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La gestione della crisi nelle società in house

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

La gestione della crisi nelle società in house

Candidata: Relatore:

Maria Chiara Maffei Chiar.mo Prof. Francesco Barachini

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Ai miei genitori

e a mio fratello

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INDICE

Introduzione 8

CAPITOLO I Le società in house

1. Le società in house 10 2. La natura delle società in house e rapporto con

l’ente affidatario 13

3. I requisiti: il controllo analogo e l’attività prevalente 16

3.1 Il controllo analogo 18

3.2 L’attività prevalente 25

CAPITOLO II Il fallimento

1. Il fallimento delle società in house 27

2. La non fallibilità 30

2.1 L’approccio tipologico – sostanzialistico 31

2.2 L’approccio funzionale 39

3. La fallibilità: l’approccio privatistico 46 4. Le risposte della Corte di Cassazione: le sentenze n. 22209

del 2013 e n. 26283 del 2013 49

5. Conclusioni sulla fallibilità 56

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CAPITOLO III

L’esercizio provvisorio

1. L’esercizio provvisorio e la sua disciplina 73 2. L’applicabilità dell’esercizio provvisorio alla società

in house e il problema della continuità del servizio 90 3. Le problematiche dell’esercizio provvisorio:

l’autofinanziamento, l’intuitus personae e la salvaguardia

dei livelli occupazionali 101

4. Analisi della giurisprudenza 110

5. Conclusioni 115

BIBLIOGRAFIA 118

GIURISPRUDENZA 123

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Introduzione

Negli ultimi anni, il fenomeno dell’“in house providing” si è diffuso nel nostro paese in maniera capillare e consistente, portando in più occasioni il legislatore nazionale ed europeo ad intervenire sul tema, cercando di risolvere le varie problematiche che derivavano dall’applicazione dell’istituto. La disciplina dell’affidamento diretto si contraddistingue per una mancanza di coesione interna: il legislatore, attraverso i suoi interventi puntali, non è sembrato capace di perseguire un disegno unitario, tanto che, in alcune occasioni, non ha mancato di pronunciarsi in maniera molto diversa con le decisioni assunte in passato.

Nonostante questo, sempre di più le Pubbliche Amministrazioni hanno riconosciuto nell’affidamento in house uno strumento particolarmente utile per il perseguimento delle loro finalità istituzionali: il massiccio impiego che ne è stato fatto negli ultimi tempi ha tuttavia destato non poche preoccupazioni nel nostro legislatore, che è intervenuto di recente cercando di circoscrivere e limitare il fenomeno, al fine di scongiurare il pericolo di abusi che intrinsecamente questo modello di affidamento porta con sé.

La legge 7 agosto 2015, n. 124, rubricata “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” (la c.d. Riforma Madia della Pubblica Amministrazione) e i suoi decreti attuativi hanno descritto con maggiore chiarezza i connotati di questa modalità di gestione dei servizi pubblici, ponendo una luce particolare sul momento della crisi delle società in house. Il tema, da vari anni al centro della discussione giurisprudenziale e politica, è stato fonte di contrapposizioni e ha generato diversi orientamenti: la molteplicità delle impostazioni deriva dalla difficoltà di individuare una disciplina unitaria applicabile alla estrema eterogeneità degli interessi coinvolti.

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Questo lavoro si propone pertanto di analizzare i caratteri del modello in house providing, soffermandosi sui principali orientamenti legislativi e giurisprudenziali in tema di fallimento ed evidenziando i risvolti pratici che le scelte di volta in volta effettuate hanno prodotto sugli interessi in gioco. La riforma Madia si è espressa in maniera chiara sul problema, dando così inizio ad un rinnovato studio verso la crisi delle società in house.

Per concludere la trattazione, sarà rivolta una specifica attenzione all’istituto dell’esercizio provvisorio, molto impiegato negli ultimi tempi per dare una risposta tempestiva alla crisi della società pubblica. Sarà necessario verificare la compatibilità dell’istituto con l’affidamento diretto, la sua capacità di impedire il dispiegarsi degli effetti negativi che derivano dalla procedura fallimentare per le società pubbliche (primo tra tutti, l’interruzione del servizio) e la possibile risoluzione delle problematiche che deriverebbero dalla sua applicazione.

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CAPITOLO I

Le società in house

1. Le società in house. – 2. La natura delle società in house e rapporto con l’ente affidatario. – 3. I requisiti: il controllo analogo e l’attività prevalente. – 3.1 Il controllo analogo. – 3.2 L’attività prevalente

1. Le società in house

Nel nostro ordinamento l’attività d’impresa può essere esercitata non soltanto dai privati, ma anche dallo Stato e dagli enti pubblici1, i quali possono operare nel settore economico mediante tre diverse modalità: gli enti pubblici economici, le imprese-organo e le società partecipate. In relazione a questa ultima forma di intervento, la partecipazione di uno o più enti pubblici al capitale di una società privata può assumere varie graduazioni, mostrandosi talvolta come partecipazione pubblica di minoranza, di maggioranza o di controllo. È proprio all’interno di quest’ultima fattispecie che si collocano le società in house providing. La società in house è un modello di gestione dei servizi pubblici attraverso il quale uno o più enti pubblici affidano la gestione di servizi pubblici locali ad una società di capitali, a partecipazione interamente pubblica, a condizione che l’ente o gli enti pubblici esercitino sulla

1 Così come previsto dall’art. 41 Cost., che prevede “1. L'iniziativa economica

privata è libera. 2. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 3. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Anche l’art. 43 Cost. si occupa dell’attività di impresa, riconoscendo come “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. Per una analisi delle varie forme di intervento dei pubblici poteri nel settore dell’economia, cfr. G.F. CAMPOBASSO, Manuale di Diritto Commerciale,

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medesima un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti pubblici che la controllano.

Questo modello di gestione è configurato nel nostro ordinamento dall’art. 113, comma 5, del T.U.E.L.2

, per il quale la Pubblica Amministrazione, nel conferimento della gestione di servizi pubblici locali a rilevanza economica, può avvalersi di tre diversi modelli operativi: l’affidamento mediante procedure competitive ad evidenza pubblica a favore di imprenditori o società; l’affidamento in favore di società a partecipazione mista, pubblica e privata (il cd. in house spurio), mediante procedure competitive ad evidenza pubblica; l’affidamento in favore di società a capitale interamente pubblico, partecipate dall’ente locale, in possesso di determinati requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario e nazionale per la gestione “in house providing” senza la predisposizione di procedure ad evidenza pubblica3.

La ratio dell’istituto, identificabile nella possibilità riconosciuta all’ente pubblico — in presenza di particolari requisiti — di affidare la gestione di un servizio pubblico ad un organismo da esso dipendente senza l’espletamento di procedure di gara, ha determinato un grande successo applicativo dell’in house providing, da cui, talvolta, si sono generate delle forme di abuso.

Le Pubbliche Amministrazioni, infatti, hanno guardato a questo modello organizzativo formalmente per procedere ad una “aziendalizzazione dei servizi ed a una privatizzazione effettiva”4

, ma con la consapevolezza di potersi avvalere di questo strumento per eludere la disciplina pubblicistica in materia di procedimenti ad evidenza pubblica e sottrarre dei comparti dell’amministrazione ai

2 Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, decreto legislativo 18

agosto 2000, n. 267.

3F.FIMMANÒ, La responsabilità da abuso del dominio dell’ente pubblico in caso di

insolvenza della società controllata, in Dir. Fall, 2010, 724 ss.

