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Il sistema abitativo dell’aristocrazia genovese tra palazzi, ville e giardini

Capitolo 2. Le arti in villa: musica e arti figurative per le residenze fuori le mura

2.1. Il sistema abitativo dell’aristocrazia genovese tra palazzi, ville e giardini

Come notano Ennio Poleggi e Paolo Cevini, la dimora doriana di Fassolo non poteva certo porsi come modello preferenziale da replicare per l’aristocrazia genovese: la sua monumentale estensione, fra giardini, terrazze, boschetti e logge ne faceva una residenza principesca decisamente fuori dai canoni del palazzo cittadino. Tuttavia la nobiltà seppe cogliere la “lezione politica” del palazzo proprio in quell’uso delle arti al servizio della rappresentazione del potere1:

[…] il fasto rappresentativo fu assunto nella filosofia residenziale di quei nobili genovesi che trattavano individualmente con le maggiori potenze europee e guidavano la politica pubblica sulla scia dell’investimento privato.2

Si sentiva inoltre la necessità di formulare dei modelli propri, a misura del territorio urbano (e suburbano) e che potessero esprimere una cifra locale nel campo dell’architettura residenziale privata. All’incirca negli stessi anni, tra il 1541 e il 1545, vennero eretti il palazzo di Antonio Doria (oggi Prefettura, cfr. al riguardo § 4.1) e quello di Gerolamo Grimaldi (poi della Meridiana, figg. 1-2-3-4)3, entrambi interventi di edilizia privata che ci danno la possibilità di osservare da un lato la struttura a sviluppo longitudinale pre-alessiana e dall’altro la peculiare tecnica di costruzione in costa. Reso necessario dalla conformazione territoriale della città, tale sistema permise di realizzare meravigliosi giardini sfruttando i dislivelli del terreno e consentì inoltre di articolare fra loro i diversi ambienti della dimora in maniera organica e ariosa “con una serie di spazi aperti di uso privato: atrio, cortile, giardino”4. Ai lati del percorso lungo tale asse si sviluppavano i due corpi di fabbrica del palazzo, di lunghezza diseguale, ma ciascuno prospiciente sul giardino5. Quest’ultimo,

1 Cfr. E. Poleggi, P. Cevini, Genova, Bari, Laterza, 1981, p. 89.

2 Ivi, p. 90.

3 Ivi, pp. 90-91. Cfr. inoltre L. Magnani, Il Tempio di Venere. Giardino e villa nella cultura genovese, Genova, Sagep, 1987, pp. 166-168. Il palazzo di Antonio Doria fu edificato tra il 1541 e il 1543; quello di Gerolamo Grimaldi tra il 1541 e il 1545.

4 Ivi, p. 167.

5 Ivi, p. 168.

48 Figg. 1-2

Palazzo di Girolamo Grimaldi (della Meridiana), Genova. Facciata attuale e vista da Salita di San Francesco

oggi scomparso, si concludeva con il monumentale ninfeo decorato che rappresentava uno dei primi precoci esempi di quella moda delle grotte artificiali diffusasi a Genova nel XVI secolo6.

Il palazzo di Gerolamo Grimaldi precedette di pochi anni l’inizio del processo di lottizzazione dei terreni adiacenti, che avrebbe condotto all’edificazione delle sontuose residenze di Strada Nuova.

Operazione avvenuta poco dopo il soggiorno di Galeazzo Alessi a Genova, Strada Nuova, oggi Via Garibaldi7, mostrò nella diversa struttura dei palazzi l’acquisizione della lezione alessiana che per la prima volta a Genova era stata applicata nella dimora di villa di Luca Giustiniani ad Albaro (1548)8. La struttura cubica dell’edificio alessiano, che sfrutta la loggia come elemento di raccordo fra spazi

6 Ibidem. Cfr. inoltre Poleggi, Cevini, 1981, p. 91. Ulteriori cenni sulle grotte artificiali sono contenuti più avanti in questo paragrafo del presente lavoro.

