Filippo I per Otacilia Severa Marcia Otacilia Severa (morta nel 248?).
3.2 L A N AVE A, ANALISI STRUTTURALE
3.2.1 S TUDIO D IAGNOSTICO DEL LEGNO
Come per tutti i reperti di natura organica rinvenuti nel cantiere di S. Rossore anche per la nave A la permanenza in sedimenti che si trovano al di sotto del livello di falda acquifera e la totale, o quasi, mancanza di ossigeno durante il periodo di giacitura, hanno permesso la conservazione del legname fino ai giorni nostri. Tuttavia, il materiale, pur conservando un buon aspetto in quanto a forma e dimensioni, ha subito nel tempo un degrado di natura chimica301 e soprattutto biologica302 che ha portato alla perdita di massa e quindi all’aumento della porosità e della permeabilità fino ad arrivare alla condizione di massima imbibizione d’acqua.
Da subito, dopo la scoperta del relitto, è stato avviato uno studio diagnostico303 finalizzato alla valutazione del degrado delle parti lignee e quindi alla definizione di un’opportuna metodologia di recupero304 e restauro.
In generale, il degrado è conseguenza delle iterazioni del legno con agenti chimici e biologici presenti nell’ambiente di giacitura (sebbene anche l’attacco biologico si espleti fondamentalmente come azione chimica degli enzimi) e dell’iterazione di fenomeni fisici e meccanici, e/o loro combinazioni.
L’approccio diagnostico ha richiesto una serie di esami di carattere diverso, eseguiti secondo le linee guida proposte dalla normativa UNI 11205:2007; sono state realizzate analisi di tipo micromorfologico (UNI 11118:2004) che consentono in primis di identificare la specie legnosa delle varie parti della nave e quindi di valutarne il deterioramento – in termini di determinazione degli agenti di degrado ed entità del danno – e, successivamente, di determinare la caratterizzazione chimica e fisica del legno. Inoltre, è stata definita la componente inorganica al fine di verificare la presenza di ioni ferro, potenziale fattore di degrado subaereo del materiale, soprattutto nel caso di trattamenti consolidanti igroscopici.
3.2.2LA METODOLOGIA
I campioni 305 prelevati dalla nave A ed utilizzati nelle analisi possono così riassumere e collocare:
301 UNGER 2001.
302 KIM,SINGH 2000;BJÖRDAL et alii 1999. 303 GIACHI et alii 2009.
304 GIACHI 2008.
305 I campioni (dimensioni 3x3x3 cm) sono stati prelevati in modo da poter essere rappresentativi di tutta la
Le tecniche per determinare la specie legnosa e valutare il degrado all’interno della parete cellulare sono quelle microscopiche, di tipo ottico ed elettronico306; la scelta della tipologia dipende dal grado di approfondimento dell’indagine e dalle condizione e dimensione del campione di legno, non escludendo, quando è possibile, anche
l’applicazione di entrambe le metodologia. Non è il nostro caso, perché per la nave A si è optato solo per l’analisi micromorfologica di tipo ottico, a luce trasmessa (DM LB 2, Leica), mediante la quale sono state osservate le sezioni sottili del legno secondo le tre direzioni anatomiche diagnostiche (trasversale, longitudinale, radiale e longitudinale tangenziale307).
Le sezioni sottili (tra i 15 ed i 20 µ di spessore) sono state prodotte con il taglio del campione di legno imbibito, previo congelamento, mediante banali lamette; il taglio in profondità serve per valutare l’andamento dell’attacco, mentre l’identificazione della specie avviene tramite confronto tipologico con l’ausilio di testi specialistici308 e con il database presente in laboratorio presso il cantiere.
Le analisi chimiche, invece, sono state realizzate, sebbene con leggere modifiche dovute alla scarsità del materiale reperibile, secondo le metodologie standard utilizzate per il legno fresco e utilizzate sovente in ambito archeologico309: le misure sono state effettuate su farine di legno essiccate e setacciate ed i risultati sono dati come peso percentuale delle componenti chimiche residue. L’entità del degrado p data dalla comparazione dei valori ottenuti con gli omologhi del legno fresco.
