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I rischi della fonte legislativa

5. Con che cosa intervenire: le fonti del biodiritto

5.4. I rischi della fonte legislativa

Passando al ruolo del formante legislativo nell’ambito del modello interventista, va anzitutto richiamato quanto detto in riferimento al fisiologico ritardo della legge nel disciplinare le questioni di bioetica contemporanea. La capacità di trovare una base culturale sufficientemente ampia, tale da poter assicurare un grado di condivisione e conseguente legittimazione nei confronti di provvedimenti che per il loro oggetto evocano ed incidono sulla dimensione morale soggettiva pare, nelle complesse e plurali società attuali, fortemente ridotta; rectius – come vedremo subito – pare soggetta a condizioni di ordine sociale ed in senso lato culturale per nulla scontante.

Un primo rischio del legiferare in materia bioetica consiste in quella che potremmo definire la tentazione della via maggioritaria. Una possibile via per il raggiungimento di una decisione che possa ordinare formalmente la materia bioetica potrebbe infatti affidarsi a logiche politiche maggioritarie, tentando la strada dell’adozione, da parte delle forze parlamentari che avessero i numeri per farlo, di una legge che baserebbe poi il suo rispetto più sull’imposizione di divieti e di sanzioni che su una generale condivisione dei suoi principi fondanti. In questi termini, si denuncia, il «modo tradizionale di risolvere [la questione] all’interno di un rapporto di forza, di utilizzare strategie di sopraffazione e intolleranza»131.

Proprio per la natura del suo oggetto, tuttavia, il biodiritto non pare potersi basare principalmente sulla componente autoritaria e coercitiva. Così, pare che

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R. CILIBERTI, Medicina, etica e diritto nella rivoluzione bio-tecnologica, cit., 69.

«la mancanza di valori condivisi non possa essere sostituita da “un’etica dei più”, imposta attraverso lo strumento legislativo, dunque a mezzo della più classica tra le procedure maggioritarie»132.

Questo, perlomeno, a pena di trasformarsi da elemento di costruzione dell’armonia sociale ad ulteriore e controproducente fonte di conflitto133; ed a pena di fondare un assetto che minaccerebbe i diritti individuali anche di natura costituzionale e che potrebbe provocare uno scollamento fra diritto e parte della società, il quale rischierebbe di togliere efficacia alla norma stessa conducendo verso comportamenti di disapplicazione ed aggiramento134. «La regola legale può certo avere il senso di affermare un valore» si è detto «ma un buon sistema giuridico non proclama valori che non possa, nei limiti del ragionevole, realizzare. E soprattutto, non proclama valori con prescrizioni che inducono comportamenti di fuga, di cancellazione di fatto della regola enunciata»135.

Nel momento in cui, in secondo luogo, la disciplina legislativa ci sia e appaia in linea di principio anche condivisibile dalla maggior parte del corpo sociale, esiste comunque il rischio che possa essere

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Si veda l’Introduzione di S. RODOTÀ a Questioni di bioetica, cit., XI. In generale, ci si permetta il rinvio a C. CASONATO,Biodiritto e pluralismo nello stato costituzionale, cit., 8 s.

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V. POCAR, Sul ruolo del diritto in bioetica, cit., 164.

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Tipico, ad esempio, il c.d. turismo procreativo generatosi in Italia a seguito della legge n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita su cui anche G. BENAGIANO, Legge 40/2004: le critiche di un conservatore, in Bioetica, 2004, 221. In generale, sul carattere controproducente di un biodiritto imposto, si veda P. GROSSI, Prima lezione di diritto, cit., 6.

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«La possibilità di ottenere l’adempimento spontaneo; la possibilità di coercire l’adempimento; l’utilità e la compatibilità in relazione al sistema: insomma gli effetti di una regola sulla condotta sociale e sull’insieme dell’ordinamento, queste sono le preoccupazioni del giurista»: P. ZATTI,Verso un diritto per la bioetica, in

diffusamente considerata non adatta a regolare le specificità di un qualche caso singolo o di una categoria di casi. Se tale fenomeno pare fisiologicamente collegato, in ogni area del diritto, al formante legislativo in quanto generale e astratto, potrebbe assumere una gravità particolare in ambito bioetico; e questo, perlomeno parzialmente, anche a prescindere dalle differenti connotazioni della famiglia di civil law rispetto a quella di common law.

