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Le risposte della Corte di Cassazione: le sentenze n 22209 del 2013 e n 26283 del

Nel 2013 la Corte di Cassazione si è pronunciata con due sentenze molto diverse tra loro, che potrebbero apparire ad una prima lettura in netto contrasto. Tuttavia, apprezzando le posizioni che la Corte ha assunto su tematiche distinte, ed analizzando gli obiettivi che si proponeva di raggiungere, è possibile cercare di ricomporre un quadro unitario.

La sentenza della Suprema Corte n. 22209/2013 70 ripercorre l’evoluzione della giurisprudenza civile in tema di natura delle società pubbliche, riconoscendo come, in un primo momento, esse fossero considerate società di diritto comune, soggette alla disciplina civilistica e fallimentare; il proliferare di normative settoriali e derogatorie aveva portato una certa dottrina a riconoscere un’alterazione della natura delle società pubbliche. Questo orientamento veniva tuttavia contrastato dalla convinzione diffusa che tali normative speciali non facessero altro che confermare l’applicabilità della disciplina privatistica (e anche fallimentare) alle società pubbliche per tutti i settori non compresi nelle deroghe. La Corte rileva così che l’esistenza

69Al tempo della pronuncia, la nozione di organismo di diritto pubblico era prevista

nell’art. 3, comma 26, dls. 12 aprile 2006, n. 163. Oggi è contenuta nel nuovo Codice degli appalti, il d. lgs. 50/2016.

70Cass, I Sez. civ., 15 maggio 2013, n. 22209, in Foro it., 2014, I, 113. Si trattava di

una società a responsabilità limitata (la A. s.r.l.), partecipata dall’ente pubblico ASI del Comune di Avellino nella misura del 51 %, affidataria della gestione di un impianto per lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani della provincia.

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stessa di normative di settore che attraggono nella sfera pubblica i soggetti privati, testimoniano, a contrario, la natura di soggetti di diritto privato di questi ultimi.

In particolare, la Corte si confronta con l’approccio funzionale, sostenuto dalla difesa della società in esame, rifiutandolo in maniera netta e seguendo così un ragionamento di più ampio respiro in cui ripercorre l’evoluzione delle società in mano pubblica. La Suprema Corte riconosce l’ampia varietà di società pubbliche esistenti e le differenze che tra esse intercorrono, ma afferma l’impossibilità di tracciare uno statuto unitario che le disciplini tutte in maniera uniforme. Sulla base di queste considerazioni, i giudici della Cassazione rifiutano l’impostazione funzionale, secondo la quale le società dotate del carattere di necessità per l’ente pubblico dovrebbero essere esentate dal fallimento, poiché a presentare il carattere di necessità non è il soggetto, ma l’attività che esso svolge. Nel nostro ordinamento, tuttavia, il carattere necessario dell’attività è irrilevante ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale e dell’assoggettabilità a fallimento. Una simile conclusione non appare in contrasto con gli interessi pubblici sottesi alla fattispecie in esame, poiché essi potranno essere ugualmente tutelati mediante gli ordinari strumenti del diritto fallimentare, quale l’esercizio provvisorio o avvalendosi delle norme in materia di ristrutturazione industriale delle grandi imprese in crisi71.

Alla luce di questo excursus normativo e dottrinale, la Corte ribadisce che una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede in tutto o in parte il capitale. La qualificazione di “ente pubblico” infatti può essere attribuita ad un soggetto solo per legge, nel rispetto del divieto dell’art. 4 della legge 70/1975. Secondo la Corte, dalla scelta del legislatore di perseguire l’interesse pubblico anche mediante strumenti privatistici, consegue

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S.DEL GATTO, Le società pubbliche e le norme di diritto privato - il commento, in

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quindi l’assunzione da parte di tali società di tutti i rischi connessi alla crisi e all’insolvenza della medesima72

. Se così non fosse, sarebbero messi a repentaglio i principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che si relazionano con tali società. La Corte afferma che ciò che deve essere valorizzato ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale è la natura del soggetto, con la conseguente assunzione dei «rischi connessi alla sua insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto e ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall’ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità».

Nel caso di specie, è stato dunque rigettato il ricorso, ritenendo assoggettabile al fallimento la società a partecipazione pubblica.