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vincoli di bilancio. In seguito alle riflessioni maturate intorno a tale forma di abuso del modello societario, già l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nella segnalazione del 28 dicembre 2006, n. AS3755, aveva sottolineato la necessità di porre un argine alla distorsione dello strumento operativo, quale l’affidamento in house, originariamente volto a consentire una gestione diretta del servizio pubblico ma che nella prassi era stato impiegato come una modalità di elusione del necessario confronto concorrenziale nell’affidamento dei servizi attraverso le procedure di gara. La tendenza espansiva che ha caratterizzato a lungo questo modello di gestione ha subito un significativo arresto con il decreto c.d. Bersani sulle liberalizzazioni6, che ha cercato di arginare il fenomeno dell’uso distorto del modello societario, e grazie all’art. 23bis della l. 133/20087

, il quale ha riaffermato con vigore la “più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale”, ribadendo che l’affidamento di tali servizi a società concessionarie dovesse avvenire di regola mediante gara pubblica.

In un primo momento, infatti, il Consiglio di Stato aveva delineato un quadro ben composito, sulla base proprio dell’art. 23bis, prevedendo che le procedure ad evidenza pubblica rappresentassero la modalità di gestione del servizio che in via ordinaria la PA doveva adottare e che — invece — il modello in house avrebbe potuto trovare applicazione soltanto in ipotesi eccezionali, derogatorie, nelle quali le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali del contesto di

5 Autorità garante della concorrenza e del mercato, segnalazione n. AS375

“Affidamento di servizi pubblici locali aventi rilevanza economica secondo modalità c.d. in house e ad alcuni contenuti della legge delega in materia di tali servizi” in

Foro.it, 2007, III, 226.

6D.l. n. 223 del 4 luglio 2006, convertito in l. 248/2006.

7di conversione del D. l. n. 112 del 25 giugno 2008, modificato con l’art. 15 del

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riferimento imponevano l’affidamento del servizio ad una società a capitale interamente pubblico.

L’abrogazione referendaria dell’art. 23bis nel giugno 2011 ha modificato questo assetto, tanto che la più recente giurisprudenza ( Tar Veneto, Sezione I, sentenza 25 agosto 2015, n. 9498) sembra non solo affermare la equiordinazione tra le tre modalità di affidamento ma addirittura sembra esprimere un favor per l’affidamento in house9 .

2. La natura delle società in house e rapporto con l’ente affidatario

Non risulta semplice definire la natura della società in house se si muove da una rigida contrapposizione tra la natura privatistica e la natura pubblicistica dell’ente societario. Tale difficoltà si apprezza già nell’individuazione del rapporto che lega la società in house con l’ente concessionario del servizio. Questa relazione, per la quale l’ente pubblico ha la totalità delle partecipazioni della società, è stata esasperata dall’uso distorto del modello dell’in house, che ha portato a definire tale rapporto in termini di delegazione interorganica10 (se non

8Tar Veneto, Sez. I, 25 agosto 2015 n. 949, su www.giustizia-amministrativa.it 9

G. MONTACCINI, Servizi di interesse pubblico generale: la disciplina del loro

affidamento e il modello in house verticale, in Servizi pubblici locali, 2016, 8.

Nella sentenza citata, il Tar afferma infatti che “nel motivare la necessità di indire una pubblica gara per la gestione del servizio rifiuti in questione, unicamente in relazione alla imminente scadenza dell’affidamento di detto servizio in favore di Etra s.p.a., il Comune di Asiago ha, infatti, omesso di svolgere le necessarie considerazioni di natura tecnico-economica, per le quali l’affidamento a mezzo di procedura selettiva sarebbe preferibile a quello in house allo stato in atto, tenuto peraltro conto del fatto che tale società offre in favore delle amministrazioni locali proprietarie della stessa, tra cui il Comune predetto, una gestione dei servizi locali che, in quanto esercitata uniformemente e con le medesime modalità su tutto il territorio di riferimento, risulta essere particolarmente virtuosa al punto di vista economico”.

10La delegazione interorganica è un istituto di matrice pubblicistica, riconducibile

alla cd. esecuzione indiretta, attraverso il quale si realizza il trasferimento da un soggetto all’altro di competenze, funzioni, poteri. Il delegante si spoglia dei suoi poteri a favore del delegato, che a sua volta agisce in nome e per conto del delegante, divenendo direttamente responsabile nei confronti dei terzi degli atti di esecuzione della delegazione. La giurisprudenza ha individuato nella dipendenza amministrativa

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addirittura di subordinazione gerarchica): questo assetto, che certamente non è configurabile nel rapporto privatistico socio-società e che esclude la terzietà tra i soggetti interessati, consente l’applicazione dell’istituto dell’affidamento diretto11

.

Tale impostazione ha portato alla individuazione di un vero e proprio “mostro giuridico”12

: la società in house si presenta come una “longa manus della pubblica amministrazione, al punto che l’affidamento pubblico mediante in house contract neppure consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo; di talchè l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto alla amministrazione controllante ma deve considerarsi uno dei servizi proprio dell’amministrazione stessa” (Cass, sent. n. 26283 del 25 novembre 2013). La società in house dunque, pur mantenendo strutturalmente la forma di società, dipende totalmente dai soggetti pubblici proprietari del capitale. Non vi è terzietà rispetto all’ente pubblico: quest’ultimo, di fatto, si trasforma da ente affidante in una holding che imprime sulla società un potere di indirizzo, programmazione e controllo, esercitando dunque una tipica attività di direzione e coordinamento (secondo il paradigma preso a riferimento dagli artt. 2497 ss. c.c.).

Di fronte a questo quadro così complesso, si sono susseguite molte riflessioni, estremamente eterogenee, circa la natura della società in house ed in genere delle società pubbliche. Si tratta, del resto, di una questione destinata a non rimanere su un piano astrattamente teorico, ma ad avere importanti riflessi sul regime giuridico a cui tali società sono sottoposte. Al riguardo, sembra possibile individuare due

e nella diversa attribuzione di compiti tra amministrazione aggiudicatrice e società pubblica i requisiti necessari per la configurabilità di tale nesso.

11F.FIMMANÒ, L’ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e

natura dell’attività, in Le società pubbliche. Ordinamento, crisi e insolvenza, collana

ricerche di law & economics, Milano, 2011.

12F.FIMMANÒ, La società pubblica, anche se in house, non è un ente pubblico ma

un imprenditore commerciale e quindi è soggetta a fallimento, in Fall., 2013, 10, p.

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contrapposti orientamenti: da un lato, i sostenitori di una visione “pubblicistica”, dall’altro i sostenitori di una visione “privatistica”. Secondo i primi, le società in house non possono essere ricondotte alla sfera del diritto privato, perché assimilabili ad organi indiretti dell’amministrazione, dotati di una natura giuridica pubblica. La partecipazione di un ente pubblico ad una società determina quindi una alterazione della sua struttura, riqualificandola in una società di diritto speciale.

