• Non ci sono risultati.

Il sistema delle fonti inteso in termini tradizionali:

5. Con che cosa intervenire: le fonti del biodiritto

5.1. Il sistema delle fonti inteso in termini tradizionali:

consuetudine, convenzioni e diritto divino - 5.2. Il diritto politico: le dimensioni internazionale e sovranazionale - 5.3. Il livello costituzionale fra apertura ed incertezza - 5.4. I rischi della fonte legislativa - 5.5. La fonte giurisprudenziale e l’emergere della bio-equity - 5.6. La deontologia professionale, l’etica e la scienza: fonti del biodiritto? - 6. La proposta di un dialogo su basi compatibili: il pluralismo come risposta alla pluralità.

1. Modelli di disciplina dell’oggetto del biodiritto

Dopo aver riflettuto sulle problematiche legate ai mutamenti riconducibili in campo biologico ad alcune innovazioni di carattere tecnico-scientifico (paradigma biologico) e sulle difficoltà nella lettura giuridica di nuove realtà (paradigma giuridico), ci proponiamo in questa parte del lavoro di individuare alcuni modelli adottati o adottabili per disciplinare la materia coperta dal biodiritto. Una volta determinato e definito il suo oggetto, infatti, il diritto potrà disciplinarlo secondo modalità e contenuti diversi ed astrattamente individuabili e descrivibili.

Anzitutto, si può astrattamente individuare uno spettro di modelli cha va dall’estremo di quelli in cui è assente una fonte giuridica di disciplina delle pratiche bioetiche a quelli in cui ogni aspetto del fenomeno è regolato nel dettaglio da una molteplicità di fonti.

2. Il fisiologico ritardo del biodiritto

In nessun ordinamento, in realtà, è possibile individuare una totale mancanza di fonti e di norme applicabili, perlomeno per via analogica ed in linea generale, alla materia bioetica. La tutela della vita e dell’integrità fisica, il principio di eguaglianza o di ragionevole distinzione, una protezione minima dell’autodeterminazione personale nei settori in cui non sono coinvolti in modo accentuato interessi collettivi o di terzi, sono componenti presenti, spesso a livello costituzionale, in ogni ordinamento contemporaneo. E se anche mancassero riferimenti costituzionali o discipline legislative

ad hoc, i giudici si troverebbero comunque a dover risolvere i casi

portati loro di fronte.

Allo stesso modo, d’altro canto, nessuna esperienza presenta una copertura tale dell’oggetto del biodiritto da potersi dire immediatamente esaustiva. Quanto più spesso è dato riscontrare, allora, consiste nell’assenza o nel ritardo anche forte di una disciplina legislativa specifica o anche generale su pratiche più o meno innovative1. Al riguardo, può distinguersi fra un’assenza patologica di disciplina (inerzia) ed un ritardo che può dirsi fisiologico (differimento).

In termini generali, si può rilevare come il diritto che si voglia occupare delle questioni bioetiche si trovi in una posizione di ovvia e fisiologica difficoltà. Sempre più evidente, infatti, appare la

1

In riferimento ad alcune tematiche esemplari, cfr. F. MANTOVANI, I ritardi del

legislatore italiano, in C.M. MAZZONI (a cura di), Un quadro europeo per la

differente velocità con cui procedono l’innovazione scientifica e tecnologica2, da un lato, e l’approfondimento (culturale, politico e) giuridico, dall’altro; con il risultato che quasi inevitabilmente i tempi e i ritmi della scienza superano quelli della riflessione etica e dell’elaborazione politico-normativa. Con questo, non si vuole accusare gli scienziati di procedere usualmente senza porsi domande anche sull’etica e sul dover essere in relazione alla propria attività, ma s’intende come la morale, la politica ed il diritto non riescano a giungere, in tempi “competitivi”, a valutazioni dotate di una certa stabilità attorno agli spazi di scelta che le nuove scoperte immancabilmente dischiudono. Per questo, la disciplina giuridica non pare riuscire a raggiungere quei livelli di efficienza normativa che una scienza che interviene sull’uomo e sui suoi diritti, secondo molti, richiederebbe. Non è raro imbattersi in apparati normativi superati dallo stato delle cose, ed anche alcune discipline legislative rischiano di nascere già vecchie (un po’ come – si sosteneva – la pecora Dolly) o di provocare più lacerazioni che condivisioni.