7 Per la ricostruzione del processo che condusse all’edificazione di Strada Nuova si rimanda a E. Poleggi, Strada Nuova: una lottizzazione del Cinquecento a Genova, Genova, Sagep, 1968. La vicenda è sinteticamente trattata anche in Poleggi, Cevini, 1981, pp. 92-99.

8 Ivi, pp. 91-92.

49 Figg. 3-4

Palazzo di Girolamo Grimaldi (della Meridiana), da da P. P.

Rubens, Palazzi di Genova, Anversa, 1622

interni ed esterni e che accomuna diversi palazzi di Strada Nuova, venne presto eletta tanto dalla committenza quanto dagli architetti come modello privilegiato per l’architettura residenziale9.

Ed è questo l’aspetto che tanto colpì Pieter Paul Rubens quando visitò la Repubblica, da spingerlo a testimoniare tale “rivoluzione residenziale” (l’espressione è di Poleggi) attraverso un volume dedicato appunto ai Palazzi di Genova (cfr. figg. 5-6)10.

9 Ivi, p. 91.

10 Come infatti afferma Ennio Poleggi: «Si è notato altrove e in più sedi, […] come la esemplarità della situazione genovese nasca dalla felice convergenza di alcune componenti del comportamento nobiliare, che si assommano proprio in quel tempo e producono, col raggiungimento di una egemonia finanziaria nel continente e di una chiarificazione istituzionale all'interno, una vera rivoluzione residenziale rispetto ad una tradizione costretta da secoli entro i limiti fisici di un manufatto urbano nettamente medievale». Cfr. E. Poleggi, Un documento di cultura abitativa, in Biavati (a cura di), Rubens e Genova, catalogo della mostra (Genova, Palazzo Ducale, 18 dicembre 1977-12 febbraio 1978), Comune di Genova, 1977, p. 85.

50 Figg. 5-6

P. P. Rubens, Palazzi di Genova, Anversa, 1622. Frontespizio e lettera-proemio Al benigno lettore

Benché ancora non siamo in possesso di documenti che ci permettano di stabilire con certezza gli estremi cronologici dei suoi soggiorni, è ormai noto il profondo legame di Rubens con la Repubblica di Genova. La città fu varie volte meta dell’artista, che non solo strinse rapporti di sincera amicizia con diversi esponenti dell’aristocrazia locale ma mostrò di apprezzare molteplici caratteristiche di quello stile di vita così all’avanguardia dei suoi committenti, compreso il peculiare sistema abitativo delle famiglie.11

Il suo testo ad esso dedicato analizza con estrema accuratezza alcune fra le più importanti dimore aristocratiche della Repubblica di Genova, fornendone piante e alzati (incise da Nicola Ryckemans), disegni tecnici che, come giustamente sottolinea Ida Maria Botto, hanno un valore diverso dalle

11 Cfr. L. Tagliaferro, Di Rubens e di alcuni genovesi, in Biavati, 1977, pp. 31-32. Cfr. anche P. Boccardo, Genova e Rubens. Un pittore fiammingo tra i committenti e i collezionisti di una Repubblica, in P. Boccardo (a cura di) L’età di Rubens. Dimore, committenti e collezionisti genovesi. Catalogo della mostra (Genova, Palazzo Ducale, 20 marzo – 11 luglio 2004), Milano, Skira, 2004, p. 5.