Questa impostazione non convince una parte della dottrina, soprattutto giuscommercialistica, la quale sottolinea che nel nostro ordinamento è possibile parlare di società di diritto speciale soltanto laddove vi sia una disposizione di legge che consenta la costituzione di una società che persegue un fine pubblico, incompatibile con quello lucrativo di cui all’art. 2247 c.c. Nelle società in house, viceversa, si sommano due discipline diverse: da un lato, quella pubblicistica, che concerne il profilo strutturale; dall’altra, quella privatistica, che riguarda invece il profilo funzionale. In altre parole, ad essere “pubblico”, sostiene questa dottrina, è l’ente partecipante, non il soggetto partecipato. Rilevante a tal proposito appare una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 22209/2013, nella quale la Corte, delineando i connotati delle società pubbliche, ricorda che nessuna società perde la sua natura di soggetto privato solo perché il capitale è tutto o in parte in mano di un ente pubblico. Richiamandosi all’art. 4 della legge n. 70/ 75, la Corte ribadisce che nessun nuovo ente pubblico possa esser istituito se non per legge. La qualità di ente pubblico non può che derivare o da una disposizione legislativa che qualifica espressamente un soggetto come ente pubblico oppure da un quadro normativo chiaro, da cui si può desumere l’attribuzione di tale titolo. L’eventuale divergenza causale che potrebbe presentarsi rispetto allo scopo lucrativo non sembra sufficiente ad escludere che la natura e le regole organizzative della società rimangano quelle di una società di capitali.

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La Corte è infatti consapevole che per alcune società in house potrebbe essere difficile ravvisare quella attività economica a scopo di lucro che l’art. 2247 c.c. indica come elemento della società di capitali. Tuttavia, l’assenza dello scopo lucrativo non è sufficiente ad escludere la natura di società di capitali, se quello è stato il modello prescelto. I giudici di legittimità hanno inoltre aggiunto che “il modello societario è andato negli anni assumendo connotati sempre più elastici, sostanzialmente svincolandosi dalla tradizionale alternativa fra causa di lucro e causa mutualistica”. In altre parole, la Corte segue un indirizzo chiaro: non è il tipo di attività esercitata dalla società a determinare l’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, quanto la natura del soggetto13.

3. I requisiti: il controllo analogo e attività prevalente

Si è soliti ricondurre la nascita del modello di “società in house providing” ad una celebre sentenza della Corte di Giustizia Europea, considerata il leading case della materia: si tratta della sentenza Teckal, nella quale la Corte ha descritto le caratteristiche fondamentali del modello14.

In realtà, l’espressione “in house providing” non nasce con questa pronuncia: era stata utilizzata per la prima volta nel Libro Bianco della Commissione Europea nel 1998, con riferimento al settore degli appalti pubblici, ma solo con la sentenza Teckal viene impiegata per definire i requisiti in presenza dei quali si giustifica la deroga al principio della libera concorrenza tramite la non applicazione dell’obbligo di gara.

13F.FIMMANÒ, Il fallimento delle società pubbliche, su www.ilcaso.it

14Corte di Giustizia CE, Sez. V, sentenza Teckal del 18 novembre 1999, causa

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Nel caso di specie, il Comune di Viano (RE) aveva affidato al consorzio AGAC, mediante una delibera del consiglio e senza alcuna procedura di gara, l’attività di gestione e manutenzione degli impianti termici degli edifici comunali. Di fronte al Tar Emila Romagna, la Teckal (impresa privata che operava nel settore dei servizi di riscaldamento) aveva dunque impugnato la delibera del comune contestando il mancato esperimento della gara pubblica e la conseguente violazione della disciplina sugli appalti pubblici. La Corte di Giustizia, interpellata dal Tar Emilia Romagna in via pregiudiziale per l’individuazione della Direttiva comunitaria da applicare al caso di specie, crea di fatto l’istituto dell’in house providing15.

La Corte esclude l’applicabilità delle norme sull’individuazione concorrenziale del concessionario del servizio qualora “l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui proprio servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”.

Per parlare dunque di società in house, è necessario che ricorrano due requisiti, oltre alla totale partecipazione pubblica: il controllo analogo e che la società realizzi la parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti che la controllano.

La sentenza tuttavia, non si spinge oltre una formale individuazione dei requisiti necessari per l’in house providing, non occupandosi degli indici necessari per l’interpretazione delle fattispecie di “controllo analogo” e di “attività prevalente”. Appare allora necessario confrontarsi con la giurisprudenza, in particolare comunitaria, per dare contenuto a requisiti che altrimenti rischierebbero di rimanere figure vuote.

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18 3.1 Il controllo analogo

Con l’espressione “controllo analogo” si allude alla circostanza in cui l’ente locale eserciti sulla società un controllo analogo a quello che esercita sui proprio servizi: si tratta di un concetto molto generico che richiede una più approfondita riflessione e specificazione.

Ai fini dell’integrazione del requisito, appare essenziale effettuare questa verifica caso per caso, tenendo conto delle particolarità della struttura organizzativa di ogni singola società e dei suoi rapporti con l’ente locale affidante.

Secondo una parte della dottrina 16, gli ordinari poteri di controllo che la disciplina civilistica attribuisce ai soci partecipanti non sono sufficienti per la configurazione di un controllo analogo: la società per azioni, per sua natura, impedisce un controllo invasivo del socio sulla amministrazione della società e l’assemblea è impossibilitata ad occuparsi di scelte gestorie. In particolare, l’art. 2380bis c.c., attribuendo in forma inderogabile la competenza gestoria della società all’organo amministrativo e non all’assemblea dei soci, pone un problema di compatibilità tra l’istituto del controllo analogo e la competenza esclusiva dell’organo amministrativo nella gestione della s.p.a. Ecco quindi che per configurare il controllo analogo delineato dalla Corte, viene richiesto qualcosa in più rispetto agli strumenti offerti dal diritto societario: sarà un contratto, un patto parasociale, una clausola statutaria a definire i connotati del contratto analogo. La sede per l’esercizio del controllo analogo, dunque, è il contratto di affidamento del servizio17, con il quale l’ente locale può imporre alla società condizioni, termini e modalità di gestione del servizio attraverso le quali si esprimerà il controllo analogo.

16F.FIMMANÒ, L’ordinamento delle società pubbliche tra natura del soggetto e

natura dell’attività, in Le società pubbliche, ordinamento crisi e insolvenza, collana

ricerche di law & economics, Milano, 2011.

17F.FIMMANÒ, La responsabilità da abuso del dominio dell’ente pubblico in caso di

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Secondo questa impostazione, il primo requisito individuato dalla Corte di Giustizia si può manifestare solo attraverso un controllo esterno, mentre non sarebbe configurabile un controllo interno, ovvero tramite la struttura societaria: la riforma del diritto delle società ha accentuato questa caratteristica impedendo ai soci e all’assemblea qualsiasi forma di “intrusione” nell’attività gestoria. Il socio infatti non può controllare la gestione, ma può soltanto esercitare il suo diritto di voto, di impugnativa delle delibere, e, in caso di partecipazione qualificata, può chiedere la convocazione dell’assemblea e denunciare delle eventuali irregolarità al collegio sindacale o al tribunale. Viceversa, il c.d. controllo interno sarebbe configurabile solo nella società a responsabilità limitata, laddove è ammissibile che i soci abbiano un maggiore potere di intervento in ambito gestorio18.

Il controllo analogo si esprime quindi all’interno di un rapporto «che determina, da parte dell’amministrazione controllante, un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo »19 . La ratio di questo potere di ingerenza da parte dell’ente pubblico affidante sarebbe ravvisabile nella volontà di quest’ultimo di operare un controllo non tanto sulla società, quanto piuttosto sul servizio pubblico da essa erogato, in modo da assicurare determinati standard quantitativi e di definire le condizioni a cui dovrebbe essere erogato20.