Un ambito particolarmente significativo che, appunto, accomuna ordinamenti appartenenti alle due famiglie citate, riguarda il divieto penalmente assistito dell’eutanasia attiva sia nella sua forma diretta che indiretta (assistenza al suicidio).

Come visto supra, la maggior parte degli ordinamenti contemporanei, quelli appartenenti al modello tendenzialmente impositivo, vietano entrambe le forme, di omicidio del consenziente e di aiuto al suicidio, disponendo strumenti sanzionatori particolarmente pesanti. In tutti quegli stessi ordinamenti, tuttavia, emergono fenomeni per nulla isolati in cui le stesse norme penali vengono per così dire disapplicate a favore di principi ritenuti dalle giurie, dai giudici, talvolta persino dalla pubblica accusa più conformi ad un senso di “giustizia sostanziale”.

Per quanto riguarda l’Italia, può ricordarsi il c.d. caso Forzatti. Nel giugno del 1998, Enzo Forzatti si recò nel reparto di rianimazione dove, a causa di una malattia che da nove anni la immobilizzava a letto, giaceva sua moglie (signora Moroni) incosciente, in «condizioni estremamente gravi, tali da prospettare bassa probabilità di sopravvivenza»136. L’uomo estrasse una pistola Beretta, poi rivelatasi scarica, e sotto la minaccia dell’arma fece uscire tutto il personale. Quindi staccò i tubi di collegamento del ventilatore

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Citiamo dai rilievi svolti nella sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del 24 aprile 2002 in Guida al diritto (Il Sole 24 Ore) del 19 ottobre 2002, n. 40, 47 ss.

artificiale che manteneva il sistema respiratorio della moglie e dopo qualche tempo chiamò un sanitario perché accertasse la morte della donna, la quale risultò deceduta per arresto circolatorio dovuto ad insufficienza cardiorespiratoria acuta. A questo punto, Forzatti infilò l’anello nuziale al dito della moglie, ne abbracciò il corpo e si lasciò arrestare senza opporre resistenza.

In primo grado, la Corte d’Assise di Monza condannò il soggetto a sei anni e mezzo di reclusione per il reato di omicidio volontario premeditato, applicando la circostanza attenuante dell’articolo 62 n. 1 del codice penale per «aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale». La sentenza fu appellata tanto dalla difesa quanto dall’accusa. La Corte d’Appello riconobbe che la donna non aveva mai espresso precedentemente in termini chiari la propria volontà di non essere sottoposta a trattamenti di quel genere e che Forzatti, per sua stessa ammissione, aveva agito pensando solo di fare quello che la moglie avrebbe ritenuto il meglio per se stessa. Si confermò, inoltre, che «anche l’anticipazione di un solo momento dell’evento morte (…) equivale ad omicidio». A fronte di tali considerazioni, pure, un consulente tecnico revocò in dubbio il fatto che la donna potesse essere ancora viva nel momento dell’interruzione della ventilazione. Nonostante l’ultimo controllo sull’attività cerebrale della donna fosse stato compiuto poco più di un’ora prima dell’interveto di Forzatti, ed avesse confermato la permanenza in vita della donna, il consulente non escluse che la morte cerebrale potesse aver preceduto l’azione del marito137. Le conclusioni della Corte d’Appello scagionarono Forzatti: sulla base di un più meditato controllo delle risultanze dibattimentali, infatti, «non si può dire

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Nella sentenza si legge che «per difetto di una documentazione formale ai fini di una definizione di morte clinica e strumentale, e non per le effettive condizioni patologiche (…), non si poteva affermare, con la necessaria fermezza, l’avvenuta morte cerebrale della signora Moroni [al momento dell’interruzione]: il che in ogni caso non equivaleva ad escludere la stessa sul piano naturalistico».

sufficientemente provato, oltre ogni ragionevole dubbio, il nesso di causalità tra la condotta del Forzatti e l’evento morte della moglie Moroni. Pertanto, si impone una decisione di assoluzione dell’imputato (…) perché il fatto non sussiste»; si trattava, insomma, di un «omicidio impossibile per insufficienza della prova dell’esistenza in vita della persona che l’imputato avrebbe inteso sopprimere».

