2. Il casus belli: la vicenda Eternit
2.3. La sentenza 200/2016: la nozione europea (per la Consulta) di medesimo
e concorso formale
La sentenza in esame, fra luci e ombre, ha comunque il pregio di aver raggiunto due importanti risultati.
In primis, viene apparentemente abbandonato il ricorso all’idem legale e cristallizzata la regula iuris per cui ai fini del verificare la medesimezza rilevante ai sensi dell’art. 649 c.p.p. occorre guardare al solo fatto.
In secundis, viene finalmente affermato che la sola circostanza che i due reati contestati in processi diversi siano in rapporto di concorso formale non vale ad escludere la preclusione prevista dall’art. 649 c.p.p484.
484 Cfr. G.LOZZI, Lezioni di procedura penale, XII ed., 2017, p. 825. L’Autore afferma che la tesi da lui sostenuta, ossia la non operatività della preclusione del ne bis in idem rispetto al concorso formale, a seguito della sentenza in commento non è più sostenibile. Non mancano, tuttavia, significative critiche alla Corte costituzionale. In primo luogo, per la stessa scelta definitoria che anziché in una dichiarazione di illegittimità si sarebbe potuta risolvere in una sentenza interpretativa di rigetto. Inoltre, aderendo alle note opinioni di Ferrua, l’Autore mette in dubbio lo stesso obbligo di doversi adeguare ad un orientamento consolidato della Corte Edu, in ragione della frizione di tale assunto con l’art. 101 Cost. che sottopone il giudice soltanto alla legge. Infine, vengono evidenziate le assurdità dell’interpretazione della Corte che, di fatto, salva l’evento in senso naturalistico, sicché il testo dell’art. 649 c.p.p. condurrebbe «a risultati di dubbia ragionevolezza, in quanto consente l’instaurazione di un procedimento penale nei confronti di una persona condannata con sentenza irrevocabile per lesioni colpose se l’evento morte conseguente alle lesioni si verifichi a distanza di
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Entrambi gli assunti, tuttavia, come si avrà modo di osservare, appaiono tutt’altro che assoluti.
Nell’articolata motivazione485, la Corte, dopo aver rigettato numerose eccezioni di inammissibilità486, affronta nel merito le questioni sollevate dal giudice a quo.
Viene anzitutto saggiato il convincimento del GUP torinese sull’interpretazione offerta dalla Corte Edu alla norma convenzionale secondo cui «la medesimezza del fatto deve evincersi considerando la sola condotta dell’agente, assunta nei termini di un movimento corporeo o di un’inerzia».
La Corte, pur convenendo con il remittente sulla definitiva adesione da parte del giudice di Strasburgo all’idem factum, dissente nella misura in cui il giudizio comparativo si risolve solo nella valutazione dell’azione o dell’omissione, «trascurando evento e nesso di causalità».
Per giustificare la “sempiterna” ed apparentemente irrinunciabile affidabilità della triade condotta, evento e nesso di causalità, il giudice delle leggi assume che il «fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento, perché l’approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario. Fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi».
anni mentre preclude l’esercizio dell’azione penale per calunnia nei confronti di chi per la stessa dichiarazione sia già stato giudicato con sentenza irrevocabile per falsa testimonianza e ciò sulla base di una interpretazione discutibile dell’art. 4 del protocollo sopra citato, il quale neppure parla di “fatto”, bensì di “reato”»
485 Primi commenti di G.DI CHIARA, Ne bis in idem, nozione di idem factum e concorso formale di reati tra ordinamento interno e garanzie CEDU, in Dir. pen. proc., 2016, p. 1171; S.ZIRULIA, Ne bis in idem: la Consulta dichiara l’illegittimità dell’art. 649 c.p.p. nell’interpretazione datane dal diritto vivente italiano (ma il processo Eternit bis prosegue), in penalecontemporaneo.it, 24 luglio 2016.
486 Sul punto, B.LAVARINI, Il “fatto” ai fini del ne bis in idem tra legge italiana e Cedu: la Corte costituzionale alla ricerca di un difficile equilibrio, in Proc. pen. giust., 2017, p. 60, la quale, limitatamente ad un’eccezione di una parte privata che, invocando la versione originale francese del testo dell’art. 4, Prot. 7, CEDU che stabilisce che il ne bis in idem scatti allorquando l’imputato sia stato acquitté ou condamné, chiedeva che la questione fosse dichiarata inammissibile in quanto la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione non è assimilabile ad una sentenza di assoluzione, critica la motivazione della Corte non tanto per la conclusione, quanto la mancanza di un maggior approfondimento.
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Del resto, secondo il giudice ad quem, la stessa base su cui è fondato l’assunto del GUP – la giurisprudenza della Corte Edu – è mal interpretata, posto che né la sentenza Zolotukhin487, né la sentenza Grande Stevens «recano l’affermazione che il fatto va assunto, ai fini del divieto di bis in idem con esclusivo riferimento all’azione o all’omissione dell’imputato. A tal fine, infatti, non possono venire in conto le decisioni vertenti sulla comparazione di reati di sola condotta, ove è ovvio che l’indagine ha avuto per oggetto quest’ultima soltanto».
La Consulta, quindi, picks cherries, citando precedenti della Corte Edu in cui, per stabilire la medesimezza del fatto, si è guardato alla circostanza che la condotta fosse rivolta verso la medesima vittima, giunge alla conclusione che la giurisprudenza europea non offre elementi certi per limitare l’esame alla sola condotta; si palesano, al contrario, «indizi per includere nel giudizio l’oggetto fisico di quest’ultima, mentre non si può escludere che vi rientri anche l’evento, purché recepito con rigore nella sola dimensione materiale».