Tale situazione di difficoltà non pare potersi più giustificare completamente in virtù di una ritenuta assoluta novità delle scoperte biotecnologiche. Se ancora molto, moltissimo rimane da scoprire, l’identità, se non i contorni, degli oggetti anche di frontiera su cui si muove la scienza contemporanea paiono tutti delineati: si tratta, ad esempio, della clonazione anche umana, dell’ingegneria genetica sia vegetale che animale, delle aree e dei modi di funzionamento del cervello. Anche se con un buon margine di apprezzamento, si sa in anticipo, in altri termini, quali saranno o quali potranno essere i risultati che nel corso degli anni verranno avvicinati o raggiunti dalle scienze biomediche e biotecnologiche. Si potrebbe quindi avviare per tempo un percorso di riflessione culturale che possa preparare le basi

2

Si è parlato, ad esempio, di «rivoluzione terapeutica»: P. BORSELLINO, Bioetica

per la disciplina del futuro, ma già previsto, oggetto problematico. Non siamo più nel tempo in cui le scoperte si facevano per caso, osservando la muffa in una scatola Petri. Ogni esperimento di frontiera viene seguito dalle più note riviste internazionali e spesso realizzato in contemporanea da più gruppi di ricerca in diverse parti del mondo. La giustificazione secondo cui il diritto o l’etica o la politica vengono sorpresi da scoperte prima inimmaginabili non pare dunque reggere e potrebbe rappresentare, semmai, un alibi per nascondere un’incapacità legata ad altri fattori che potrebbero ricollegarsi a tre connessi ordini di ragioni.

Una “buona scienza” biomedica, anzitutto, è perfettamente esportabile e ripetibile; così i suoi risultati. La più sofisticata apparecchiatura per mantenere in vita una persona in stato vegetativo, così come la più recente tecnica di procreazione assistita possono funzionare in ogni parte del globo. Questo non è altrettanto vero per le scienze giuridiche. Nonostante quanto qualcuno potrebbe pensare di primo acchito, l’esercizio della comparazione dimostra proprio come, in quanto scienza sociale, non esista un “buon diritto” in termini assoluti; e i risultati dell’applicazione di una disciplina giuridica dipendono in larga misura da una serie difficilmente elencabile di fattori in senso lato culturali. Così, una legge (o una sentenza) sullo stato vegetativo persistente o sull’eutanasia, considerata utile ed in linea con la tutela della dignità umana all’interno di un ordinamento e della relativa cultura, potrà essere considerata discriminatoria e crudele in un altro ordinamento, e viceversa. Allo stesso modo, si potrebbe dire come le tecniche di procreazione medicalmente assistita trovino tante discipline giuridiche diverse quanti sono gli ordinamenti che ne trattano3.

3

In prospettiva comparata, fra gli altri, cfr. C. CASONATO,T.E. FROSINI (a cura di), La fecondazione assistita nel diritto comparato, Torino, 2006.

La comparazione e la circolazione dei modelli, fenomeni tipici nell’ambito del diritto contemporaneo ed utilissimi in termini sia conoscitivi che pratici, sembrano confermare, insomma, come il trapianto di istituti e discipline da un ordinamento giuridico ad un altro possa sovente dare “crisi di rigetto”, e come, in definitiva, l’operazione di esportazione di porzioni di diritto da un paese ad un altro non raggiunga mai, o quasi mai, i risultati previsti. Certamente sulle materie bioetiche ogni ordinamento troverà o cercherà di individuare un proprio punto di equilibrio, un proprio bilanciamento d’interessi sulla base di fattori (sociali, politici, mediatici, economici, giuridici, ecc.) diversi e sempre variabili la cui combinazione appare certamente non trasferibile, di per sé, in altri contesti nazionali.

Le caratteristiche dell’oggetto su cui interviene il biodiritto costituiscono un secondo fattore di difficoltà. Come abbiamo visto sopra, le tematiche bioetiche hanno la capacità di evocare la struttura morale di fondo di ognuno e di coinvolgerne la coscienza individuale4. I processi del vivere e del morire con i rispettivi limiti (tecnici e normativi), le possibilità di intervenire sulla struttura più elementare del corpo e della materia, gli enormi vantaggi ed i rischi dei futuri scenari della biomedicina e della genetica attirano sempre più l’interesse di larghi strati della popolazione, anche grazie all’attenzione, pur essa crescente, dei mezzi di comunicazione di massa. Sulla disciplina da riservare a tali materie, quindi, si scontrano strutture di pensiero (queste sì) consolidate e spesso contrapposte, le quali impediscono l’agevole raggiungimento di una qualche disciplina condivisa. Una seconda causa (perlomeno) di ritardo, su questa linea, può riferirsi al fatto che più l’esigenza di normazione si avvicina alle dimensioni fondamentali dell’uomo (il proprio inizio e la propria fine, la percezione di sé, il bene delle

4

generazioni future) e maggiore appare la difficoltà di raggiungere un accordo condiviso5.