18 Nella società a responsabilità limitata è ammissibile un controllo invasivo e

asimmetrico. Si pensi all’art. 2497, comma 1 c.c., il quale sancisce che “I soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall'atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione” ma anche all’art. 2476, comma 7 c.c. “Sono altresì solidalmente responsabili con gli amministratori, ai sensi dei precedenti commi, i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi”.

19così si è espressa la Commissione Europea con nota del 26 giugno 2002, diretta al

Governo italiano per sollecitare ulteriori modificazioni dell’art. 113 TUEL, come sostituito dall’art. 35, comma 1, della legge 488/2001.

20I. DEMURO, La compatibilità del diritto societario con il c.d. modello in house

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Non sono mancati pareri discordanti che hanno criticato questa visione restrittiva. Da un lato, si è proposto di fare riferimento all’art. 2364 comma 1 c.c. per ritenere integrato il requisito del controllo analogo, prevedendo, mediante clausola statutaria, l’attribuzione di poteri autorizzatori all’assemblea dei soci in merito alle scelte di gestione della società, che rimarrebbero comunque in capo all’organo amministrativo. Tale soluzione, tuttavia, appare poco convincente perché non solo svuoterebbe di contenuto l’art. 2380 bis c.c. ma anche perché rischierebbe di paralizzare l’attività della società stessa laddove l’assemblea dovesse autorizzare ogni singolo atto di gestione, con l’effetto ulteriore di non superare realmente l’autonomia dell’organo amministrativo, poiché mancherebbe in ogni caso un potere gerarchico riconosciuto nelle mani del socio. Dall’altro lato, si è parlato di un “controllo contrattuale interno” che si esprime nell’attribuzione di poteri gestori al socio pubblico mediante patto parasociale, anche se si discute della capacità di questo tipo di strumento di conferire realmente una influenza dominante del socio pubblico sulla controllata. Secondo un’altra tesi21

, i principi comunitari in tema di in house providing creerebbero una forma di “statuto speciale” che non deve necessariamente allinearsi alle norme interne di diritto societario: si determina così legittimamente una deroga alla disciplina comune societaria per dar spazio nella società in house ad un più forte potere gestorio in mano al socio pubblico, sottraendolo così all’organo amministrativo.

Alla luce di queste diverse visioni, la giurisprudenza, soprattutto amministrativa, ha definito per lo più in negativo i caratteri del controllo analogo, individuando i casi in cui esso dovrebbe essere escluso22: in primo luogo, il giudice amministrativo ha escluso la

21F.GUERRA, Il controllo analogo, in Giur. Comm., 2011, I, p.790.

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V.PARISIO, Servizi pubblici, giudice amministrativo e in house providing, in Dir. e

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configurabilità di un affidamento in house laddove agli amministratori della società siano attribuiti dei poteri gestori tali da impedire all’ente affidante di esercitare i poteri rivolti alla definizione della politica di prezzi, dell’offerta, delle strategie di mercato. Per configurare il controllo analogo è cioè necessario che l’ente pubblico controllante sia in grado di esercitare una influenza dominante sulla società controllata: se invece la volontà dell’ente locale è destinata ad essere filtrata dagli organi sociali (in particolar modo dall’organo amministrativo), la società perde la sua natura di longa manus dell’ente controllante, di mero strumento di autoproduzione, assumendo i connotati di impresa rivolta al mercato. Il che, in definitiva, rende illegittimo l’affidamento senza gara.

È stata la Corte di Giustizia CE nella sentenza Parking Brixen23 a richiedere per la prima volta “l’influenza dominante” ai fini del riconoscimento del controllo analogo, escludendo la configurabilità dell’affidamento in house laddove lo statuto attribuisca al consiglio di amministrazione potere sostanzialmente illimitati. È necessario dunque che l’ente partecipante sia in grado di esprimere una “influenza dominante” sulle scelte strategiche della controllata, senza che la sua volontà sia mediata dall’organo amministrativo.

Il controllo a cui allude la Corte non deve però essere confuso con il concetto di “influenza determinante” delle concentrazioni. In questo ambito infatti si parla di influenza determinante, e non dominante, perché essa si riverbera sulla strategia industriale della società la cui partecipazione è stata acquisita. Ai fini dell’influenza determinante, infatti, non rileva il controllo sulle scelte gestorie che un socio è in

23Corte di Giustizia CE, Sez. I, 13 ottobre 2005, causa C- 458/03 Parking Brixen

GmbH, in www.curia.europa.eu. Nel caso di specie, si contestava l’illegittimità dell’affidamento da parte del comune di Bressanone del servizio di gestione dei parcheggi comunali, avvenuto senza gara, in favore di una azienda speciale dell’ente poi trasformata in s.p.a. Questa società aveva un capitale interamente pubblico, ma non veniva messa in dubbio la sua vocazione commerciale, anche alla luce degli spiccati poteri che venivano attribuiti al consiglio di amministrazione. Tali poteri escludono, a giudizio della Corte, il controllo analogo: l’affidamento viene pertanto considerato illegittimo perché avvenuto senza l’espletamento della gara.

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grado di imprimere sulla società, quanto piuttosto quello sulle scelte che possono rilevare a fine concorrenziale

In secondo luogo, si è ritenuto non configurabile il controllo analogo anche laddove l’oggetto sociale della società affidataria si presenti particolarmente ampio, tale da ricomprendere ulteriori attività rispetto a quelle strettamente attinenti all’ambito di azione dell’ente affidante, soprattutto se esse fossero da esercitare non solo a livello nazionale ma anche internazionale.

Infine, il giudice amministrativo, sulla scia della giurisprudenza della Corte di Giustizia CE24, ha escluso la sussistenza di un affidamento in house nei casi in cui il capitale della società sia partecipato oltreché da uno o da più enti locali, anche da altri soggetti privati. La Corte ha sottolineato che gli interessi perseguiti dal socio pubblico e privato sono tra loro contrastanti e tali da impedire la configurazione del controllo analogo. Accanto a tale considerazione, ve ne è un’altra più strettamente legata alle logiche concorrenziali: l’affidamento diretto del servizio ad una società mista senza l’esperimento della gara pubblica determinerebbe una ingiustificata violazione della libera concorrenza, attribuendo al socio privato un ingiusto vantaggio rispetto ai concorrenti. Si configura così un ulteriore requisito richiesto per le società in house: la totale partecipazione pubblica.

Ne consegue la necessità che il capitale rimanga interamente pubblico per tutta la durata dell’affidamento diretto. La Corte di Giustizia ha sancito questo principio in una importante pronuncia nel 2005, sul c.d. caso Modling25, nella quale ha affermato che per garantire una

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Corte di Giustizia CE, 11 gennaio 2005, C- 26/03 sentenza Standt Halle, in

www.dirittodeiservizipubblici.it. La necessità di un capitale interamente pubblico ai

fini dell’integrazione del “controllo analogo” viene affermata per la prima volta in questa sentenza. La pronuncia trae origine dall’affidamento del servizio di trattamento dei rifiuti, avvenuto senza gara, da parte del comune di Halle (Germania) ad una società a capitale pubblico- privato, con una netta prevalenza della componente pubblica. La Corte ha affermato in tale occasione che la sola presenza del capitale privato è tale da escludere il requisito del controllo analogo.