La scienza, in questo caso l’incapacità scientifica di giungere ad una prova sicura, venne quindi incontro ad un’esigenza che potremmo definire di equità sostanziale, ponendosi come vettore di tale “sentimento di giustizia” e come pretesto per superare la rigidità di un antico adagio (dura lex, sed lex) che, anche per ragioni di carattere costituzionale, non pare più sostenibile138.

Ci siamo soffermati ad esaminare nel dettaglio tale caso in quanto pare dimostrare come la mancata prova dell’esistenza in vita della donna possa essere intesa come un mero artifizio adottato al fine di aggirare un altrimenti evidente uxoricidio. Il fatto che lo stato vitale della donna fosse stato confermato appena un’ora prima dell’evento, pare convincere del fatto che la giuria nel giudizio d’appello abbia voluto disapplicare una norma penale ritenuta troppo rigida e non adatta a regolare, secondo un senso di giustizia ritenuto prevalente, un caso di evidente omicidio pietoso. E quanto la condanna per omicidio apparisse diffusamente ingiusta, seppur formalmente del tutto legittima, può essere confermato dal comportamento della stessa pubblica accusa, la quale chiese la condanna dell’imputato in nome della lettera del codice penale, ma con comportamento che potrebbe apparire schizofrenico, fu la prima ad auspicare che qualora la sua istanza fosse stata accolta, l’imputato avanzasse domanda di grazia al Presidente della Repubblica.

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Potrebbe a questo punto sostenersi come casi del genere non siano esclusiva del biodiritto e come siano legati alla fisiologia delle dinamiche giuridico-processuali, tanto che lo stesso ordinamento li prevede, disponendo, proprio al fine di scongiurarli, un istituto apposito, seppur eccezionale, quale quello della grazia. Nel biodiritto che si occupa della fase finale della vita di soggetti in grave stato di sofferenza psico-fisica, tuttavia, casi di questa natura paiono assolutamente più frequenti che in altri settori, ponendo un problema di qualità, più che di quantità, del fenomeno. In Italia, ad esempio, si registra la concessione delle più diverse attenuanti al fine di mitigare quanto possibile la gravità della pena. Una donna che aiutò la madre sofferente, malata di sclerosi laterale amiotrofica allo stadio terminale, a recarsi in Svizzera per commettere suicidio, ad esempio, venne condannata ad un anno e mezzo di reclusione, con la condizionale; caso in cui, ancora una volta, furono considerati i «motivi di particolare valore morale o sociale» dell’azione, pure criminosa, e concessa l’attenuante dell’articolo 62 del codice penale139.

Anche in altri ordinamenti che pure appartengono al modello che abbiamo definito a tendenza impositiva, emergono casi per nulla isolati in cui il rigore della condanna per aver ucciso o aiutato nel suicidio persone in stato di grave sofferenza psico-fisica risulta, in buona sostanza, aggirato. Paesi di civil law, quindi, sono affiancati ad altre esperienze di common law in cui la condanna penale o la sanzione disciplinare per comportamenti di eutanasia attiva, diretta o indiretta, sono state più o meno ingegnosamente evitate con un atteggiamento di inconfessata tolleranza nei confronti di fattispecie implicitamente ricostruite e legittimate extra-ordinem in termini di omicidio pietoso.

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In questo senso, la riflessione può continuare in riferimento ad una fonte che nemmeno nella retorica formale di common law, oltre che nell’ortodossia di civil law, potrebbe creare diritto: il giudice.