Come anticipato nell’Introduzione a questo lavoro, inoltre, medicina e diritto si sono spesso guardati con reciproco sospetto, esagerando i rischi di astratto formalismo, l’una, e di minaccia per l’integrità personale, l’altro, fino a scambiare la parte (peggiore) per il tutto. E in ogni caso, i giuristi, soprattutto di civil law, hanno temuto a lungo di perdere di scientificità e, per così dire, di contaminare il proprio sapere nel momento in cui si fossero incamminati su una riflessione su temi che chiamano in causa così fortemente sia le etiche pubbliche che la struttura morale individuale6.

I due profili problematici fin qui illustrati trovano una chiave di lettura comune nel terzo aspetto che qui si vuole richiamare. Il diritto richiede la formazione di un certo livello di condivisione. Per l’adozione di una legge, ad esempio, è necessaria una maggioranza (politico-parlamentare) che ne approvi i contenuti; e per la sua applicazione è necessaria una generale accettazione (sociale). In materie delicate come quelle del biodiritto – come si vedrà meglio

infra – neppure il ricorso al mero principio maggioritario produce

effetti apprezzabili nel regolamentare con certezza ed efficacia i singoli oggetti di disciplina. Ed anche sul versante giurisprudenziale, può notarsi come una sentenza isolata possa fornire una soluzione provvisoria fra le parti, ma non possa porsi come fattore di avanzamento complessivo del fenomeno giuridico a meno di non aggregare attorno a sé altre o più autorevoli conferme. Per la pur relativa certezza delle scienze sperimentali vale il criterio della

5

«L’effetto che consegue in questi casi è tuttavia paradossale, poiché consiste nella mancanza di una tutela organica dei valori esistenziali in gioco, i medesimi valori la cui importanza impedisce di scendere a qualsivoglia compromesso»: cfr. C. PICIOCCHI, Le fonti del biodiritto: la complessità del dialogo, in C. CASONATO,C. PICIOCCHI (a cura di),Biodiritto in dialogo, cit., 91.

6

verifica della comunità scientifica internazionale e della ripetibilità. Se la scienza può procedere anche grazie all’attività di pochi ricercatori, lo stesso non può fare il diritto, il quale, perlomeno in uno stato costituzionale su base democratica, necessita di un consenso sufficientemente ampio. Se quindi un solo ricercatore può certamente far progredire la scienza facendo circolare i propri risultati, un politico o un giudice difficilmente potranno da soli individuare le soluzioni più appropriate ed efficaci per un determinato fenomeno.

Il principale motivo del ritardo del diritto nei confronti delle tematiche bioetiche, quindi, deriva dal fatto che, nelle odierne società democratiche, liberali e pluraliste, manca a monte della decisione da adottare quella condivisione necessaria per esprimere e fondare la legittimazione delle regole giuridiche di cui pure molti avvertono l’urgente necessità. Anzi, l’esigenza di fare chiarezza sulle rispettive posizioni, in vista dell’adozione della decisione normativa, pare mettere a nudo e, se possibile, esasperare le divisioni in senso lato culturali già presenti, in forma latente, nella società. La complessità del confronto politico e la lentezza della produzione giuridica, insomma, contribuiscono a rendere irraggiungibili i ritmi e la velocità della ricerca scientifica e tecnologica: quanto più si avverte l’esigenza di una disciplina tanto più paiono configurarsi le condizioni per un suo progressivo allontanamento7.

