NELL’ANALISI DEL RISCHIO IN AMBITO DELLA SICUREZZA ALIMENTARE
6. RISCHI ASSOCIATI AL CONSUMO DI PRODOTTI ITTIC
6.1 RISCHI BIOLOGICI E “MICROBIOLOGICAL HAZARD”
La flora microbica dei prodotti della pesca
Nei prodotti ittici si distinguono, solitamente, due gruppi di microrganismi: la microflora indigena o autoctona e quella esogena o alloctona. La prima è quella normalmente presente nel pesce in natura che si concentra soprattutto nelle branchie, sulla superficie cutanea e nell’intestino dell’animale, mentre le masse muscolari sono essenzialmente sterili. La sua composizione risente fortemente dell’habitat naturale e delle abitudini di vita
del pesce: vi sono pesci di acqua dolce o salmastra, di acque fredde, temperate o calde. Alcuni pesci sono tipicamente pelagici e vivono in acque profonde, dove la carica batterica totale dell’acqua può essere anche inferiore a 1.000 UFC/ml, mentre altri vivono molto più sotto costa, dove sono presenti flore microbiche di origine terrestre; ancora altri pesci trascorrono buona parte della loro esistenza sul fondo di fiumi, laghi e mari, a diretto contatto con i sedimenti che solitamente contengono cariche microbiche molto elevate. (19,124)
Sicuramente il fattore maggiormente condizionante i cambiamenti della microflora indigena, sia in termini quantitativi che qualitativi, è la temperatura. Per quanto riguarda pesci e crostacei provenienti da acque fredde, la cui temperatura si aggira intorno ai 10-15° C, i livelli di carica microbica generalmente forniscono conte di 102-104 UFC/g sulla superficie della pelle e
delle branchie; animali provenienti da acque calde hanno livelli di 103-106
UFC/g. Nei molluschi i livelli di carica passano da meno di 103 UFC/g delle acque fredde non contaminate, a più di 106 UFC/g delle acque calde inquinate. (124)
A grandi linee, nei pesci provenienti da acque temperate o calde, la flora microbica autoctona è formata per lo più da specie batteriche mesofile Gram negative aerobie strette o aerobio-anaerobio facoltative (Pseudomonas, Moraxella/Acinetobacter, Flavobacterium/Cytophaga, Xanthomonas, Vibrio marini) e Gram positive (Bacillus, Corynebacterium, Micrococcus e altre coccacee, lattobacillacee). (39,42,67)
Nei pesci pescati in acque fredde, invece, sembra che la microflora predominante sia costituita da specie Gram negative psicrotrofe, presenti sulla superficie dei pesci (essenzialmente Pseudomonas, Alteromonas, Shewanella e Photobacterium phosphoreum) e da Gram positive, prevalenti nel contenuto intestinale (Clostridium spp, Bacillus spp, coryneformi e lattobacilli). (19,45) Da questa composizione può dipendere la maggiore o minore conservabilità del pescato venduto fresco, conservato soltanto sotto ghiaccio. Si è potuto, infatti,
dimostrare, che, nei pesci pescati nel Mare del Nord, i microrganismi mesofili (ossia, quelli in grado di moltiplicare da temperature superiori a 5°-7°C) formano appena il 5% della carica batterica totale del pesce, il resto è composto da batteri psicrotrofi (in grado di proliferare bene anche al disotto di 4°C e fino a 0°C). In prodotti analoghi, pescati in Mauritania e nelle zone africane dell’Atlantico o dell’Oceano Indiano, invece, le forme mesofile ammontano a più del 50% della microflora originaria del pesce. (80)
Da quanto detto, si capisce come un filetto di pesce pescato in acque calde (e quindi con una microflora tendenzialmente mesofila), messo sotto ghiaccio tenderà a conservarsi più a lungo di un pesce proveniente da acque temperate o fredde, nel quale la flora microbica è composta per lo più da specie batteriche psicrotrofe, che non risentono più di tanto dell’azione frenante del ghiaccio sulla loro proliferazione.