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prospettive pittoriche, proponendosi come esempi pratici di un modo di abitare e dunque di articolare gli spazi della dimora privata12. Nel Proemio Al Benigno Lettore (fig. 6), Rubens mise in evidenza anzitutto le dimensioni più contenute delle dimore aristocratiche, senza che ciò ne diminuisse la bellezza, il fasto e l’eleganza. A tal proposito scrisse infatti:

Perché si come quella Republica è propria di Gentilhuomini, così le loro fabriche sono bellissime e comodissime, a proportione più tosto de’ famiglie benchè numerose di Gentilhuomini particolari, che di una corte d’un Principe assoluto.13

Dal medesimo Proemio apprendiamo anche che l’intenzione dell’autore nel compilare il testo era di mostrare ai propri concittadini anversani quel nuovo gusto che si stava diffondendo in architettura, emancipando l’arte del costruire dalla maniera «barbara» o «gotica» e reintroducendo «la vera simmetria di quella, conforme le regole de gli antichi, Graeci e Romani».14 Ciò che interessa l’autore, più dell’aspetto formale, è proprio il valore sociale del sistema abitativo genovese, riscontrabile dalle specifiche scelte di articolazione dei vani e delle attività immaginate per ciascuno di essi15. I palazzi genovesi, più contenuti delle enormi regge di principi e monarchi europei, avrebbero costituito un esempio innovativo di raffinata edilizia civile esportabile anche in altri contesti proprio per queste caratteristiche.

Rubens fa un bel discorso per convincere i suoi corregionali che i parametri della cultura abitativa nordica – buon gusto e comodità – non si scontrano affatto con la cultura neorinascimentale. E propone la ricetta: «un cubo solido col salone in mezzo ò vero ripartito in apartamenti contigui sensa luce fra mezzo.» Ma le case restano a schiera e le facciate, anche quando perdono le aguzze cornici gotiche, non ne acquistano di rinascimentali.16

Nella raccolta curata da Rubens la base cubica alessiana cui abbiamo accennato sopra, sembra essere la costante della dimora, un carattere accomuna tanto palazzi urbani quanto residenze di

12 Cfr. I.M. Botto, P.P. Rubens e il volume «I Palazzi di Genova», in Biavati, 1977, pp. 59-60. Cfr. anche Poleggi, Cevini, 1981, p. 117.

13 P. P. Rubens, I Palazzi di Genova, edizione a cura di F. Caraceni Poleggi, Genova, Tormena Editore, 2001, p. 2. Cfr.

anche anche Boccardo, 2004, p. 7.

14 Cfr. Rubens, Caraceni Poleggi, 2001, p. 2.

15 Cfr. Botto, 1977, pp. 59-60. Per la differenza del libro di Rubens dagli altri trattati di architettura d’ambito fiammingo cfr. anche Poleggi, 1977, pp. 91-92.

16 F. Caraceni Poleggi, Palazzi di Genova. Introduzione, in Rubens, Caraceni Poleggi, 2001, p. 7.

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villeggiatura17. Qui emerge un altro dei caratteri peculiari del sistema abitativo genovese, che articola palazzi, ville e giardini in un coerente insieme di alternanza fra otium e negotium, senza rinunciare alla possibilità di sfruttare i soggiorni in villa di ospiti d’eccellenza per rinsaldare legami politici e alleanze (cfr. anche § 2.2).

Emerge allora un carattere di sperimentazione che, proprio della situazione genovese in diversi snodi storici, trova nel sistema di palazzo-villa-giardino un significativo e riuscito esempio. […] Anche la mancata differenziazione tra città e villa ripropone un’immagine ‘esterna’ della città che, nella continuità del costruito – immagine più volte ribadita dai viaggiatori – si dà come unitaria città moderna, tra le direttrici costiere e il centro urbano […].18

Il valore ricreativo e, potremmo dire, terapeutico delle zone di orti e giardini che costellavano i borghi rurali era già molto chiaro all’epoca alle istituzioni della Repubblica, che prestava attenzione a mantenere liberi la veduta e il passaggio nelle proprietà, al fine di permettere il godimento di questi luoghi di delizia e di produzione agricola19, tanto che era comune l’uso di offrire in dono ai vari esponenti dell’aristocrazia europea piante, fiori, pietre rare, coralli e altri oggetti preziosi provenienti dai propri giardini20.