Il principio del ne bis in idem previsto dall’art. 4, Prot. 7, CEDU, prosegue il giudice delle leggi, appare comunque soggetto a un certo grado di relatività, permettendo la riapertura del processo anche in malam partem, ed essendo soggetto a bilanciamento con gli artt. 2 e 3 della Convenzione, sicché il principio del ne bis in idem non opera in presenza di episodi particolarmente gravi, quali i crimini contro l’umanità. Per contro, tali limitazioni non trovano cittadinanza nell’ordinamento interno. La Consulta non intende comparare i livelli di tutela offerti da Convenzione e Costituzione (excusatio non petita), ma sottolinea che nemmeno l’ordinamento CEDU – a livello sistematico – impone di interpretare il principio del ne bis in idem nella maniera più favorevole all’imputato, come preteso dal giudice a quo che invoca una lettura del medesimo fatto riferita esclusivamente alla condotta.
La Corte conviene nuovamente con il giudice torinese nella misura in cui un ricorso all’idem legale apparirebbe in contrasto non solo con l’art. 117, ma altresì con gli art. 24 e 111 Cost., posto che tale criterio «appare allora troppo debole per accordarsi con simili premesse costituzionali, perché solo un giudizio obiettivo sulla medesimezza dell’accadimento storico scongiura il rischio che la
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proliferazione delle figure di reato, alle quali in astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto, offra l’occasione per iniziative punitive, se non pretestuose, comunque tali da porre perennemente in soggezione l’individuo di fronte a una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello Stato-apparato». Devono dunque essere aborrite le «sempre opinabili considerazioni» sul bene giuridico o sugli interessi tutelati dalle norme, sulla natura giuridica dell’evento e su tutto ciò che mette in pericolo la garanzia del ne bis in idem.
Ciò osservato, la Consulta, dissentendo con il giudice a quo, non ritiene che il diritto vivente ricorra al criterio dell’idem legale, come, certamente, non vi aderisce il consesso più autorevole della Corte di cassazione che nella sentenza Donati488 si è espressamente schierata a favore dell’idem factum. Il carattere occasionale con cui alcune sezioni semplici hanno corrotto il vaglio della dimensione storico-naturalistica aggiungendovi quello della dimensione giuridica non è in grado di spostare il significato offerto dall’orientamento prevalente e più autorevole.
Conclude, quindi, la Corte che gli elementi indicati dal giudice a quo per affermare la diversità fra i fatti di cui ai due procedimenti – la natura di pericolo dei delitti di cui agli artt. 434 e 437 c.p., il bene giuridico tutelato, il differente ruolo del medesimo evento morte – non sono adeguati, mentre, allo stesso tempo «è chiaro che, anche dal punto di vista rigorosamente materiale, la morte di una persona, seppure cagionata da una medesima condotta, dà luogo ad un nuovo evento, e quindi ad un fatto diverso rispetto alla morte di altre persone».
La Corte accoglie, invece, la seconda doglianza del GUP torinese vertente su una sorta di inapplicabilità ex ante della garanzia del ne bis in idem, qualora il reato per cui è intervenuta sentenza passata in giudicato e il reato da giudicare siano in rapporto di concorso formale.
Orbene, sul piano della politica criminale, nulla osta a che con una medesima azione si violino più disposizioni della legge penale. Se le norme non si pongono in rapporto di specialità (concorso apparente di norme) non vi è nessun dubbio sul fatto che all’imputato vadano contestate tutte le violazioni.
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Tale evenienza, peraltro, non palesa nessuna frizione con il principio del ne bis in idem, «che si sviluppa invece con assolutezza in una dimensione esclusivamente processuale, e preclude non il simultaneus processus per distinti reati commessi con il medesimo fatto, ma una seconda iniziativa penale, laddove tale fatto sia già stato oggetto di una pronuncia di carattere definitivo».
Ciononostante, la Corte è costretta a prendere atto dello stato dell’arte per cui il diritto vivente, sulla sola base della sussistenza del rapporto di concorso formale fra il reato già giudicato e quello da giudicare, esoneri il secondo giudice dall’accertare la medesimezza del fatto e, dunque, la presenza di un bis in idem.
L’interprete, per verificare in quale forma di rapporto si trovano i reati contestati (concorso formale o apparente), deve necessariamente interrogarsi sul bene giuridico tutelato dalla norma. Se tale operazione appare del tutto legittima al fine appena indicato, tuttavia, parametrata su due processi, uno dei quali definitivo, introduce obtorto collo apprezzamenti ricollegabile all’idem legale e, in quanto tali, aborriti dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Ciò, chiaramente, non significa – si premura di precisare la Consulta – che ogni qualvolta i due reati siano in rapporto di concorso formale il giudice sia tenuto a declinare la propria giurisdizione: non necessariamente all’unicità della condotta corrisponde la medesimezza del fatto, che andrà quindi valutato alla luce della triade condotta, evento e nesso di causalità.
Infine, la Corte, in modo forse inconsueto, offre la soluzione del caso concreto: «Sulla base della triade condotta – nesso causale – evento naturalistico, il giudice può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica, sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad esempio, sulla diversità dei fatti, qualora da un’unica condotta scaturisca la morte o la lesione dell’integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e dunque un nuovo evento in senso storico. Ove invece tale giudizio abbia riguardato anche quella persona occorrerà accertare se la morte o la lesione siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità con la condotta dell’imputato, cioè se il fatto già giudicato sia nei suoi elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per il titolo, per il grado e per le circostanze».
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2.4. Un passo avanti (concorso formale) ed uno indietro (per la