Di seguito sono riportati alcuni valori: nella prima tabella è presentato il profilo della flora microbica di alcuni pesci marini (valori espressi in % di isolamenti), nella successiva sono presentate alcune cariche microbiche rilevate in varie specie ittiche (valori espressi in migliaia di UFC/G).
Specie
ittica Micrococcus Achromobacter Flavobacterium Pseusomonas Bacillus Misti
Haddock 4 23 8 22 24 18 Halibut 16 34 30 20 Aringa 24 43 13 11 9 Merluzzo 14 48 25 5 8 Salmone 13 54 5 8 2 19 Pagro 53 21 7 6 13 Razza 3 19 9 65 4 Sogliola limanda 1 22 5 69 3 Gamberetto 2 3 83
Da Connell JJ (ed.) (1980) Advances in Fish Science and Technology. Farnham: Fishing New Books.
Specie ittica Carica microbica (103 di UFC/g) Merluzzo 47 Pollack 52 Merlano 77 Pesce gatto 69 - 198,000 Nasello 0,15 Scorfano 0,14
Sogliola Limanda, Passera 0,06 Pesci di acqua fredda 0,1 - 100 Sardina indiana 100 - 10,000
Pesci Piatti 10
Triglia 10
Gamberetti di acqua fredda 0,53 - 169 Gamberetti di acqua calda 1 - 10,000
Da Connell JJ (ed.) (1980) Advances in Fish Science and Technology. Farnham: Fishing New Books.
La microflora “esogena” del pesce è formata da quelle specie microbiche tipiche della sfera terrestre (contenuto gastroenterico di uomo e animali terrestri, humus del terreno, acque dolci superficiali), con le quali i pesci possono venire a contatto quando vivono in prossimità delle coste, dove risentono dell’immissione in acque salmastre di foci di fiumi e scarichi fognari di grandi agglomerati urbani. (80) Si tratta di una microflora formata da batteri, virus, lieviti e muffe di origine prettamente terrestre, in cui possiamo rinvenire: 1. microrganismi potenzialmente patogeni per l’uomo (Salmonella, Listeria monocytogenes, Vibrio patogeni, Clostridium botulinum, virus enterici, E. coli enteropatogeni, ceppi enterotossici di Staphylococcus aureus e Bacillus cereus);
2. microrganismi alteranti o indicatori di inquinamento fecale, quali enterobatteriacee in genere, coliformi totali e fecali, Pseudomonas spp., enterococchi.
In generale, si può pensare che le masse muscolari di un pesce marino appena catturato siano praticamente sterili, in profondità, specialmente se ci si trova di fronte a soggetti di taglia medio-grande (tonno, pesce spada). Infatti, l’invasione da parte di microrganismi delle strutture muscolari si verifica durante la conservazione del prodotto; nei pesci piatti, questa sembra derivare prevalentemente dalle superfici esterne, mentre, in quelli a sezione rotonda, deriverebbe in gran parte dal pacchetto intestinale.
Come abbiamo già detto precedentemente, nel pesce vivo e in quello appena catturato o raccolto, la flora microbica totale tende a concentrarsi in tre punti ben precisi: branchie, muco superficiale e contenuto intestinale, con variazioni numeriche che possono essere enormi da un soggetto all’altro, essendo condizionate da una serie di fattori legati sia all’habitat del pesce che al suo ciclo biologico. In modo del tutto indicativo, per un pesce appena catturato, si possono fornire le seguenti indicazioni, per quanto riguarda la carica microbica totale: si va da una concentrazione di 102 fino a 106 UFC/cm², nel muco superficiale, a una di 103 e 107 UFC/cm² a livello delle branchie. La componente batterica intestinale è estremamente variabile sia a causa delle abitudini alimentari del pesce, sia in base alla fase del ciclo biologico al momento della cattura. (80)
Quindi la flora microbica totale è costituita sia da quella accumulata in vita dal pesce, unitamente a quella acquisita, durante le manipolazioni, nelle fasi successive della catena commerciale.