Magnani fa notare come la continuità fra spazio urbano e spazio di villa che abbiamo precedentemente menzionato diventò un elemento di riconoscibilità del territorio genovese molto più forte perfino delle opere di edilizia pubblica promosse dalle istituzioni repubblicane: le possenti mura erette tra il 1626 e il 1632, che inglobavano al loro interno anche la precedente cerchia di

17 Da notare l’osservazione di Piero Boccardo a proposito del valore sociale delle residenze dell’aristocrazia genovese:

non sempre questo nuovo modo di costruire divenne uno status symbol irrinunciabile. «Famiglie con grandi risorse economiche affidarono la promozione della loro immagine all’edilizia di prestigio, mentre altre con pari o maggiore disponibilità preferirono mantenere le loro sedi storiche d’origine medievale; alcuni membri di grandi casate, specialmente se cadetti, passarono l’esistenza in pur nobili dimore d’affitto, mentre altri impiegarono grosse cifre nell’acquisto di imponenti palazzi […].» La citazione è tratta da Boccardo, 2004, p. 7.

18 L. Magnani, Articolazione e immagine del sistema abitativo della nobiltà genovese tra spazio urbano e spazi di villa, in M. Fagiolo (a cura di) Atlante Tematico del Barocco in Italia – Il sistema delle residenze nobiliari, Italia settentrionale, Roma, De Luca Editore, 2008, p. 70. (d’ora in avanti “Magnani, 2008 a”) Sul tema della continuità fra spazio cinto da mura e i borghi rurali, molte descrizioni storiche affermano come la percezione di un visitatore straniero potesse essere quella di una città che si estendeva per un tratto di territorio ben più lungo di quello effettivamente definibile come urbano: nel 1514 Giovanni Maria Cattaneo afferma che «un forestiero crederebbe che Genova inizi da Quarto e finisca a Sestri», mentre Paolo Giovio sostiene che le costruzioni siano tanto fitte che «di esse tanto, nel raggio di quattro miglia, è fitto il numero che a coloro che navigano verso il porto sembra di vedere una sola città ininterrotta e grandissima». Questi brani di descrizioni contemporanee all’edificazione dei borghi di villa del primo Cinquecento sono riportati in Magnani, 1987, p. 11 e p. 21 note 1-5.

19 Cfr. Magnani, 1987, p. 47.

20 Cfr. L. Magnani, Genoese Gardens. Between pleasure and politics, in M. Conan, C. Wangheng, Gardens, city life and culture: a world tour, Washington, Dumbarton Oaks, 2008, p. 61. (d’ora in avanti “Magnani, 2008 b”)

53 Fig. 7

Antonio Giolfi, Veduta del quartiere di ville a Sampierdarena e della Lanterna, 1769, incisione. Genova, collezione privata.

fortificazioni del Cinquecento, a nulla valsero a difendere la città dal bombardamento subito nel 1684 ad opera della flotta di Luigi XIV. Al contrario, la corolla di borghi di villa che circondava la città su entrambi i versati di Levante e Ponente, rimase fino all’Ottocento un tratto distintivo nel condizionamento della percezione del paesaggio da parte dei visitatori stranieri (fig. 7)21.

Perfino il sistema delle Vie Nuove ricevette maggior propulsione dall’edilizia privata che da quella pubblica. Strada Nuova sorse come sappiamo dalla lottizzazione di terreni precedentemente edificati entro il tessuto medievale e rinnovati con gesto quasi palingenetico dalla nobiltà cittadina che vi fece erigere i propri moderni palazzi22; Strada Balbi, frutto della cooperazione fra privati e istituzioni repubblicane, rappresentò un intervento di edilizia «totalmente gestito dalla potenza economica della famiglia»23. È questa un’ulteriore dimostrazione di come l’iniziativa delle singole

21 Cfr. Magnani, 2008 a, pp. 72-74.

22 Cfr. infra.

23 Cfr. Magnani, 2008 a, p. 74.

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casate aristocratiche, che fossero esse di antica o più recente nobiltà, abbia promosso l’ammodernamento del tessuto urbano: un impulso all’ampliamento del patrimonio immobiliare delle famiglie che determina l’assetto, la forma e l’estensione del territorio genovese tra metà Cinquecento e inizio Settecento24.