Per la caratterizzazione della componente inorganica sono state effettuate indagini mediante microanalisi a dispersione di energia (EDX), diffrazione a raggi X (XRD) e spettroscopia infrarossa a trasformata di Fourier (FTIR); il successivo momento è stato caratterizzato dal confronto dei dati ottenuti dall’analisi dei campioni lignei essiccati a 103±6°C, per l’eliminazione dell’acqua di imbibizione, con quelli ottenuti dopo calcinazione a 600±25°C, per l’eliminazione della sostanza organica (ceneri, in particolar modo)
Per la caratterizzazione fisica del legno, sono stati acquisiti da ciascun campione, seguendo le tre direzioni anatomiche del legno310, dei piccoli provini prismatici di cui sono stati calcolati il peso ed il volume nel momento in cui sono imbibiti d’acqua e,
306 GIACHI et alii 2006.
307 L’esame in microscopia ottica della sezione trasversale del legno porta riconoscere eventuali cambiamenti
nella forma delle cellule ed ad evidenziarla presenza di particolari morfologie e cavità di cui è possibile attribuire la causa all’erosione batterica e/o a carie provocata da funghi, mentre l’osservazione longitudinale radiale serve a verificare la presenza di ife fungine, l’erosione della parete ed il grado di deterioramento dei raggi parenchimatici (ANAGNOST 1998).
308 SCHWEINGRUBER 1990.
309 PIZZO et alii 2006, GIACHI et alii 2003.
successivamente, quando sono stati essiccati. La differenza ottenuta tra il prima ed il dopo consente di calcolare i parametri fisici più importanti nella caratterizzazione del legno.
3.2.3I RISULTATI
Il fasciame della nave A è stato realizzato con legno di conifera e, in particolar modo, pino marittimo (Pinus pinaster Aiton), mentre per le ordinate sono stati impiegati legni di latifoglie, soprattutto, quercia (Quercus sp. caducifoglia), olmo (Ulmus sp.) e noce (Juglans regia L.).
L’osservazione microscopica ha individuato la presenza di agenti biotici deteriogeni, come funghi della carie soffice e batteri, pertanto, lo stato di conservazione del relitto risulta fortemente danneggiato, come si evince maggiormente dai campioni di legno di latifoglia, in particolare l’olmo e la noce, mentre la quercia presenta una struttura cellulare con un livello intermedio di degrado.
Le analisi fisiche e chimiche311 hanno ribadito una forma di degrado molto pronunciato, fatta eccezione per il pino marittimo cha dai campioni analizzati risulta meglio conservato delle latifoglie presenti312, presumibilmente a causa della lignina313 che presenta una composizione chimica difficilmente degradabile.
Per quanto concerne, invece, la caratterizzazione inorganica del legno314, i risultati hanno evidenziato forti differenze tra i campioni essiccati e quelli calcinati, probabilmente riconducibili alla più facile rilevazione delle fasi inorganiche una volta eliminata la componente organica. Le analisi rivelano, nei campioni di legno esaminati, la presenza di Si e Al che, insieme a k, Mg, Ti e parte di Na e Ca, sono da imputare alla componente terrosa depositata nel legno dall’acqua circolante nel contesto di giacitura. Oltre a questi elementi, sono attestati maggiormente anche Ca, Fe e S riconducibili alla presenza di calcite, gesso ed ossidi di ferro cristallini o amorfi. Come componenti minori, troviamo P, Cl e Na: al momento non è ancora possibili identificarne l’origine. In un campione (A6) di legno calcinato, in particolare, il ferro, presente come ematite, raggiunge quasi il 60 % della componente inorganica; in questo caso i minerali ferrosi sono accompagnati da anidrite (dovuta alle trasformazioni termiche del gesso) e da calcite; teniamo a precisare che gli
311 Per i risultati in dettaglio delle analisi fisiche e chimiche cfr. GIACHI et alii 2009, pp. 1002-1003. Per le
tecniche impiegate cfr. FRANCESCHI et alii 2008.
312 Questa osservazione trova conferma nella letteratura scientifica di settore che riporta come le conifere
siano più resistenti al degrado in condizioni di imbibizione e sostanziale anossia rispetto alle latifoglie (cfr. BORGIN et alii 1975)
313 La lignina è un pesante e complesso polimero organico costituito principalmente da composti fenolici. Si
trova nella parete cellulare del legno.
314 Per i risultati delle indagini per la determinazione della componente inorganica nel legno delle navi
elementi della struttura da cui sono stati prelevati campioni non presentano chiodature in ferro.
In conclusione, i legni che costituiscono l’anima galleggiante della nave A mostrano, stando ai campioni prelevati ed analizzati, un predominante attacco biologico, dovuto principalmente a batteri di tipo ad erosione ed a funghi della carie soffice. Il danno provocato è alquanto accentuato, come evidenziato dalle analisi fisiche e chimiche, secondo le quali la componente polisaccaridica residua si aggira mediamente sotto il 10 % ad esclusione del legno di pino che, come in altre evidenze di tipo archeologico, resiste meglio all’attacco in queste condizioni. La componente inorganica, misurata come residuo alla calcinazione (ceneri), è come avviene spesso per tali tipi di legno, molto alta e valutabile intorno al 10% del peso totale: in questa la presenza di ferro supera anche il 60% e deriva, all’origine, da ossidi variamente idrati accompagnati per lo più da calcite e solfati di calcio, anch’essi idrati.