25Corte di Giustizia CE, Sez. I, 10 novembre 2005, C- 29/04, sentenza Modling, in

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effettiva tutela della concorrenza per il mercato è necessario che la società affidataria presenti un capitale totalmente pubblico non soltanto alla data dell’affidamento, ma anche in ogni momento successivo. In caso contrario, risulterebbe molto facile aggirare il divieto di affidamento diretto a società miste semplicemente cedendo a nuovi soci privati una parte del capitale dopo la delibera di affidamento. A seguito di questa sentenza, rimaneva però un problema aperto: la Corte non aveva specificato se potesse o meno configurarsi il requisito del controllo analogo di fronte ad una clausola statutaria che potenzialmente consentiva la cessione di parte del capitale a soci privati, alla quale però non fosse data effettiva attuazione26.

In un primo momento la giurisprudenza nazionale aveva negato la sussistenza del controllo analogo nei casi in cui lo statuto offriva la possibilità di apertura del capitale agli interventi dei privati27 , presentando dunque una lettura molto rigorosa e restrittiva del requisito. La Corte di Giustizia, pronunciandosi sul caso ASI S.p.a. 28, ha cambiato rotta, sostenendo che solo in caso di una partecipazione privata effettiva al capitale (concreta alienazione del capitale al privato e non meramente potenziale) il requisito del controllo analogo debba esser escluso. Solo in questo caso, afferma la Corte, si produce un reale problema di violazione del principio della concorrenza per il mercato.

diretto del servizio di smaltimento dei rifiuti della città di Modling (Austria) ad una società il cui capitale, inizialmente totalmente pubblico,era poi stato ceduto in parte a privati.

26 F. G

UERRA, Il controllo analogo, in Giur. Comm., 2011, I, p. 784.

27 Cfr. Cons. Stato, sez. V, 30 agosto 2006, n. 5072, in cui il Consiglio di Stato ha

negato l’esistenza del controllo analogo in una società il cui capitale era interamente pubblico, ma il cui statuto consentiva che una quota di tale capitale, anche se minoritaria, potesse esser ceduta a terzi. Cfr. anche CdS, Adunanza Plenaria, 3 marzo 2008, n. 1, in cui si è affermato che “lo statuto della società non deve consentire che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa esser alienata a soggetti privati”.

28 Corte di Giustizia CE, Sez. II, 17 luglio 2008, C- 371-05, in Giur. Comm., 2009, II,

p. 5 e ss. Nel caso di specie, la Corte ha riconosciuto la legittimità dell’affidamento diretto di servizi informatici dal comune di Mantova ad una società con capitale interamente pubblico, il cui statuto consentiva però la partecipazione di soci privati.

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La ricerca giurisprudenziale più recente ha individuato un peculiare tipo di controllo analogo: il controllo analogo congiunto (o frantumato). Questo si configura ogni volta in cui il capitale sociale interamente pubblico risulti suddiviso tra una pluralità di enti pubblici controllanti. Si tratta di un istituto di matrice giurisprudenziale costruito al fine di consentire anche agli enti locali più piccoli, che da soli non sarebbero in grado di costituire e detenere una società a cui affidare il servizio a causa dei vincoli di bilancio, di partecipare insieme ad altri enti locali più grandi all’affidamento in house evitando l’esternalizzazione29

. Nella visione della Corte di Giustizia, suggellata da varie pronunce30, il controllo analogo dovrebbe essere qui configurato non in relazione all’entità della partecipazione del socio pubblico, ma verificando la possibilità che anche il socio di minoranza sia in grado di esprimere una influenza effettiva, valutando il peso decisionale che quel socio può avere nelle scelte strategiche della società.

3.2 L’attività prevalente

L’altro requisito che la sentenza Teckal individua per la configurabilità della società in house, oltre al controllo analogo, è che la società

29 F.G

UERRA, Il controllo analogo, in Giur. Comm, 2011, I, p. 792.

30 Fra tutte, ricordiamo la sentenza cd. Tragsa, Corte di Giustizia CE, Sez. II, 19

aprile 2007 C-295/05, in Urbanistica e appalti, 2007, p. 1479, nella quale si contestavano una serie di incarichi che l’amministrazione spagnola aveva affidato alla società Tragsa senza l’espletamento della gara. La Corte, per verificare che si trattasse di una società in house, rileva che il capitale apparteneva al 99% allo Stato spagnolo, e il restante 1 % ad altri quattro enti pubblici. Rispetto a questi enti, non si può escludere la sussistenza del controllo analogo solo in considerazione dell’entità della quota da essi trattenuta, ma è necessaria una analisi del complesso dei poteri che la legge spagnola affida a questi soci di minoranza sulle decisioni strategiche della società.

Sul punto, anche la sentenza cd. Brutèlè, Corte di Giustizia, Sez. III, 13 novembre 2008, C-324/07 in www.curia.europa.eu, nella quale la Corte afferma che un ente, come socio di minoranza, può esercitare un controllo analogo sulla società anche se detiene una quota irrisoria, poiché la sussistenza del requisito deve esser valutata tenendo in considerazione il peso decisionale che ogni socio ha sulle scelte strategiche della società.

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realizzi la parte prevalente della propria attività con l’ente controllante. La Corte di Giustizia ha ribadito che l’attività della società debba esser rivolta, sostanzialmente in via esclusiva, all’ente concessionario del servizio: nel caso in cui vi siano più enti locali affidatari, l’attività da considerare è quella realizzata dalla società con tutti gli enti locali titolari del capitale31. Si ritiene tuttavia che la società in house possa esercitare anche altre attività sul mercato, a condizione che siano complementari a quelle svolte in house e che il volume d’affari da esse prodotto sia marginale rispetto a quello prodotto con gli enti affidatari. La verifica di questo requisito deve riguardare l’insieme di tutte le attività svolte dall’ente, appurando quale sia la percentuale di quelle svolte per l’ente concessionario. Tale analisi si concentra sulle attività effettivamente compiute dalla società, non tenendo conto di quelle che lo statuto astrattamente riterrebbe ammissibili.

L’esigenza di fondo che è possibile apprezzare dall’individuazione di questo secondo requisito è quella di garantire la tutela del libero gioco della concorrenza. Un utilizzo eccessivamente esteso dello strumento dell’in house providing rischia infatti di mettere in pericolo la concorrenza effettiva nel settore degli appalti pubblici, che dovrebbe essere caratterizzato da una correttezza nelle procedure tale da garantire l’effettiva concorrenza degli interessati. Ciò rende necessario che ogni altra attività diversa da quella principale, svolta dalla società affidataria, debba esser considerata marginale. La Corte di Giustizia ha inoltre avuto modo di sottolineare come questo requisito sia in grado di esprimersi pienamente solo nel caso in cui l’impresa eserciti la propria attività nel territorio del soggetto pubblico: l’eventuale extra-

31 Caso Carbotermo, sentenza Corte di Giustizia CE, Sez. I, 11 maggio 2006,

C-340/04, in www.eur-lex.europa.eu.it. Nel caso di specie, il comune di Busto Arsizio aveva affidato, senza previa gara, il servizio di fornitura di combustibile e di riscaldamento degli edifici comunali alla Agesp, una s.p.a. controllata dal comune mediante una holding. La Corte ha escluso la sussistenza del controllo analogo poiché lo statuto della società affidataria prevedeva l’attribuzione di ampi poteri gestori al consiglio di amministrazione

(26)

26

territorialità non rappresenterebbe tuttavia un discrimine al riconoscimento dell’attività prevalente e del controllo analogo.