Esistono inoltre una serie di fattori, sia intrinseci che estrinseci, che ne condizionano lo sviluppo, determinando spesso la comparsa di quelle modificazioni biochimiche che portano allo scadimento delle caratteristiche organolettiche del prodotto.
Tra i fattori intrinseci, dobbiamo considerare la percentuale di tessuto connettivo nelle masse muscolari, l’elavato valore di pH post mortem, elevata concentrazione di azoto solubile non proteico (NPN), la variazione del rapporto lipidi/proteine/acqua e la quantità di ossido di trmetilamina (TMAO), tra quelli estrinseci le condizioni di cattura. (42)
Principali specie microbiche patogene nei prodotti della pesca
I diversi sistemi di conservazione o condizionamento utilizzati nei prodotti ittici hanno tutti lo scopo di mantenere il più possibile inalterate nel tempo le loro caratteristiche organolettiche e nutrizionali. Occorre ricordarsi, tuttavia, che qualunque alimento deve, in primo luogo, presentarsi in condizioni igienico-sanitarie ineccepibili: in altri termini, il prodotto non deve in alcun modo provocare danni alla salute del consumatore.
Dal punto di vista microbiologico, un prodotto ittico può essere pericoloso per la salute umana non solo nel caso contenga cariche, anche molto limitate, di microrganismi patogeni assoluti, ma anche in seguito ad una proliferazione di flore microbiche, in grado di causare effetti negativi, a elevate concentrazioni (microrganismi patogeni condizionati).
Fanno parte dei microrganismi patogeni sia virus che batteri, anche se questi ultimi sono più frequentemente causa di malattie alimentari.
I batteri patogeni possono essere riscontrati in numerosi tipi di alimenti, tra cui i prodotti ittici. In base alle loro caratteristiche, sono in grado di causare delle vere e proprie infezioni (caratterizzate dall’attiva moltiplicazione del germe nell’organismo umano) oppure di dar vita ad intossicazioni (provocate dalle tossine prodotte nel substrato alimentare). C’è da dire che, in alcuni casi, lo stato di malattia deriva sia dalla presenza dell’organismo patogeno ingerito che dalle tossine da esso prodotte: in questo caso si parla di tossinfezione alimentare. (51)
Listeria monocytogenes
Listeria monocytoenes appartiene al genere Listeria, che comprende altre 5 differenti specie: L. innocua, L. seeligeri, L. welshimeri, L. ivanovii e L. grayi. Tutte sono largamente diffuse nell’ambiente, ma soltanto la L. monocytogenes risulta patogena per l’uomo. (2,33,72,102)
Si distinguono 13 diversi sierotipi appartenenti a L. monocytogenes, identificabili grazie a kit immunologici in commercio, ma solo tre di essi (4b, 1/2a e 1/2b), risulterebbero implicati nel 95% di casi di malattia nell’uomo. Il sierotipo maggiormente coinvolto in fenomeni epidemici nell’uomo è il 4b e la sua presenza nei cibi sarebbe rara. Non esistono studi in grado di spiegare questa evenienza. (81)
L’identificazione delle varie specie può essere effettuata grazie a test che si basano su molteplici parametri biochimici di differenziazione, come (ad esempio l’API Listeria test), oppure
valutando la capacità emolitica nei confronti di globuli rossi, (i più usati a tale riguardo sono quelli di pecora e cavallo, altri consigliano l’utilizzo del CAMP test), infine con le più moderne tecniche di biologia molecolare, come la PCR. (2) Quest’ultima tecnica è stata inoltre
sfruttata da alcuni studiosi per identificare più geni associati alla virulenza (PCR multiplex).
CAMP-Test per Listeria spp (2).