CONCLUSIONI
La ricostruzione delle modalità di naufragio e successivo interro del relitto della Nave A (Area 1 – Cantiere delle Navi Antiche di Pisa – San Rossore) attraverso le analisi delle stratigrafie e lo studio dei materiali archeologici è stato il fine del mio progetto di dottorato che vede in queste conclusioni il compimento di un percorso e l’elaborazione di dati scientifici che aggiungono un ulteriore tassello conoscitivo al quadro che via via si sta delineando per il deposito archeologico di San Rossore.
Il primo punto da cui il lavoro ha preso avvio è stato la definizione del contesto e la sua interpretazione.
Ci riferiamo ad un deposito di fondale fluviale relativo all’ansa di un corso d’acqua minore (Auser) che attraversava, in età romana, in direzione E-W l’area del cantiere di San Rossore nel punto di sbocco di uno dei canali regolari inquadrati nella maglia centuriale pisana, a breve distanza dall’abitato di epoca romana. Le esondazioni del vicino fiume Arno provenienti da sud avrebbero apportato sempre nuovi depositi alluvionali e “scavalcato” la riva dell’invaso facendo avanzare la sponda meridionale sempre più a nord. Anche l’andamento delle correnti, chiaramente leggibile nelle stratigrafie di scavo, fa pensare ad uno scorrimento in direzione E-W il che avvalorerebbe l’ipotesi della presenza di un fiume piuttosto che di un invaso lacuale o palustre, una delle prime ipotesi di lettura del contesto. Non trova conferme, sempre in base alle ricerche sul campo, l’interpretazione dell’area come porto: seppure siano state rinvenute alcune strutture riferibili alla sistemazione della riva fluviale ed alcune di probabile attracco, non abbiamo altre evidenze o infrastrutture che ci consentono di sposare questa chiave di lettura, considerando anche la distanza dall’abitato e l’inquadramento nella maglia centuriale. In definitiva, si tratta di un corso
d’acqua prossimo alla città e quindi soggetto ad un intenso traffico fluviale, che attraversava un’area agricola e che presentava alcuni apprestamenti privati di attracco relativi alle fattorie circostanti, in stretta analogia con l’attuale darsena pisana.
In questo contesto si colloca il relitto della nave A, la prima ad essere scoperta (1998 – 1999) e interessata, proprio in quegli anni da un primo intervento di scavo, ripreso successivamente nel 2003, quando furono rinvenuti anche alcuni oggetti integri, probabilmente pertinenti al carico. La realizzazione di questo lavoro che cerca di ricostruire le modalità di naufragio della nave, in particolar modo tramite la lettura stratigrafica e lo studio della cultura materiale, è stato possibile solo grazie allo scavo che, protrattosi per ca. un anno e mezzo, ha permesso di analizzare in dettaglio le diverse dinamiche di formazione del record archeologico. L’approccio che si è preferito è stato quello di considerare il relitto non solo in quanto manufatto in sé (parti strutturali, carico, rotta commerciale, vita di bordo ecc.) ma principalmente come fossile guida per la ricostruzione di quell’evento traumatico, l’alluvione, che l’ha imprigionato e sigillato per sempre all’interno di un deposito fluviale. Secondo questa prospettiva cambia la chiave di lettura ed interpretazione: si propone, per la prima volta, un nuovo metodo di approccio al contesto dove il relitto viene riconosciuto, non solo in quanto manufatto, ma come serie di eventi che hanno portato, nel loro insieme, all’affondamento della nave e alla sua deposizione sul fondale, unitamente a tutti quei fatti che, da questo momento in poi, concorrono a trasformare il deposito archeologico. Pertanto, proprio per comprendere meglio le dinamiche di deposizione/dispersione/disfacimento del relitto, si è reso necessario focalizzare l’attenzione sullo studio dei processi formativi del deposito e, archeologicamente parlando, sulla complessa sequenza stratigrafica. L’eccezionalità del sito e del rinvenimento sta nella peculiarità della sua natura che si allontana dal modello dell’evento, inteso come fenomeno eccezionale che ruota intorno ad uno o più reperti, per avvicinarsi a quello dell’ambiente, soprattutto per la sua caratteristica di deposito fluviale/alluvionale, in una sorta di cerniera dove le dinamiche deposizionali e postdeposizionali a carattere sommerso si intersecano con quelle tipiche dell’ambiente terrestre. Mai come in questo contesto l’unità stratigrafica non rappresenta un evento puntuale, frutto di un’azione, ma un processo morfogenetico complesso, dovuto ad una somma di eventi protrattisi nel tempo e di fattori più diversi quali agenti fisiogenici, biogenici ed antropogenici.