In seguito ad alcuni contrasti giurisprudenziali sull’esatta definizione dei parametri necessari ad integrare il requisito, le Direttive del 201432 richiedono che almeno l’80% delle attività svolte dalla società (da considerare come fatturato medio o un’idonea misura alternativa basata sull’attività, come i costi sostenuti dalla società in materia di servizi o forniture per i tre anni precedenti alla concessione del servizio) sia riferibile all’ente controllante affinchè si possa parlare di attività prevalente.

32Art. 12 della Direttiva appalti n. 2014/24/EU, art. 28 della Direttiva settori speciali

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27

CAPITOLO II

Il fallimento

1. Il fallimento delle società in house. – 2. La non fallibilità. – 2.1 L’approccio tipologico – sostanzialistico. – 2.2 L’approccio funzionale. – 3. La fallibilità: l’approccio privatistico. – 4 Le risposte della Corte di Cassazione: le sentenze n. 22209 del 2013 e n. 26283 del 2013. – 5. Conclusioni sulla fallibilità. – 6. Le novità della riforma Madia.

1. Il fallimento delle società in house

Il punto di partenza nell’analisi del tema del fallimento delle società in house è rappresentato dalle riflessioni giurisprudenziali e dottrinali in merito alla natura delle stesse e dalle scelte legislative compiute, in primis, dal codice civile.

Le norme del codice riconducono le società pubbliche alla disciplina delle società di diritto comune, prevedendo l’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale anche agli enti pubblici, come ricorda l’art. 2201 cc. “Gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale sono soggetti all'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese”: gli enti pubblici rimangono tuttavia esclusi dal fallimento e dal concordato preventivo, salvo le disposizioni di leggi speciali (art. 2221 cc).

La Relazione al codice civile riconosce inoltre che “in questi casi è lo Stato che si assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici. La disciplina comune della società per azioni deve applicarsi anche alle società con partecipazioni dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano diversamente”.

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La dottrina, inizialmente, era concorde nel ritenere che l’esenzione dal fallimento prevista nell’art. 1 l. fall. e dall’art. 2221 c.c. fosse ricollegata alla natura del soggetto — appunto l’ente pubblico — e che dunque non dovesse operare con riguardo alla società in mano pubblica33.

Questo sistema si è scontrato con un uso estremamente consistente dello strumento delle società pubbliche, iniziato intorno agli anni ’80-’90, e che prosegue tutt’ora, improntato all’ottenimento di una “sacca di privilegio”, costituita dalla deroga ai principi di concorrenza tra le imprese e trasparenza. Tuttavia, anche in sede di modifica del codice civile e della legge fallimentare, il legislatore non ha cambiato le sue scelte di fondo, esprimendosi sempre a favore della riconducibilità delle società in mano pubblica nell’alveo delle società di diritto comune, e non già nell’ambito pubblicistico: in altre parole, il legislatore non ha qualificato le società partecipate dall’ente pubblico in termini di società di diritto speciale, ma le ha equiparate a quelle partecipate esclusivamente da persone fisiche o giuridiche. Il codice civile dedica d’altronde poche norme a queste società e nessuna di esse è in grado di costituire un “tipo” a se stante.

Il problema del fallimento delle società in house diventa oggi uno dei temi più caldi e controversi, sul quale dottrina e giurisprudenza si sono trovate spesso ad interrogarsi. I contrasti che si sono accesi su questo nodo così spinoso derivano per lo più da una diversa lettura che i giuristi hanno dato al tema, talvolta proponendo un approccio pubblicistico, che esclude l’assoggettabilità al fallimento e alle procedure concorsuali per questo tipo di società, talaltra proponendo una visione strettamente civilistica favorevole alla sottoposizione delle società in house al fallimento.

33Cfr. L.SALVATO, I requisiti di ammissione delle società pubbliche alle procedure

concorsuali, in F.FIMMANÒ, Le società pubbliche. Ordinamento crisi ed insolvenza, collana di ricerche di law & economics, Milano, 2011.

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29

Entrambe le visioni possono essere supportate da altrettante pronunce giurisprudenziali tra loro in evidente conflitto, che hanno prestato il fianco ai due diversi orientamenti. Questa controversia nasce intorno alla diversa interpretazione che viene proposta dell’art. 1 l. fall., che recita nel primo comma “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”, e dell’art. 2221 cc. “Gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli

enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti, in caso di

insolvenza alle procedure del fallimento e del concordato preventivo, salve le disposizioni delle leggi speciali”: entrambe le norme esonerano dal fallimento e dal concordato preventivo gli enti pubblici. La ratio delle due disposizioni è individuabile nella incompatibilità tra gli effetti della procedura fallimentare e le finalità tipiche dell’attività dell’ente pubblico, nonché nella necessità di evitare una ingerenza dell’autorità giudiziaria negli spazi riservati all’autorità amministrativa e nell’evitare l’interruzione del servizio pubblico erogato dall’ente. Secondo alcuni autori, queste norme potrebbero esser lette estensivamente, ricomprendendo anche le società pubbliche tra i soggetti esclusi dal fallimento; altri invece sostengono la necessaria applicazione della disciplina fallimentare anche alle società pubbliche, al pari di qualsiasi altra impresa privata34. La contrapposizione tra questi due orientamenti viene rinvigorita sia dai recenti sviluppi della giurisprudenza italiana, che dal 2009 ha in più occasioni sostenuto la tesi della non fallibilità della società in house a partire dalla sentenza che viene considerata il “leading case” in materia, la decisione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 9 gennaio 2009, sia sul

34 F.VESSIA, Società in house providing e procedure concorsuali, in Dir. Fall., 2015,

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30

fronte comunitario dove le direttive del 2014 sugli appalti e sulle concessioni35 hanno ridisegnato completamente la fattispecie.

Diventa necessario dunque un’analisi preliminare delle diverse posizioni dottrinali e delle scelte giurisprudenziali prima di approdare allo studio dei risultati conseguiti dalla riforma Madia del 2015.

2. La non fallibilità

La ratio dell’esenzione dal fallimento per gli enti pubblici prevista dall’art. 1 l. fall. e dall’art. 2221 c.c. deriva dalla incompatibilità delle finalità pubblicistiche che l’ente pubblico persegue e la procedura fallimentare. Sul punto, per quanto riguarda le società in house, i quesiti con i quali è stato necessario confrontarsi si esprimono attraverso un duplice profilo: se anche esse possono godere dell’esclusione dal fallimento in quanto –sostanzialmente− enti pubblici (e dunque riconducibili pienamente nell’alveo di applicazione dell’art. 1 l. fall. e dell’art. 2221 c.c.) e se, attraverso di esse, si realizzino degli interessi pubblici meritevoli di una tutela tale da rendere del tutto incompatibile il loro operare con la disciplina fallimentare.

A queste domande, l’orientamento tipologico-sostanzialistico e l’approccio funzionale hanno dato due risposte, le quali, pur partendo da diverse impostazioni e pur individuando argomentazioni diverse le une dalle altre, giungono ad un medesimo risultato: quello dell’esclusione delle società pubbliche e delle società in house in particolare dal fallimento.

35Dir. 2014/24/UE sugli appalti pubblici generali, la Dir. 2014/25/UE sugli appalti

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2.1 L’approccio tipologico-sostanzialistico

L’approccio tipologico-sostanzialistico origina da una pronuncia del 1938 del Consiglio di Stato, il cd. caso Agip36, in cui per la prima volta il giudice amministrativo delineò la differenza tra la forma privatistico-societaria e la sostanza pubblicistica delle società pubbliche, sostenendo la prevalenza della sostanza sulla forma.