In una ricerca condotta in India, per l’identificazione di Listeria da prodotti ittici tropicali, oltre ad utilizzare test biochimici e PCR, è stato utilizzato anche l’ELISA kit, basato sulla capacità di interazione degli anticorpi nei confronti di un antigene da classificare. (2)
L. monocytogenes è stata isolata per la prima volta circa 90 anni fa. In un primo tempo si riteneva che il germe non fosse patogeno né per gli animali né per l'
uomo, poi nel 1926 si dimostrò che era agente di processi infettivi del coniglio e del criceto. Da quel momento la patogenicità di L. monocytogenes per gli animali è stata più volte evidenziata e, a partire dagli anni' 40, si cominciò a sospettare che potesse essere all' origine anche di specifiche forme di aborto ed encefalite nell'uomo. Questo sospetto è stato definitivamente confermato nel 1981, quando si è ufficialmente riconosciuto che L. monocytogenes è tra le più importanti cause di malattia alimentare dell' uomo nei paesi dell' Occidente industrializzato e che la sua presenza è associata soprattutto alle preparazioni alimentari pronte all’utilizzo. (37,102)
L. monocytogenes è, per definizione, un microrganismo ubiquitario, ossia è diffuso dappertutto nell' ambiente che ci circonda. Sono quindi svariate le fonti di inquinamento per gli alimenti. Lo si può isolare da terreno agricolo e acque superficiali; è altresì presente nei foraggi insilati usati per nutrire gli animali da reddito e, di conseguenza, si rinviene nel loro contenuto intestinale. Da lì passa con facilità alle loro deiezioni che, utilizzate per concimare i campi, favoriscono (insieme alle acque di scorrimento superficiale usate per l' irrigazione) l' inquinamento dei foraggi e dei vegetali destinati al consumo umano. Tramite il pulviscolo atmosferico, le materie prime, gli animali, le materie prime da essi ricavate (latte e carni) , l' uomo stesso con vestiti e scarpe, il batterio può penetrare con estrema facilità all' interno delle industrie alimentari. Qui può colonizzare vari settori della linea produttiva, passando dalle pareti di ambienti di lavoro e frigoriferi alle maniglie delle porte e di lì alle mani degli operatori, ai tavoli di lavoro, agli utensili, ecc. (37)
In generale siamo di fronte ad un batterio dotato di notevole resistenza nell’ambiente esterno, che si accontenta di poco per sopravvivere e che è in grado di persistere in svariati ambienti e per molti anni in presenza di basse temperature, in substrati inquinati naturalmente.
È interessante soffermarsi su alcune sue caratteristiche, perché proprio grazie ad esse che il germe riesce a sopravvivere e moltiplicarsi negli alimenti:
1) L. monocytogenes è un microrganismo tendenzialmente anaerobio: vive e moltiplica più attivamente in assenza o carenza di ossigeno (a es. , negli alimenti confezionati in pellicola plastica sotto vuoto) , ma può comunque mantenersi ben vivo e riprodursi anche in presenza di aria.
2) È un germe "psicrotrofo ": a differenza di molti altri batteri, che smettono di moltiplicarsi quando la temperatura ambiente scende sotto i 10°C o i 7°C, L. monocytogenes continua a duplicarsi (seppure con una certa lentezza) anche a temperature di piena refrigerazione (4°-2°C). I più aggiornati trattati di microbiologia degli alimenti citano come valori limite di crescita del batterio 1°C e, rispettivamente, 50°C. Ciò significa che il batterio è in grado di moltiplicare e aumentare di numero negli alimenti conservati a temperatura di normale refrigerazione, anche se la velocità di crescita è certamente inferiore a quella che si potrebbe avere a 25° o 30°C. Ciò condiziona direttamente la patogenicità del batterio, visto che di massima, più elevata è la carica microbica ingerita dall' uomo, maggiori sono le probabilità che egli contragga la listeriosi. (37)
3) Per quanto riguarda la resistenza alle alte temperature, L. monocytogenes non è un batterio sporigeno, e quindi non è, di regola, in grado di superare trattamenti di cottura prolungata, come capita invece alle spore di Bacillus e Clostridium. In altre parole, la cottura completa degli alimenti determina l’uccisione di tutte le listerie presenti, ma occorre che si raggiungano i 65°-70°C, in tutte le parti dell’alimento, per tempi non inferiori a 10 secondi. Da ciò deriva che, per ottenere una completa inattivazione del microrganismo, dobbiamo considerare anche la massa dell’alimento sottoposto a cottura. Si giustificano, così, quei casi di malattia alimentare prodotta da alimenti, che pur essendo trattati ad alte temperature, risultano “cotti in misura insufficiente”, ossia al loro interno non si sono raggiunte le temperature necessarie ad uccidere i batteri.