Storia di una relitto quindi, ma anche storia di un alluvione che coinvolge in un momento preciso della storia della Pisa romana un’oneraria di medio - grandi dimensioni, realizzata con un montaggio a guscio e con l’utilizzo di mortase e tenoni, tagliata diagonalmente dal palancolato metallico e di conseguenza riportata alla luce soltanto nella parte pertinente la poppa e parte delle fiancate; il resto dello scafo è collocato fuori dalle originarie delimitazioni dall'area del cantiere. L’affondamento si data verosimilmente tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C.; al momento dello scavo è stato rinvenuto, infatti, ancora incastrato tra le ordinate del relitto solo una parte del materiale pertinente al carico, in particolare anforacei come le anfore di Spello, di Forlimpopoli, le Gauloise 4, africana 1a, Dressel 20 e qualche frammento di terra sigillata africana A (coppe Hayes 9B=Lamboglia 2b). Naturalmente, quanto riportato alla luce è solo una minima parte di quello che doveva essere il vero carico della nave; infatti, lo scavo dei settori situati a NE del relitto della nave D (area 5) ha individuato, nei livelli più profondi raggiunti, un deposito di anfore da trasporto pressoché integre, già allora interpretato dagli archeologi come parte di un carico “affondato nel canale e disperso dalle correnti”: le tipologie di questi contenitori sono riconducibili in toto a quelle presenti nel carico della nave A, ossia Gauloise 4, anfore cd. di Spello, di Forlimpopoli e Dressel 20. Questi dati forniscono l’immagine di un contesto estremamente articolato, risultato dall’iterazione e sovrapposizione di più fenomeni, dall’azione di correnti di differente intensità all’apporto di elementi per eventi più casuali. L’analisi dell’insieme dei reperti in particolare di quelli conservati integralmente, e la presenza di fasciame e di altre parti lignee che al momento non furono analizzate nella loro essenza, spingono ad ipotizzare che questo contesto fosse parte del carico della nave A, spostato dalle correnti poco più a ovest, al di fuori del relitto, in prossimità della navi D ed I. Dopo l’affondamento, si alternano fasi di sostenuta attività fluviale, databili intorno alla metà del III secolo d.C. per la presenza di un piccolo gruzzolo monetario contenuto in un bauletto di legno, a momenti di stasi fluviale relativamente lunghi che, per il rinvenimento di terra sigillata africana C e D, anfore africane 2C - D e Keay 25 sottotipo1, possono essere collocati negli anni immediatamente successivi alla seconda metà del IV. Un ulteriore evento alluvionale, infine, avrebbe trascinato e depositato in uno strato a matrice sabbiosa di colore grigio scuro numerosi frammenti ceramici per lo più ricomponibili quali lucerne (Dressel 30), terra sigillata africana D nelle forme Hayes 50b, 58b, 59, 65 e 67, molti frammenti diagnostici pertinenti all’anfora di “Empoli” e, seppure in quantità minore, anche anfore Africane 1A-B, Africane 2, Keay 25 e due esemplari di Almagro 51C. Inoltre, le stratigrafie hanno riportato alla luce tra il vasellame da mensa anche esemplari di ceramica
rivestita da ingobbio rosso, soprattutto boccali ma anche brocche trilobate che trovano confronti con alcuni esemplari di Fiesole ed anche un piatto con orlo rientrante che, morfologicamente ricalca la forma Hayes 61 in sigillata africana D, ma presenta sulla superficie interna una decorazione dipinta a festoni pendenti semicircolari ed impressioni di forma circolare. Anche questo esemplare trova confronti a Empoli, ma non solo, in contesti di fine IV – inizi V secolo d.C. Con ogni probabilità il rinvenimento può essere interpretato come carico unitario di una nave non ancora individuata all’interno dell’area di scavo, investita da un violento evento alluvionale collocabile presumibilmente tra la fine del IV e gli inizi del V, che ha portato con se anche laterizi da costruzione (mattoni), da fornace (mattoni con invetriatura) e da copertura (tegole, coppi, tubo di volta) e solo il suo rinvenimento potrà chiarire e sciogliere molti dei dubbi che esistono sulla possibile rotta, sul carico e sulle sue modalità di naufragio.