L’orientamento tipologico, che passa attraverso la visione del rapporto tra ente affidatario e società in house in termini di delegazione interorganica, in cui l’ente esprime sulla società gli stessi poteri che eserciterebbe su un proprio organo o ufficio, affonda le proprie radici nella volontà di far prevalere la sostanza pubblica della società sulla forma, al fine di arginare la svalutazione dell’interesse pubblico provocato dalle visioni privatistiche: ciò ha portato ad attribuire alle società completamente o in prevalenza partecipate dallo Stato o dagli enti pubblici una “co-qualificazione” di ente pubblico, se non una vera e propria “riqualificazione” in termini strettamente pubblicistici. Anche il Consiglio di Stato ha aderito in più occasioni a questo orientamento, affermando che la veste esterna di S.p.a. non è sufficiente a qualificare come “privata” una società, laddove questa si contraddistingua per essere affidataria di attività dirette alla cura di interessi pubblici o possa essere qualificata come “speciale”37

. Questo è stato possibile alla luce di una interpretazione estensiva e aperta della nozione di “ente pubblico”, sul presupposto, peraltro, della non vincolatività delle qualificazioni legislative38.

36 Cons. St., 19 gennaio 1938, in Foro it. 1938, III (Caso Agip), con nota di D.D

E

CAPRARIIS, Ancora sulla distinzione tra enti pubblici ed enti privati.

37

Cons. Stato, sez. IV, 21 luglio 2005, n. 3914, in Cons. St., 2005, I, 1234 e Cons. Stato, sez. per atti normativi, 16 marzo 2009, n. 752/09, in Foro amm.-Cons. Stato, 2009, 869.

38 Cfr. F.V

ESSIA, Le società in house providing e procedure concorsuali, in Dir.

Fall., 2015, 2, p. 171. Il più grande esponente della teoria della non vincolatività

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32

Una visione siffatta ha trovato talvolta riscontro nella giurisprudenza comunitaria, in particolare con riferimento alla nozione di “organismo di diritto pubblico”39, nata al fine di definire i soggetti destinatari della normativa sugli appalti. Su questo punto si annidano però non poche contraddizioni.

I giudici amministrativi hanno spesso fatto ricorso ad un uso “atecnico” di questa espressione: si è assistito ad una strumentalizzazione da parte della dottrina e della giurisprudenza dell’espressione “organismo di diritto pubblico” al fine di ottenere e giustificare una estensione della disciplina pubblicistica anche a soggetti non propriamente “pubblici”, ricomprendendoli in questa sorta di “super-categoria”, quando in realtà tale espressione non ha nessun’altra pretesa se non quella di individuare le figure rilevanti ai fini dell’applicazione della disciplina sugli appalti.

Tuttavia, è ben diverso parlare della figura dell’imprenditore commerciale (che resta sempre assoggettato al relativo statuto), e della sua qualificazione di “organismo di diritto pubblico”, predisposta per applicare le disposizioni che regolano uno specifico segmento della sua attività. La Cassazione40 infatti ha avuto modo di ribadire che la qualificazione di una società come “organismo di diritto pubblico”

39La nozione di organismo di diritto pubblico attualmente prevista dall’art. 3, comma

1, lettera d, del d.lgs. n. 50 del 2016, in recepimento dell’art. 2, par. 1, n. 4 della direttiva 2014/24/UE, dell’art. 3 par. 4 della direttiva 2014/25/UE, nonché dell’art. 6, par. 4 della direttiva 2014/23/UE, ricalca pedissequamente la definizione già delineata dalle direttive 2004/17/CE, 2004/18/CE e recepita, nel nostro ordinamento giuridico dall’art. 3, comma 26, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163.

L’art. 3 comma 1 lettera d, prevede la definizione di organismo di diritto pubblico come “qualsiasi organismo, anche in forma societaria, il cui elenco non tassativo è contenuto nell'allegato IV: 1) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; 2) dotato di personalità giuridica; 3) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d'amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico”.

(33)

33

rileva soltanto nei settori indicati dalla normativa comunitaria in materia di aggiudicazione di appalti ad evidenza pubblica.

I sostenitori dell’approccio tipologico-sostanzialistico hanno affermato la loro visione di “riqualificazione o coqualificazione” della società pubblica in ente pubblico anche in relazione al momento della crisi di tali società. Essi infatti escludono l’applicabilità del fallimento e del concordato preventivo alla società pubblica ed, in particolare, alla società in house , sulla base della equiparazione tra tali tipi di società e gli enti pubblici, ritenendole assoggettabili alla eccezione prevista per questi ultimi dall’art. 1 l. fall. Alla luce della costante “erosione” dei caratteri privatistici delle società pubbliche che si è prodotta negli ultimi anni, in favore di una loro progressiva pubblicizzazione, l’assoggettabilità al fallimento, giustificata esclusivamente sulla base della loro natura privata apparirebbe così una “battaglia di retroguardia”41.

Tra le prime sentenze che hanno seguito questo orientamento, spicca la decisione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 9 gennaio 200942. In questa pronuncia, il Tribunale esclude l’assoggettabilità a fallimento di una società per azioni a totale partecipazione pubblica (nella specie, titolare del servizio di raccolta rifiuti in ambito provinciale) «in ragione della sua natura pubblicistica», richiamandosi alla «evoluzione giurisprudenziale che ha portato alla valorizzazione degli aspetti sostanziali e dell’attività di tali società a discapito degli aspetti formali e della veste giuridica assunta dalle

41 Cfr. G. D’A

TTORRE, Società in mano pubblica e fallimento: una terza via è

possibile, in Fall., 2010, 6, p. 689 e ss., il quale afferma che “Dire che, malgrado la

presenza di un socio pubblico e di altri caratteri derogatori rispetto al modello del diritto comune, la società in mano pubblica totalitariamente controllata rimane pur sempre un soggetto privato, parificato in tutto e per tutto agli altri soggetti di diritto privato, significa intendere la materia concorsuale come una monade, nella quale dette società vivono una esistenza loro propria, avulse da ciò che per le stesse è previsto in tutti gli altri settori dell’ordinamento”.

42 Tribunale di S.M. Capua Vetere, decreto 9 gennaio 2009, in Fall. 2009, 6, p. 713 e

(34)

34

stesse». La pronuncia del Tribunale affonda le proprie radici su vari argomenti richiamati dalla giurisprudenza precedente43 al fine di affermare la natura pubblica della società in questione, valorizzandone alcuni profili. Tale società era il frutto di una trasformazione di preesistenti consorzi di gestione dei servizi locali e il capitale sociale era totalmente pubblico; inoltre, vi erano delle limitazioni previste dallo statuto all’autonomia funzionale degli organi societari, all’esercizio dei diritti dell’azionista e dell’attività della società. Infine, la società era stata commissariata prima di essere sciolta per legge, e aveva ricevuto dei finanziamenti per raggiungere gli obiettivi previsti per la raccolta differenziata, a seguito dell’ordinanza del Commissario delegato per l’emergenza dei rifiuti in Campania.