3. Il modello astensionista: i rischi della “scelta-di-non-scegliere”

A fronte di tali problemi, si possono individuare due linee generali di reazione da parte degli ordinamenti: una di segno interventista ed una

7

Cfr., fra gli altri, L. PALAZZANI in Introduzione alla biogiuridica, Torino, 2002, 7, scrive: «La bioetica vive in una situazione paradossale: quanto più fortemente si avverte l’urgenza della risoluzione delle problematiche bioetiche, tanto più emerge e si acutizza il divario tra l’accelerazione incalzante del progresso tecno-scientifico e la lentezza nella elaborazione di una risposta».

di segno astensionista. Il primo approccio sottolinea l’esigenza che pratiche ad alto impatto sui diritti e doveri dei soggetti non possano essere dominate da un regime di laissez faire e che solo una copertura di carattere giuridico potrebbe assicurare un controllo della scienza in termini sia garantistici che democratici. D’altra parte, gli avversari della regolazione giuridica temono un’eccessiva limitazione della libertà della ricerca, attraverso l’imposizione di ostacoli di ordine burocratico e sostengono l’efficacia e la sufficienza dell’autoregolamentazione affidata alla componente deontologica e al controllo della comunità scientifica internazionale8.

L’atteggiamento di ogni singola esperienza giuridico-costituzionale non dipende certamente solo dal particolare approccio che si ha in materia bioetica. Potrebbe anzi sostenersi come la disciplina di tali questioni rifletta in maniera particolarmente significativa i caratteri più propri della singola esperienza giuridica complessivamente considerata. L’analisi delle scelte in materia di biodiritto potrebbe allora costituire anche un’utile verifica dell’effettiva aderenza dell’ordinamento ad alcuni dei suoi profili generalmente considerati più connotativi.

Così, anzitutto, l’appartenenza alla famiglia di common law piuttosto che a quella di civil law costituisce un dato di partenza decisivo per comprendere le ragioni di una scelta di intervento, e di intervento attraverso la fonte legislativa, ad esempio, piuttosto che quelle di una che privilegia la non disciplina (legislativa) o il ricorso ad altri formanti. E su questa linea, il diritto della bioetica può costituire anche un valido campo di prova di giudizi affrettati o di rappresentazioni caricaturali delle singole esperienze. Così, ad esempio, un autore inglese ha osservato le differenti reazioni di Francia e Gran Bretagna rispetto alle tematiche bioetiche, scherzando

8

Fra gli altri, si vedano P. BORSELLINO,Bioetica tra autonomia e diritto, cit.,

sulle reciproche concezioni:

«There is in human nature a scale of different possible

reaction to the slogan “from ethics to law”. At one extreme is the temperament which feels, “if it is wrong, we must legislate at once. Let us forbid it in the Penal Code, or at least write it into the Civil Code, and if we can’t do either of those, then let us outlaw it in some other code or body of law, such as the Public Health Code”. The British think that is the French way.

At the other extreme is the temperament which feels: “if it’s wrong, let us educate everybody to know that it is wrong, and that will surely solve the problem. At the very most, let us hope that the professionals will regulate it in their codes of practice; medical, nursing, and so on. Above all, no new law”. The French think that is the British way»9.

Al di là delle reciproche rappresentazioni e delle forzature che possono talvolta emergere, l’approccio di common law tendeva sicuramente e ancora tende, seppure non nella sua totalità, a non irrigidire le tematiche bioetiche con discipline troppo stringenti o dettagliate. Esso punta piuttosto a porre dei limiti di principio anche ampi, riconoscendo uno spazio di decisione sul singolo caso a fonti normative di natura non strettamente giuridica né tanto meno

9

Cfr. la relazione di Lord W. KENNET, Legislation and Regulation in Europe, citata da S.S. FLUSS, Una prospettiva internazionale sugli sviluppi in alcune aree,

1984-1994, in C.M. MAZZONI (a cura di), Una norma giuridica per la bioetica, cit., 15, 17. Cfr. anche il paper di D. MORGAN, After the Glass Bead Game: Living with

the troubled helix. Issues of IPRs, presentato alla International Conference on “Bioethical Issues of Intellectual Property in Biotechnology”, 6-7 September 2004,

legislativa. Al riguardo, quindi, può generalmente parlarsi di modello interventista, seppur in forme moderate, piuttosto che di scelta compiutamente astensionista10.