La continuità è un carattere che definisce non solo la percezione di città e borghi di villa, ma, nell’ambito delle singole fabbriche, costituisce il criterio di organizzazione dello spazio stesso fra palazzo (o villa) e giardino. L’articolazione degli spazi per le ville rispecchiano le medesime strutture dei palazzi di città, con la differenza che nei luoghi dedicati all’otium si allargano le aree dei giardini, spesso suddivisi in una parte “domestica” (il giardino all’italiana) e una parte

“salvatica” (un bosco che segnava poi anche i limiti della proprietà)25.

Il rinnovamento della struttura architettonica della residenza di villa, con quella sua struttura cubica citata come modello quasi esclusivo da Rubens, ha le sue radici nella proposta classicista di Galeazzo Alessi, che

Organizzò l’edificio attorno a un asse centrale con un portico aperto sul prospetto sud e una loggia su quello nord. Visto dall’interno del palazzo, il paesaggio era incorniciato dall’architettura e diventava spazio di giardino […]. Le finestre del salone principale del palazzo si aprivano su una piccola vallata che scendeva verso il mare, comprendendo […] una combinazione di orti per la coltivazione e giardini di piacere26.

A sua volta, tale struttura venne reimportata dalle prime ville suburbane alessiane ai palazzi di città, e da questi alle nuove ville, fra cui quelle del borgo di delizie di Sampierdarena. Un altro significativo elemento introdotto dall’Alessi è quello della grotta artificiale (figg. 8-9), una

24 Come fa notare Poleggi, l’ammodernamento edilizio delle “strade nuove” deve i suoi caratteri peculiari anche alla precisa orografia del territorio genovese, nonché alla necessità di edificare su un tessuto medievale pre-esistente.

Ricorda infatti lo studioso: La complessità dei problemi posti dagli interventi, quasi sempre condotti su tessuti edilizi antichi e costipati, e la necessità ancor più delicata di una equilibrata soluzione degli interessi pubblici e privati, dimostrano ampiamente quanto fosse consumata l'abilità amministrativa e tecnica del Magistrato competente nel fronteggiare una domanda di rinnovo che, per essere molto estesa e avviata a ottenere volumi architettonici inusitati, avrebbe fatto «saltare» l'assetto di un manufatto urbano condizionato da una sottile modellazione medievale, da una tradizionale abitudine degli insediamenti nobiliari a conservare le antiche localizzazioni e dalla stessa conformazione orografica del «sito». Brano tratto da Poleggi, 1977, p. 85.

25 Cfr. Magnani, 2008 a, p. 81.

26 Cfr. Magnani, 2008 b pp. 57-58 (traduzione dall’inglese mia).

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Fig. 8

Grotta Doria (fonte del Capitan Lercaro), fine XVI sec. Volta del padiglione ottagonale con mosaici polimaterici peculiarità dei giardini genovesi che nel corso del Seicento divenne così nota a livello europeo da suscitare imitazioni in tutto il continente27.

È Vasari a darci le prime importanti informazioni sulle grotte artificiali, definite fonti rustiche, all’interno della sua seconda edizione delle Vite (1568), soffermandosi sulle diverse soluzioni sperimentate dall’architetto perugino per arricchire i giardini dei nobili genovesi28. Elemento ibrido per eccellenza, la grotta artificiale si situa come tramite fra la creazione naturale e quella umana, all’interno del giardino che è esso stesso una porzione di natura antropizzata, “domesticata”, controllata e gestita dall’uomo. Le fonti rustiche diventano luoghi di incontro fra l’abilità di costruttori e decoratori da un lato e l’aura misteriosa degli elementi naturali dall’altro; i soggetti scelti per la decorazione, prevalentemente musiva, vengono tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, poema che per eccellenza racconta la fusione di uomo e natura attraverso miti incatenati fra loro.

