a valutare un progetto di ricerca-azione sviluppato nel territorio della provincia di Bologna, verificando anche se gli strumenti di diagnosi sociale sperimentati favoriscano lo sviluppo di relazionalità alle pratiche di social work e possano consentire di definire i servizi così sviluppati come relazionali.