CAPITOLO IV. UNA CONVERGENZA DEL MATERIALISMO
IV.4.1 Riscoperta del valore della Vita individuale
Per quanto riguarda il rapporto fra il Creatore e la sua creatura, il cardinale Cusano ritiene, in realtà, che il «massimo assoluto», ovvero «l’entità assoluta» è «l’infinito in senso negativo, perché esso solo può essere in tutta la sua potenza»194;
190 N. Cusano, La dotta ignoranza, a cura di Graziella Federici Vescovini, Roma, 1991, p. 51. 191 Ibid.
192 Ibid. p. 59.
193 Cfr. N. Cusano, cap. XXII: In che modo la provvidenza divina unisce i contraddittori in La dotta ignoranza.
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invece, l’universo racchiudendo «tutte le cose che non sono Dio, non può essere infinito in senso negativo, sebbene sia senza termini e, pertanto, infinito in senso privativo»195.
Di conseguenza, il suo universo infinito deve essere compreso rigidamente nelle dimensioni temporali e spaziali; esso è diverso dall’infinito completo di Bruno, ossia un ‘infinito’ che non dispone di tali precondizioni ed è realizzazione perfetta e assoluta. Inoltre, l'esistenza dell'universo rappresenta un ‘declino’ rispetto all’idea bruniana di universo vista la necessità di una mediazione del ‘terzo massimo’ che è contratto e assoluto allo stesso tempo. Ovviamente, secondo Cusano, il terzo massimo è Cristo; egli può risolvere la dispersione dell'universo e poi riportarlo all'estrema origine della divinità.
Da un lato, Cusano supera la visione di un universo limitato, in quanto è «perfettissimo per l’ordine della natura, ha preceduto tutte le cose affinché qualsiasi cosa possa essere in qualsiasi cosa»196; dall’altro, attraverso la distinzione tra infinito
e indefinito, egli sottolinea la subordinazione al livello ontologico dell'universo rispetto alla posizione di Dio. La natura dell'universo è indebolita rispetto al terzo massimo che, identificato come Cristo, realizza perfettamente la natura dell'umanità come un «microcosmo» e assume il ruolo dell'intermediario fra «la natura intellettuale e quella sensibile», ovvero, «racchiude in sé tutti gli universi»197.
Perciò, tra Dio e l'universo, Cusano accentua il ruolo decisivo di Cristo e lo tratta come un contratto perfetto e un'unione assoluta che riassume l’origine di Dio e il vero uomo. Cristo è conferito di tutta la facoltà di creazione e collegato direttamente all'assolutezza del Padre.
Bruno critica questa profonda contraddizione nella dottrina di Cusano da due prospettive: in primo luogo, Bruno insiste sul rifiuto radicale della mediazione tra
195 Ibid. 196 Ibid., p. 165 197 Ibid. p. 165-6.
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creatore e creatura che è incarnata da Cristo. Bruno utilizza la metafora della figura del centauro Chirone per descrivere Cristo: «che vogliamo far di quest'uomo insertato a bestia, o di questa bestia inceppata ad uomo, in cui una persona è fatta di due nature, e due sustanze concorreno in una ipostatica unione? Qua due cose vegnono in unione a far una terza entità; e di questo non è dubio alcuno. Ma in questo consiste la
difficultà; cioè, se cotal terza entità produce cosa megliore che l'una e l'altra, o d'una de le due parti, overamente piú vile. »198; in secondo luogo, la necessità di identificare
una mediazione tra Dio e l'universo viene interrotta. Trasformando tale ruolo dalla “filium unigenitum” (unicità del figlio di Dio) ad un “explicatio” (esplicazione, cioè la realtà dell'Universo), il rapporto di generazione e uguaglianza che Cusano ha stabilito tra Dio e Figlio è trasposto nella natura. L'universo non indica più la dispersione o il declino ma piuttosto un'espressione piena e completa dell'infinito potere della divinità. Di conseguenza, il processo di Salvezza non richiede più il ruolo di Cristo.
Sebbene la dignità dell’essere umano esista anche nella filosofia del Nolano, non di meno essa appartiene anche alla vicissitudine di natura, la mutazione delle singole cose rende ogni ente degno e buono. Bruno introduce in base ad «una divinità
semplice che si trova in tutte le cose», «una feconda natura madre conservatrice de l’universo, secondo che diversamente si comunica, riluce in diversi soggetti, e prende diversi nomi; vedi come a quell’una diversamente bisogna ascendere per la
partecipazione de diversi doni»199.
La dignità dell’uomo si riflette nei nostri corpi diversi, irripetibili, unici e peculiari. La partecipazione tramite ogni vita specifica diviene l’unico legittimo mediatore fra il Creatore e la creazione che sostituisce il ruolo di Cristo.
Come afferma Nicoletta Tirinnanzi nell’introduzione del trattato magico De
rerum principiis, la dignità umana non si fonda sull’uniformità ma si trova nella «vita
che scaturisce proprio dal proliferare dei diversi aggregati. […] Vita naturale e
198 Spaccio de la bestia trionfante, in DFI, p. 823. 199 Ibid., Spaccio, p. 634.
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potenza divina germinano dal rifiuto dell’uguaglianza assoluta e impongono che non si diano mai ‘medesime prerogative’ e ‘medesimi gradi’»200.
Ecco spiegato come mai, nel carcere di Venezia a Roma, con una lunghissima lotta, Bruno vuole con tutte le sue forze scontrarsi con gli inquisitori e vivere.
Tuttavia, questa sopravvivenza dell’individuo non è mai egoismo, essa «ne rivendica il valore, ma, paradossalmente, su uno sfondo teorico che è ormai ben al di là
dell’Umanesimo»201.
La comprensione della “protezione del corpo” significa amarlo come un tesoro e di conseguenza amare il prossimo. L’amore per la propria persona e il proprio corpo porta all’estensione di questo sentimento verso gli altri.
«“Tutti siamo suggetti alla mutazione” osserva Giove nello Spaccio, “e quel che più tra tanto ne afflige è che non abbiamo certezza né speranza alcuna di ripigliar quel medesimo essere a fatto in cui tal volta fummo”. Perciò, “se pur aspettiamo altra vita o altro modo di esser noi, non sarà quella nostra, come de chi siamo al presente: perciocché questa, senza sperar giamai ritorno, eternamente passa”»202.
L’impossibilità del ritorno all’unica vita è la radice dell’atteggiamento di Bruno nei confronti degli inquisitori a Venezia e a Roma. Citando Ciliberto: «la persuasione di essere unico e irripetibile - come Achille, che non sarebbe mai più tornato a Troia. Bruno era, insomma, consapevole […] che la sua vita, “senza sperar giamai ritorno”, sarebbe eternamente trapassata»203.