4) Un altro importante fattore che può limitare la moltiplicazione del batterio e addirittura portarlo a morte, è il grado di acidità del substrato, ossia il suo valore di pH. Ripetute prove di laboratorio, condotte in molte differenti condizioni operative, permettono di concludere che L. monocytogenes è in grado di sopravvivere e persino moltiplicare in un intervallo di pH che va da 4,0 a 9,5 (si tenga presente che le carni bovine fresche hanno un valore di pH intorno a 6,3-6,5).
Alcuni dati più recenti indicano che al di sotto di pH 5 non è sicura la completa devitalizzazione del batterio, per cui anche la riduzione del pH di un alimento per via naturale, (come nel caso dello yogurt), o per aggiunta di acidi organici (come aceto e succo di limone) risulterebbero inefficaci. (37)
Certo, le caratteristiche chimiche dell'acido utilizzato giocano un ruolo essenziale nel condizionare prima il blocco della moltiplicazione batterica e poi la progressiva morte dei microrganismi: l'acido acetico, l'acido lattico e l'acido benzoico si sciolgono bene nei grassi, per cui diffondono molto meglio dell' acido citrico all' interno delle cellule batteriche. Ciò giustifica la maggiore efficacia antimicrobica di questi tre acidi rispetto all' acido citrico (di cui sono ricchi tutti i vegetali a partire dal limone) e porta a concludere che, come acidificante, l'aceto è migliore che non il succo di limone. Un altro aspetto da non sottovalutare (e che, invece, non è ancora tenuto nella debita considerazione neanche dagli esperti) è la condizione in cui si trova la popolazione batterica aggredita, quando la si mette a contatto con l' acidulante. Al momento dell' acidificazione, il batterio può essere in fase di attiva moltiplicazione nell'alimento (e, quindi, è più sensibile alle aggressioni chimiche) oppure trovarsi in quella che è definita "fase di crescita stazionaria". In altri termini, il batterio può essere in una fase di "sospensione " della crescita, è impegnato a sopravvivere, ma non si accresce di numero: è ormai ampiamente dimostrato che qualsiasi microrganismo, in questa fase della sua
vita, è molto più resistente alle aggressioni chimiche di quanto non sia in fase di attiva moltiplicazione. (37)
Inoltre L. monocytogenes è in grado di sopravvivere per oltre 15 giorni nel succo di cavolo contenente il 5% di cloruro di sodio e per oltre 21 giorni nel succo di arancia, che in media ha un pH intorno a 3,6. Altri aspetti da considerare sono il "tempo di esposizione " del batterio alle condizioni di acidità e la temperatura ambiente in cui ciò avviene. Perché un acidulante riesca ad inattivare efficacemente una certa popolazione batterica, bisogna che abbia la possibilità di restare il più a lungo possibile a contatto coi microrganismi. Inoltre, più la temperatura ambiente è elevata, più il batterio è in grado di opporsi all' effetto letale della sostanza acida. In altri termini, a parità di valore di pH, un qualunque acido organico risulta più efficace su una coltura microbica mantenuta a 4°C che non a 25 ° o 30°C.
