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Questo strumento professionale è presente nel lavoro sociale fin dalle sue origini, come testimonia l'impegno formativo specifico di Mary Richmond, sociologa statunitense, considerata una delle pioniere nella storia dell'assistenza sociale professionale, che già nel suo celebre libro del 1917, Social diagnosis, citava la visita domiciliare come elemento fondamentale del social work.

Può essere definita come «un incontro, una comunicazione, un colloquio di tipo particolare con l’utente che si realizzano nel suo ambiente quotidiano di vita, generalmente coincidente con il suo domicilio e, comunque, diverso dallo spazio istituzionale in cui l’assistente sociale svolge abitualmente la sua attività» (Bartolomei e Passera 2005, 212).

Tenuto conto della diversa cornice in cui la comunicazione tra utente e operatore avviene, durante la visita domiciliare, occorre sottolineare l’importanza dell’osservazione che l’assistente sociale può svolgere in tale contesto, che consente di reperire informazioni atte ad ampliare la comprensione del problema, funzionali ad eventuali approfondimenti diagnostici e comunque consente di delineare un quadro globale della situazione familiare ricco di particolari sulla situazione specifica.

La maggiore peculiarità di questo strumento professionale è derivata dal setting non istituzionale in cui si svolge l’incontro, che richiede capacità professionali specifiche e attenzione ai coinvolgimenti emotivi, dell’utente e dell’assistente sociale, che si differenziano in modo sostanziale da quelli che si attivano dei luoghi classicamente deputati all’aiuto.

Tra le principali caratteristiche della visita domiciliare possiamo rilevare:

 La richiesta di svolgere questo particolare colloquio parte, nella maggioranza dei casi, dall’operatore;

 Avviene dopo che si è già conosciuto l’utente per cui la si concorda con lo stesso, sia per rispetto della persona sia per motivi di riservatezza. Può essere, in determinati casi preannunciata con una lettera o con una telefonata, ma va sempre motivata di modo che la persona possa accettarla o meno e, inoltre, occorre chiarire in modo inequivocabile l'appuntamento (giorno e ora) della visita stessa;

 Viene generalmente effettuata per approfondire la conoscenza della situazione problematica, soprattutto per quanto concerne gli aspetti ambientali, ma anche per valutare le risorse personali di contesto utilizzabili, o attivabili, nel processo e, più direttamente, nel progetto di aiuto. Non è possibile stabilire a priori su cosa orientare l’osservazione e l’approfondimento in quanto dipende dal tipo di problema e dallo scopo per cui si decide di effettuare una visita domiciliare;

 L’uso di questo strumento non può essere un automatismo, ma occorre programmare con cura tempi, modalità e scopi dell’intervento. Recandosi al domicilio l’assistente sociale deve orientare

ed utilizzare entrambe le funzioni, di aiuto o di controllo, proprie della visita domiciliare, chiarendo se lo strumento sia utilizzato in prospettiva di crescita, sostegno e cambiamento o di verifica e valutazione dell'efficacia del progetto;

 Se consideriamo la vista domiciliare un particolare tipo di colloquio occorre inoltre considerare che forse, attraverso di essa, gli operatori potranno essere in grado di dedurre delle informazioni prima ancora che le persone sia state in grado di comunicarle in modo conscio e volontario. «Su tali premesse la visita domiciliare può strutturarsi come un processo, percorso per fasi, dalla accoglienza alla conclusione, un vero strumento di conoscenza di relazione utile alla costruzione di storie personali e familiari e alla realizzazione del percorso di aiuto» (Gristina 2013, 776).

Cesaroni e il suo gruppo di ricerca (2000) hanno condotto una analisi volta ad analizzare le principali finalità della visita domiciliare, così sintetizzate:

 Completare il quadro delle informazioni relative all’utente e al suo nucleo familiare;  Verificare la congruità e la veridicità delle informazioni precedentemente raccolte;  Condurre osservazioni dirette sull’ambiente socio-familiare in cui la persona vive;  Valutare la situazione economica dell’utente e del nucleo familiare;

 Stimolare le capacità dell’utente sopite a causa di malattie, di periodi di detenzione, privazioni varie;

 Aggiungere contenuti, forte significato al processo di aiuto, grazie alla “vicinanza” tra operatore e utente.

Se la ricchezza della visita domiciliare come strumento professionale è strettamente collegata alla sua capacità di cogliere la complessità, attraverso la lettura del luogo in cui essa si svolge, la casa, che «dall’ubicazione, all’organizzazione degli spazi, all’arredamento “racconta” i legami sociali e le relazioni tra coloro che l’abitano» (Gristina 2013, 777) assume rilevanza fondamentale l’osservazione: l’assistente sociale oltre a dover cogliere i diversi aspetti che caratterizzano il contesto di vita dell’utente deve prestare attenzione alle dinamiche relazionali che connotano il rapporto tra i vari familiari nonché quello con l’operatore nel corso della visita stessa. È quindi consigliabile documentare ciò che si è osservato, cercando di «trasformare in parole scritte le immagini» (Andrenacci 2009, 103). A tal proposito si sono diffuse, nelle vari realtà operative, schede di rilevazione, divise in sezioni, ciascuna delle quali focalizza l’attenzione su un particolare aspetto, in relazione alla finalità principale della visita domiciliare e dell’intervento di servizio sociale.

Considerato che attraverso la visita domiciliare l’operatore entra in contatto con “il mondo dell’altro” calandosi in una dimensione più intima di quella offerta dal setting istituzionale, è importante riflettere sull’ utilizzo di questo strumento professionale quando si lavora con persone per le quali la casa può avere

richiami diversi: si pensi a chi vive in strutture di accoglienza, in residenze istituzionali (strutture per anziani o malati in cui la degenza diventa domicilio), agli stranieri... Si tratta di contesti che richiedono un’attenzione particolare sotto il profilo metodologico e organizzativo, occorre considerare che spesso gli spazi, gli orari, il “ paesaggio” in generale possono essere fortemente condizionati dalla struttura, che talvolta riesce a influire sotto il profilo della relazione, regolamentando in modo rigido gli accessi dei familiari o organizzando le attività in base al grado di autosufficienza dei pazienti, così da influire in modo diretto sulle loro interazioni. Per quanto riguarda il lavoro con gli stranieri, invece, ciò che occorre è la capacità di accogliere le differenze culturali, comprenderle e se cercare di immaginare e sperimentare modalità nuove di entrare in comunicazione ed in relazione, forse di ripensare il concetto stesso di aiuto per «mettere in atto modalità operative che aiutino a incontrare veramente l’altro» (Gristina 2013, 777).