La singolarità del contesto e le particolari modalità di formazione del deposito all’interno del cantiere hanno creato non pochi problemi di interpretazione, soprattutto riguardo i materiali rinvenuti, poiché i differenti bacini stratigrafici sono sempre il risultato di una sinergia continua tra processi naturali (azioni di accumulo e trasporto delle correnti) ed interventi umani, a volte fortemente impattanti sull’ambiente circostante (centuriazione e relativi canali, disboscamento). Per questo motivo, accanto ai macro- eventi come le alluvioni principali e l’affondamento del relitto, spesso si sono evidenziate alcune “anomalie stratigrafiche” che determinano la compresenza, nello stesso strato, di materiali disomogenei dal punto di vista cronologico oppure funzionale. In altre parole, è spesso difficile distinguere tra gli oggetti affondati per violenti eventi alluvionali e sottoposti, quindi, a rivolgimenti e successive dispersioni e quelli, invece, caduti accidentalmente in acqua; inoltre, la lettura viene ulteriormente complicata quando entrano in gioco altri tipi di manufatti, per nulla secondari, che interi o fratti, concorrono alla formazione del deposito di fondale fluviale se gettati in maniera più o meno volontaria, in seguito a fenomeni di discarica, in momenti di relativa “tranquillità” della corrente fluviale o anche depositati, per motivi ed utilizzi vari, su terreno prossimo alla riva. In particolare, questo dubbio riguarda i numerosi reperti riferibili alla vita quotidiana e agli oggetti personali, per i quali non vi è mai l’assoluta certezza della loro appartenenza alla dotazione di bordo o al carico o a cadute accidentali. Tutte queste problematiche si sono evidenziate chiaramente in quasi tutte le US individuate, ma soprattutto nell’US 6081 che ha restituito, insieme a molti altri manufatti, una cassetta lignea con all’interno un piccolo
tesoretto: la forza delle acque ha intaccato la parte più superficiale del deposito del naufragio della nave ed ha trascinato o spostato, forse da breve distanza, alcuni oggetti spesso interi che sono rimasti “intrappolati” nelle maglie delle ordinate della nave ancora emergenti, come anfore cd. di Spello, di “Empoli”, Almagro51C, Gauloise 4, Africane 2, oggetti d’uso comune, vetri, laterizi e monete, purtroppo illeggibili. Tra il materiale recuperato, la classe maggiormente attestata in termini quantitativi è quella dei contenitori da trasporto cui seguono, in percentuale nettamente inferiore, esemplari di ceramica comune e di produzione africana, nonché vetri e laterizi. In particolare, prevalgono esemplari di anfore cd. di Spello e Gauloise 4, di poco più antiche rispetto alla cronologia dello strato della cassetta lignea, che compaiono in gran numero anche nei livelli pertinenti al carico della nave; la presenza anche di un’africana tipo Ostia LIX porterebbe ad ipotizzare che il contesto sia riferibile alla parte più superficiale del carico della nave A, smosso dalla posizione originaria dopo il naufragio in questo momento di maggiore vigore della corrente. Un’altra evidente “anomalia stratigrafica” rilevata durante lo studio dei materiali mostra come alcuni frammenti dell’US 6089 sett.1-2 “attacchino” con quelli dell’US 6047: in questo caso, il rimescolio dei materiali non è imputabile a processi naturali o ambientali, ma ad azioni molto più recenti, come l’inserimento delle paratie metalliche che hanno sconvolto ed intaccato gli strati archeologici.
Tra i tanti processi naturali e ambientali che possono intervenire, modificare, dissolvere manufatti o alterare l’assetto dei sedimenti, un ruolo del tutto particolare lo riveste il relitto stesso; infatti, se le fasi alluvionali parlano attraverso i reperti che sono contenuti in esse, il relitto parla con la sua stessa struttura fornendo dati preziosi, per esempio, sulle modalità di naufragio, sulla presenza o meno del carico, sulle sue essenze. La nave non è stata indagata nella sua interezza; le informazioni ricavate sono relative all’opera viva, ma soprattutto all’opera morta. Nonostante la mancanza della parte che giace ancora sotto i binari della stazione di San Rossore, è stato possibile registrare una serie di caratteristiche costruttive visibili dalla chiglia al capodibanda, anche se mancante, ma ricostruibile per la sua originaria posizione grazie alla presenza degli scalmotti. La