27 Cfr. Magnani, 1987, pp. 97-101

28 Cfr. G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti ed. a cura di M. Marini, Roma, Grandi Tascabili Economici, 1997, pp. 2858-2859. Versione ebook distribuita da LiberLiber all’indirizzo:

https://www.liberliber.it/mediateca/libri/v/vasari/le_vite_dei_piu_eccellenti_pittori_etc/pdf/vasari_le_vite_dei_piu_ecce llenti_pittori_etc.pdf

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Fig. 9

Grotta Doria (fonte del Capitan Lercaro), fine XVI sec. Padiglione ottagonale. Genova

Nel mondo sotterraneo si concretizza un approccio verso i misteri della natura condotto in più direzioni: quella intellettuale, attraverso le complesse figurazioni delle grotte, il loro alludere ai miti e alla sapienza degli antichi, e quella sensoriale attraverso l’esaltazione delle facoltà percettive e l’immediato coinvolgimento dei sensi dello spettatore, che, come in un viaggio iniziatico, recupera nella grotta – antro-seno materno – il contatto con le origini e i meccanismi della vita.29

Le grotte sono luoghi misteriosi, affascinanti e, benché costruiti dall’uomo, carichi di un’atmosfera ancestrale che si manifesta già nell’atto di entrare, spesso scendendo rispetto al livello del giardino, in un mondo diverso. E questo mondo divenne frequentemente scenario di momenti di svago, banchetti, concerti, cerimonie offerte dai proprietari delle ville agli ospiti illustri, come nel caso

29 Magnani, 1987, p. 81

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Fig. 10

Grotta Pavese, fine XVI sec., Genova, Villa Pavese ora Istituto Madri Franzoniane della grotta Pavese (figg. 10-13), luogo in cui venne preparato il banchetto privato in onore del Duca di Mantova Vincenzo Gonzaga nell’estate del 1607 (cfr. § 2.2).

Definita dall’architetto tedesco Joseph Fürttenbach30 come la più elegante di tutta Italia, la grotta fu probabilmente costruita in occasione delle nozze fra Camillo Pavese, proprietario della villa, e Maria Doria figlia di Giovanni Battista, celebrate nel 159431. La sua fama non era diminuita all’inizio del Seicento, quando Pieter Paul Rubens, probabilmente a ridosso di uno dei suoi soggiorni genovesi, ritrasse una giovane aristocratica (Giovanna Spinola Pavese?) nel suggestivo scenario di una grotta che sembra avere elementi riferibili al ninfeo di villa Pavese (cfr. capitolo 4,

30 J. Fürttenbach, Newe Itinerarium Italiae, Ulm, 1627, p. 220.

31 Cfr. L. Magnani, Tra magia, scienza e meraviglia: le grotte artificiali dei giardini genovesi nei secoli XVI e XVII.

Catalogo della mostra (Genova, Palazzo Bianco – Sale Didattiche, 12 luglio – 9 settembre 1984), Genova, Sagep, 1984, p. 20.

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Fig. 11

Pianta della Grotta Pavese, da Joseph Fürttenbach, Newe Itinerarium Italiae, Ulm, 1627, p. 220 figg. 33-34)32. Nella scansione degli spazi della proprietà, la fonte si trova in una posizione strategica che sembra volerla presentare come la “cerniera” fra la natura antropizzata del giardino e quella selvaggia del bosco, essendo inserita lungo la terrazza colonnata e ornata di statue che delimitava il lato nord del giardino all’italiana33.