Il Tribunale riconosce pertanto che, al ricorrere di determinate condizioni, individuate nella limitazione all’autonomia gestionale degli amministratori, nel capitale sociale interamente pubblico, nell’ingerenza di organi costituenti espressione dello Stato nella nomina degli amministratori, nell’erogazione da parte dello Stato di finanziamenti per il perseguimento delle finalità pubblicistiche, debba essere affermata la natura pubblica della società. Gli indici rilevatori della natura “pubblicistica” della società vengono sostanzialmente ricondotti a due profili: un primo aspetto, quello gestionale, ed un secondo, quello delle attività.

Questa impostazione sistematica viene confermata anche in una successiva pronuncia del Tribunale44, nella quale i giudici dichiarano tuttavia l’insolvenza di una società in mano pubblica che gestiva il

43 Il Tribunale presenta l’elenco degli argomenti posti a fondamento della sua

decisione: a) art. 1 del d.lgs. 30 marzo 2001, n 165; b) la sentenza della Corte Costituzionale n. 466/1993 sui presupposti del controllo della Corte dei Conti sulle società per azioni, a totale o prevalente partecipazione pubblica, derivanti dalla trasformazione dei preesistenti enti pubblici economici; c) la nozione di “impresa pubblica di derivazione comunitaria”; d) la giurisprudenza del Consiglio di Stato sulla irrilevanza della veste formale della società.

44Trib. Santa Maria Capua Vetere, Sez. III civ., 22 luglio 2009, in Fall., 2010, 6, p.

689, con nota di G.D’ATTORRE, Società in mano pubblica e fallimento: una terza via

(35)

35

servizio pubblico di trasporto nella provincia di Caserta. La decisione sulla applicabilità della disciplina concorsuale segue lo stesso percorso argomentativo della precedente sentenza: in questo caso, tuttavia, i giudici hanno ritenuto che non sussistessero elementi sintomatici della natura pubblica della società. Il principio di diritto che viene affermato è però il medesimo, cambiano soltanto le fattispecie in esame.

Tra le altre pronunce che meglio esprimono questo orientamento possiamo ricordare la sentenza del Tribunale di Napoli, 31 ottobre 201245, nella quale il Tribunale affronta il problema della concreta qualificazione della società in mano pubblica (nel caso specifico si trattava di una società in house, la Astir S.p.a.) avvalendosi del metodo tipologico ed escludendo l’assoggettabilità al fallimento e al concordato preventivo della stessa. Secondo i giudici partenopei, è necessario chiedersi se una società a partecipazione pubblica presenti caratteristiche tali da determinare il venir meno della sua natura privatistica. La questione della sua concreta qualificazione, ovvero se possa esser qualificata come imprenditore commerciale o se si sia in presenza di una società in mano pubblica, viene valutata dal Tribunale sulla base di alcuni indici sintomatici che inducano a farla considerare non come un soggetto di diritto privato ma come un ente pubblico: tra questi, vengono richiamati lo svolgimento della propria attività in tutto o in parte a favore dell’ente pubblico, la mancanza di vocazione commerciale, la limitazione dei poteri gestionali dell’organo amministrativo e l’attribuzione all’ente pubblico di maggiori poteri di quelli che spettano al socio in virtù del diritto societario. Alla luce di tali parametri, il Tribunale esamina lo statuto della società nonché gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali delineatesi fino a quel

45Trib. Napoli, 31 ottobre 2012, in Fall., 2013, 7, con nota di G.D’ATTORRE, Il

concordato preventivo delle società in mano pubblica. Nel caso di specie, era stata

presentata una domanda di concordato dalla Astir S.p.a. in liquidazione, che risultava avere come socio unico la Regione Campania. La società operava nel settore della raccolta di rifiuti e bonifica del territorio.

(36)

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momento per giungere ad una conclusione definitiva sulla possibilità o meno per la società di accedere alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo. I giudici partenopei manifestano così la loro adesione all’orientamento “pubblicistico”, secondo cui, in presenza di alcuni indici sintomatici, una società può essere qualificata come soggetto sostanzialmente pubblico. All’esito dell’analisi, il Tribunale ha riconosciuto la presenza di alcuni elementi che permettono la “riqualificazione” di una società che formalmente si presenta come una società privata, ma che sostanzialmente opera come un soggetto pubblico: anche in questa pronuncia, gli indici rivelatori della natura pubblicistica della società sono individuati nel profilo gestionale (assenza di autonomia gestionale del consiglio di amministrazione, poteri di controllo penetranti dell’ente pubblico, necessaria titolarità di tutte le partecipazioni in capo all’ente pubblico) e nel profilo dell’attività (lo statuto stesso qualifica la società come “strumento operativo e di servizio della Regione Campania nel settore dell’ambiente, ed operante, in veste di società in house, nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 13 della legge n. 248/2006, esclusivamente a favore della Amministrazione Regionale, senza poter partecipare ad altre società o enti e senza poter svolgere altre attività a favore di altri soggetti pubblici o privati, ne affidamento diretti ne mediante gara” art.1 del suo Statuto).

I sostenitori di questo metodo hanno spesso invocato anche un’ulteriore causa di esclusione dal fallimento: l’assenza del requisito della commercialità. Secondo questa visione, le società pubbliche sarebbero prive della vocazione commerciale poiché chiamate a gestire un servizio pubblico, e non un bene o un servizio industriale, presentandosi come prive dello scopo di lucro.

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Il Tribunale di Avezzano46, per esempio, ha affermato che un soggetto può essere sottoposto al fallimento solo a condizione che in esso sia riconoscibile la qualifica di “imprenditore” che esercita una “attività commerciale”47. L’art. 1 l. fall. imporrebbe quindi un accertamento

specifico del requisito della vocazione commerciale, che dovrebbe essere escluso quando l’attività economica svolta non consenta né in astratto né in concreto il perseguimento della attività lucrativa.

La giurisprudenza di legittimità ha sempre preso le distanze da questa impostazione48, il cui fondamento appare del tutto privo di verità. Spicca tra le diverse pronunce, la n. 21991/201249 della Corte di Cassazione, nella quale viene affermato il principio secondo cui le società a partecipazione pubblica, costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale, sono assoggettabili al fallimento in quanto acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione e non dall’inizio in concreto dell’attività d’impresa, al contrario di quanto avviene per l’imprenditore commerciale individuale. Mentre quest’ultimo è dunque identificato dall’esercizio effettivo dell’attività, nelle società commerciali è invece compito dello statuto procedere a questa identificazione: l’assunzione della qualità di imprenditore commerciale avviene infatti in un momento anteriore rispetto a quello in cui è possibile definire quale fine abbia scelto la persona fisica. In definitiva, poi, quel tanto che basta perché vi sia impresa è l’economicità (idoneità al pareggio tra costi e ricavi).

46Trib. Avezzano, 26 luglio 2013, in ilcaso.it, 2013, secondo cui al di fuori delle

società legali disciplinate dalla legge particolare, non esiste un tertium genus tra ente pubblico e società di diritto privato.

47F.FIMMANÒ, Il fallimento delle società pubbliche, su www.ilcaso.it 48come in Cass., 27 settembre 2013 n. 22209.

49Cass., Sez. I civ., 6 dicembre 2012, n. 21991, in Fallimento, 2013, 1273, con nota

di BALESTRA, Concordato, assoggettabilità delle società partecipate da enti pubblici

e prededucibilità del finanziamento dei soci. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha

rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma che, a sua volta, aveva confermato in sede di reclamo la sentenza dichiarativa di fallimento di una società a partecipazione pubblica costituita dal Comune di Formia per la gestione dei parcheggi.

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