Un approccio di segno prevalentemente astensionista, pure, segna, secondo alcuni, la famiglia di common law con particolare riguardo a tematiche quali quelle riconducibili alla tutela del feto da parte di comportamenti lesionistici o autolesionistici della madre. In una serie di casi canadesi, statunitensi e inglesi, così, si è riconosciuta una tendenziale autonomia della madre incinta nell’adottare condotte che, entro certi limiti, costituiscono un potenziale lesivo nei confronti della salute del feto. Comportamenti materni differenti sono certamente oggetto di considerazioni giuridiche differenti: l’assunzione di droga che comporti un danno certo per la salute del feto, ad esempio, è valutata diversamente dal rifiuto di un’operazione medica invasiva come un taglio cesareo. In termini generali, pure, è stato considerato inopportuno sia l’intervento legislativo del diritto in quanto tale sia un approccio attivo da parte dei giudici:

«The law should not be used to coerce or restrict a

pregnant woman in an attempt to protect her foetus. Its methods are clumsy, intrusive, and, at times, counter- productive (…). Its capacity to resolve the problems posed by obstetric misadventures is limited»11.

Gli atteggiamenti di segno astensionista non sono peraltro confinabili entro la famiglia di common law. Paradossalmente, anzi,

10

Vedremo infra che questo modello ad intervento limitato può essere efficacemente esemplificato dalla disciplina britannica della fecondazione assistita.

11

J. SEYMOUR, Childbirth and the Law, Oxford-New York, 2003, 365, 375. L’autore, comunque, prosegue indicando come la sua conclusione «is not offered as

a confident assertion that in future the courts will inevitably reject attempts to use the law in this way» (367).

l’ordinamento italiano, e proprio in riferimento al formante legislativo, pare potersi ascrivere più di altri in tale tipologia.

Quella che si potrebbe indicare come una versione patologica del modello astensionista, ad esempio, corrisponde all’esperienza italiana in una serie di tematiche che vanno dalla fecondazione assistita fino alle dichiarazioni anticipate di trattamento. I caratteri di tale patologia potrebbero indicarsi nell’assenza prolungata ed estesa di regole normative di riferimento; assenza destinata a produrre conseguenze insostenibili sia per la garanzia dei diritti dei soggetti coinvolti, sia per le difficoltà dei giudici di reperire norme atte a orientare la loro attività, sia, infine, per la certezza nel comportamento da adottare da parte dei medici e della prevedibilità delle relative conseguenze. In questo caso, l’assenza o la misura estremamente limitata dell’intervento legislativo non rende opportunamente flessibile ed aperto il sistema, ma pone seri rischi per la tenuta dei principi democratico e garantista su cui pure il sistema sostiene di fondarsi.

Riguardo al primo ambito, è noto come in Italia mancasse prima della legge 40 del 2004 una disciplina della procreazione medicalmente assistita. La c.d. circolare Degan, che dal 1985 trattava della tematica, era sta interpretata nel senso di potersi applicare solo ai centri pubblici. Già la natura di tale atto (circolare ministeriale) pare difficilmente rapportabile all’importanza delle posizioni giuridiche coinvolte (diritti e doveri anche di rango costituzionale). Il suo raggio d’azione era limitato, disciplinando solo alcune delle numerose problematiche collegate alla pratica; e nella sua impostazione appariva eccessivamente rigido fondando alcuni principi su ragioni apoditticamente ideologiche o superate dai ritrovati tecnologici. Il divieto di fecondazione c.d. eterologa, ad esempio, era giustificato dal fatto che «allo stato della legislazione, deve ritenersi che solo le tecniche che utilizzano i gameti della

coppia consentono di realizzare il desiderio genitoriale della medesima senza incertezze sulla paternità e sulla maternità del nascituro» (assunto superato sia a livello tecnologico che giuridico), mentre «fondamento essenziale del rapporto di filiazione è quello della derivazione biologica» (asserzione apodittica)12. La conseguenza di tale limitatissimo ed insufficiente intervento normativo consisteva nel creare un quadro difficilmente sostenibile, caratterizzato tanto da aspetti lacunosi quanto da distinzioni irragionevoli e discriminatorie.

Tale scelta astensionista non pare condividere le esigenze presenti – vedremo – nell’esperienza britannica. Le ragioni del carattere limitato dell’intervento, infatti, non risalgono a motivi di prudenza o “mitezza legislativa”, ma di incapacità e talvolta anche di strumentalità.

«Da noi vige l’Italian way: non si legifera perché non si riesce e perché non si vuole (…). L’inerzia italiana non si spiega solo per cause politiche contingenti. La sua fonte sta nel difetto di consenso e nella lontananza delle posizioni (…). Da una parte siamo assuefatti a una prassi legislativa sciatta e casuale, che trascura o