Come evidenzia la pianta riprodotta da Furttenbach (fig. 11), al centro della struttura spicca un’isola circolare, circondata da un anello d’acqua: è la metaforica riproposizione della terraferma circondata dall’Oceano (fig. 12). A sottolineare ulteriormente questa dimensione universale sono le figure a mosaico della volta a crociera dell’atrio, che rappresentano le Horai, «stagioni dei tempi» e

«stagioni dell’anno», secondo Cartari, e quelle delle volticine laterali, i quattro elementi che danno origine alla vita34.

32 Cfr. A. Leonardi, Genoese Way of Life. Vivere da collezionisti tra Seicento e Settecento, Roma, Gangemi, 2013, p.

18. Per il ritratto di Rubens, confluito nella collezione di Gio. Filippo Spinola, cfr. Boccardo, 2004, scheda 120. Cfr.

inoltre § 4.3 del presente studio per i dipinti.

33 Cfr. Magnani, 1984, p. 20 e idem, 1987, p. 90.

34 Cfr. Magnani, 1984, p. 20.

59 Fig. 12

Grotta Pavese, dettaglio dell’anello d’acqua.

Le Horai, in vesti policrome, suonano strumenti dell’epoca, liuti, viole e chitarre, con un richiamo all’iconografia musicale che sembra voler alludere da un lato alle funzioni ricreative della grotta, e dall’altro a quell’idea di continuità e unità delle arti che scivolano l’una nell’altra.35. In un gioco metamorfico di arti, artificio e natura, la grotta, elemento appartenente a quest’ultimo regno, diventa qui invece completamente frutto dell’ingegno umano dei costruttori che piegano i materiali naturali al capriccio della decorazione figurativa e ornamentale:

minuscoli ciottoli neri delineano con eleganza i contorni delle figure; ciottoli bianchi, neri e gialli formano il mosaico pavimentale; cristalli, frammenti corallini e conchiglie si uniscono a decorazioni in pasta vitrea per impreziosire l’interno della struttura (fig. 13)36.

35 Da ricordare anche l’ulteriore lettura della decorazione musiva proposta da Magnani, sulla base dell’interpretazione delle figure da parte di Cartari: identificando le Horai con le Grazie, e i quattro elementi come le forze da cui scaturisce la vita, possiamo decifrare un’allegoria in riferimento al matrimonio fra i committenti della grotta, Camillo Pavese e Maria Doria. Cfr. Magnani, 1984, p. 20 e idem, 1987, p. 90.

36 Cfr. Magnani, 1984, p. 25.

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Fig. 13 Grotta Pavese, dettagli della decorazione musiva polimaterica: in evidenza le tessere di pasta vitrea e i ciottoli

L’estrema varietà di forme permette gli usi più disparati dalla definizione di particolari dei volti, occhi, orecchi delle erme, alla resa delle piume delle aquile o al pelo del leoncello di grotta Pavese.

La diversa forma e cromia dello stesso tipo di conchiglie come le telline bianco-rosa o le donax viola-bianche, usate ora mostrando la parte concava, ora quella convessa, permette di raggiungere rese cromatiche variate ed effetti di sfumato. […] Le conchiglie generate dalla spuma del mare costituiscono la materia prima per rappresentare, in una metafora che coinvolge materiali e figure, le stesse onde, il mare di cui sono riferimento simbolico.37

Metamorfosi di materiali, di tecniche, di arti che si rispecchiano nelle metamorfosi descritte nella cupola: Atteone trasformato in cervo, Salmacide ed Ermafrodito. Le erme e le figure di ninfe si presentano come personaggi che segnano il confine fra i due mondi, fra la terra ferma e l’oceano, fra la parte domestica e quella selvaggia, abitata da creature mostruose e costituita di concrezioni calcaree, stalattiti, elementi naturali che non vengono in questo caso ri-assemblati a creare forme ordinate, bensì lasciati nella loro essenza materica originaria: l’esaltazione più sublime

37 Ivi, p. 26.

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dell’artificio, che si mostra nascondendosi per dare l’impressione al visitatore di trovarsi in un luogo dove non c’è traccia dell’azione umana38.