Più problematico risulterebbe l’inquadramento della sentenza n. 26283/2013 73 della Cassazione, nella quale la Corte si è pronunciata su un profilo di carattere processuale riguardante le società in house, esprimendo un orientamento apparentemente in contrasto con le riflessioni delle decisioni precedenti74. In particolare, la Corte si è occupata dell’ammissibilità dell’azione di risarcimento del danno per atti di mala gestio operati dagli amministratori, sindaci, direttori

72F.FIMMANÒ, Il fallimento delle società pubbliche, su www.ilcaso.it

73Cass., Sez. unite, 25 novembre 2013, n. 26283, in Società 2014, 1, p. 55 con

commento di F.FIMMANÒ,La giurisdizione sulle società in house providing. Il caso

riguardava la società ETM, società in house del comune di Civitacchia. Il giudice di primo grado aveva riconosciuto nella propria sentenza i caratteri dell’in house

providing poichè l’unico socio era l’ente locale; le azioni da lui detenute non

potevano essere nemmeno in parte alienate; la società aveva per oggetto l’esercizio del servizio di trasporto pubblico locale; la parte più importante dell’attività era svolta a favore del comune partecipante, che esercitava su di essa un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

74 R. IERA e A. VILLARI, Natura giuridica, disciplina applicabile e spazi di

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generali a discapito della società, approdando al riconoscimento della giurisdizione contabile sulle azioni di responsabilità degli amministratori e sindaci della società in house75.

Questo risultato si fonda su due considerazioni fondamentali: l’assenza di un potere decisionale proprio della società, in conseguenza dell’assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico e l’impossibilità di riconoscere nella società in house un soggetto capace di collocarsi al di fuori dell’ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione. La società in house degrada quindi a mera articolazione della Pubblica amministrazione. La Corte, infatti, apprezza come vi sia una sostanziale coincidenza tra il patrimonio del socio pubblico e quello della società: ogni danno provocato al patrimonio della società in house produrrebbe inevitabilmente un danno al patrimonio del socio pubblico e genererebbe un’ipotesi di responsabilità amministrativa, da ricondurre nella giurisdizione del giudice contabile76. La Corte riconosce quindi, anche se indirettamente, che l’esenzione dell’art. 1 l. fall. debba essere applicata anche alle società in house laddove esse siano in possesso dei requisiti previsti dalla Corte di Giustizia UE.

La strada percorsa dalla Cassazione per giungere a questo risultato è quella dello “squarcio del velo della personalità giuridica”: nella

75In questa pronuncia la Corte affronta il problema del riparto di giurisdizione tra

Corte dei Conti e magistratura ordinaria per gli amministratori delle società pubbliche. Ribadisce quanto precedentemente affermato nella sentenza della Cass., sez. un. civ., 22 dicembre 2009, n. 26806, secondo cui vi è sempre giurisdizione ordinaria se la responsabilità per mala gestio abbia provocato un danno indiretto al socio ente pubblico come conseguenza del danno diretto al patrimonio della società; vi è giurisdizione contabile se gli amministratori sono responsabili di un danno diretto al patrimonio del socio ente pubblico. La Corte, con la sentenza n. 26283/2013, introduce una peculiare eccezione per le società in house, poiché afferma la giurisdizione della Corte dei Conti per il danno arrecato dagli amministratori al patrimonio della società e di riflesso al patrimonio dell’ente pubblico.

76Recentemente, ci sono state altre pronunce che hanno seguito questo indirizzo,

come Cass, Sez. Un., 26 marzo 2014, n. 7177, consultabile su

www.italgiure.giustizia.it, che ribadisce la riconducibilità alla giurisdizione della

Corte dei Conti dell’azione di responsabilità degli amministratori in relazione ai danni causati al patrimonio della società in house.

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società in house infatti non si realizzerebbe una vera e propria distinzione tra ente controllante e soggetto controllato, poiché risulta di difficile configurazione un reale rapporto di alterità tra i due soggetti. La società in house non sarebbe altro che «una longa manus della pubblica amministrazione, al punto che l’affidamento pubblico mediante in house contract neppure consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo; di talchè l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa». La Corte afferma infatti che, con riferimento alla società in house, si assiste ad una «subordinazione dei suoi gestori all’ente pubblico partecipante, nel quadro del rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso» e alla «impossibilità stessa di individuare nella società un centro di interessi davvero distinto rispetto all’ente pubblico che l’ha costituita e per il quale essa opera». Da ciò, ne consegue che gli organi sociali debbano degradare a mera articolazione interna dell’amministrazione, legati ad essa da un rapporto di servizio, e che, venendo meno il rapporto di alterità tra ente pubblico e società, anche la distinzione tra patrimonio dell’ente e quello della società sia destinato a non esprimersi più in termini di distinta titolarità, ma di mera separazione patrimoniale. La società in house si presenterebbe quindi come una sorta di patrimonio separato dell’ente pubblico.