Listeriosi
L. monocytogenes, causa nell’uomo una malattia che prende il nome di listeriosi. Il primo caso di tale malattia è riferito ad un soldato con meningite, alla fine della seconda guerra mondiale. Da allora la listeriosi, è stata considerata una delle più importanti malattie alimentari del nostro secolo, a causa della gravità dei sintomi ad essa correlati. Infatti il tasso di mortalità nelle categorie di pazienti a rischio può arrivare intorno al 20-30%. È molto difficile riscontrare casi della presenza del batterio a carico dell’intestino di individui asintomatici. (72,101)
Nella maggioranza dei casi è responsabile di episodi infettivi, gran parte dei quali legati al consumo di alimenti inquinati dal batterio. In genera la malattia colpisce donne incinte, neonati, adulti con un sistema immunitario compromesso, ma non si esclude l’evenienza di fenomeni morbosi a carico di persone immunocompetenti. In genere in quest’ultimi i sintomi riguardano l’apparato gastroenterico e sono molto simili ai casi di dissenteria causati da altri batteri che possono trovarsi negli alimenti. (127)
Le forme più invasive tipiche nelle categorie maggiormente a rischio, possono manifestarsi con aborto, nascite premature, meningiti, meningo-encefaliti, gravi enteriti.
La categoria degli immunocompromessi, ad elevato rischio, comprende molti gruppi di persone: soggetti colpiti da malattie infettive gravi (es. malati di AIDS); pazienti sottoposti a terapie come chemio- e radioterapia in seguito a tumori o trattatati con farmaci anti-rigetto perché hanno subito un trapianto; neonati ed infanti, il cui sistema immunitario non si è ancora rafforzato; persone con oltre 70 anni di età e tutto coloro affetti da malattie croniche debilitanti come diabete, cirrosi epatica, insufficienza renale ecc.
Il periodo di incubazione della listeriosi varia a seconda della forma clinica, così si va da meno di 24 ore nel caso di enterite acuta, fino ad un massimo di 70-90 giorni nei casi di aborto e natimortalità per assunzione di alimenti inquinati da parte delle donne in gravidanza. Per tale variabilità nei tempi d’incubazione, è molto difficile mettere in correlazione l’episodio morboso con l’assunzione di un determinato alimento. (127)
Per quanto riguarda la patogenesi di tale batterio, questo, una volta entrato nell’organismo attraverso l’alimento inquinato, penetra nella parete intestinale e, da lì, successivamente diffonde in altri distretti. Il primo organo bersaglio sembra essere il fegato, dove il germe si moltiplica attivamente. Solitamente questa prima fase della malattia decorre in forma subclinica, grazie alla risposta di tipo cellulomediata fornita dall’organismo, che in genere riesce a contrastare il batterio.
Non sempre però lo stesso organismo immunocompetente reagisce bene, a maggior ragione nei soggetti debilitati e immunocompromessi, per cui il batterio dal fegato può diffondersi e colonizzare altri organi come cervello e utero gravido, rendendo così visibili sintomi gravi della malattia.
L. monocytogenes è in grado di penetrare e sopravvivere in numerose categorie cellulari, non solo i macrofagi, attivati nel corso della difese organiche, ma
anche epatociti, cellule endoteliali di sierose (quali pleura, meningi e peritoneo) e cellule epiteliali, grazie ad un ad particolare ciclo intracellulare del tutto specifico, che gli consente anche di diffondersi, eludendo le difese anticorpali. (127)
Oggi esistono delle discordanze riguardo la presenza del batterio nelle fonti alimentari e il numero dei casi di listeriosi. Ciò si spiegherebbe non solo con la presenza di altre modalità di trasmissione, che rappresentano un’evenienza molto rara, ma anche a causa di carenza diagnostica da parte dei medici, soprattutto nel caso delle forme enteriche della malattia. Inoltre c’è da aggiungere che la carica microbica negli alimenti è stimata essere in molti casi bassa e quindi non in grado di dare, almeno nei soggetti immunocompetenti, manifestazioni cliniche. Nel corso delle vita tali soggetti, tali cariche risulterebbero utili a stimolare continuamente il sistema immunitario, rendendo così più difficile la comparsa di sintomi gravi. Non dobbiamo infine trascurare la difficoltà di determinare la carica necessaria in grado di determinare la malattia. A tale scopo sono stati effettuati molti studi dose-risposta, che prendono in considerazione il ceppo batterico, la categoria di individui (nei