Diventa pertanto problematico capire se e in che modo le due pronunce della Corte, pur concernenti profili diversi, possano esser allineate, stante la radicale diversità di impostazione delle premesse del ragionamento. La scelta della giurisprudenza di assoggettare alla disciplina fallimentare la società in house, in quanto non qualificabile come ente pubblico, potrebbe risultare incompatibile con il riconoscimento della responsabilità erariale dell’amministratore, basata

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sull’assenza di una reale alterità soggettiva tra ente pubblico controllante e società. D’altra parte, l’inquadramento della società in house in termini di patrimonio separato dell’ente pubblico potrebbe tradursi in un fenomeno molto pericoloso, addirittura destabilizzante per l’intero sistema77

.

La pronuncia n. 26283/2013 presta il fianco, difatti, a numerose critiche78: in primo luogo, secondo i giudici della Corte, le società in house sarebbero sottoposte non già ad un “controllo analogo” (così come richiesto dalla giurisprudenza comunitaria), bensì ad un “controllo gerarchico”, tale da «non lasciare spazio a possibili aree di autonomia e di eventuale motivato dissenso». Questa impostazione, che qualifica il controllo analogo in termini di controllo gerarchico, annulla la volontà degli amministratori, che risulteranno quindi impossibilitati ad assumere alcun tipo di decisione: la mancanza di autonomia decisionale degli amministratori renderebbe la società priva di una reale personalità giuridica, salva la forma esteriore. Questa lettura diverge però nettamente da quella della Corte di Giustizia, poiché va oltre quanto richiesto dalla giurisprudenza comunitaria. Inoltre, se anche volessimo accogliere questa interpretazione molto stringente della Cassazione, ciò non varrebbe a giustificare l’annullamento del rapporto di alterità tra società partecipata e ente partecipante, dal momento che rimarrebbe comunque il dato oggettivo per cui la società, anche se in house, è a tutti gli effetti una società per azioni, caratterizzata dalla separazione patrimoniale. Da questo profilo, è possibile apprezzare il secondo elemento di debolezza della sentenza: la Corte afferma che le società in house hanno in comune con le ordinarie società per azioni «solo la forma esteriore, ma costituiscono in realtà delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui

77F.FIMMANÒ, La giurisdizione sulle società in house providing, commento a Cass.

Sez. Unite n. 26283/2013, in Società, 2014, 1, p. 61 e ss.

78Per un’analisi, cfr. S. DEL GATTO, Le società pubbliche e le norme di diritto

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promanano» e da ciò ne discenderebbe l’impossibilità di individuare una distinta titolarità tra il patrimonio dell’ente e quello della società. Per la Corte, risulta dunque irrilevante che l’essenza stessa della s.p.a. sia costituita dalla separazione patrimoniale. Anche dal punto di vista applicativo, la lettura offerta dalla Corte potrebbe generare alcuni problemi: se vi è confusione tra il patrimonio dell’ente pubblico e quello della società, i creditori della società potranno dunque rivalersi nei confronti dell’ente pubblico direttamente; una possibilità, questa, tuttavia esclusa dal diritto societario per le società di capitali, in virtù della limitazione della responsabilità dei soci al solo patrimonio sociale.

Le due pronunce presentano delle significative differenze, che sono espressione di un unico elemento di fondo: l’incertezza della disciplina applicabile alle società pubbliche. Di fronte ad un quadro normativo che, al tempo, si presentava privo di una sua sistematicità ed organicità, occorre domandarci se la sentenza n. 26283 del 2013, limitata a profili inerenti la giurisdizione, avesse inteso riaprire la questione risolta poco tempo prima della precedente sentenza n. 22209 del 2013 in materia di fallimento di società in house, attraverso una estensione dei principi espressi in materia contabile al tema della fallibilità. Risulta possibile, a ben vedere, ricondurre ad unità le due pronunce, sottolineando come l’orientamento espresso nella sentenza 26283/2013 non risulti del tutto incompatibile con l’altra sentenza sopra esaminata. La giurisdizione della Corte dei Conti sulla responsabilità amministrativa nei confronti degli amministratori è stata riconosciuta alla luce della natura oggettivamente pubblica del danno (cioè il collegamento, anche indiretto, con la finanza pubblica), a prescindere dalla natura giuridica del soggetto o della veste utilizzata. Per delineare la giurisdizione della Corte dei Conti ci si avvale di un criterio oggettivo, non più soggettivo come in passato, che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni

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espletate e non più sulla condizione giuridica del soggetto agente. Sulle società a partecipazione pubblica, si presenterà pertanto la giurisdizione della magistratura contabile solo nella misura in cui sia stato arrecato un danno erariale all’azionista pubblico. La definizione delle società in house in termini di mera articolazione interna dell’ente pubblico dovrebbe cioè essere confinata nell’ambito della soggezione degli amministratori alla giurisdizione della Corte dei Conti e non anche in ambito fallimentare79. Solo enfatizzando questo profilo possiamo armonizzare tra loro due sentenze tanto diverse80.