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Fare la spesa, cucinare, mangiare, pulire

5.3. Uno spazio condiviso

Il legame familiare si esplica nella cucina non solo attraverso le pratiche devozionali e d‟«amore» del fare la spesa, cucinare, e così via, ma anche attraverso la condivisione dei pasti quotidiani.Nella maggior parte delle cucine che abbiamo visitato, ovviamente quelle dove c‟è abbastanza spazio, è sempre presente un tavolino che viene utilizzato dalla famiglia per consumare i pasti. Laddove compare un tinello - moderna riproposizione della sala da pranzo – esso viene a sostituire la funzione del tavolo di cucina, comunque presente, usato magari per pasti solitari o come piano d‟appoggio in occasione di cene con gli amici, la cui preparazione richiede solitamente più spazi a disposizione. Dunque nella cucina, per la maggior parte delle famiglie, avvengono sia i riti quotidiani della preparazione del cibo sia quelli legati al suo consumo. Nei commenti delle persone intervistate, questo spazio è identificato spesso non solo come luogo dove la moglie/madre passa molto tempo, ma anche come luogo di vita comunitaria. Nella conversazione avuta con Mauro questa doppia valenza viene espressa chiaramente:

«Nel salotto normalmente ci vivo più che altro io. Dove, nella zona dove c’è la parte di salotto, perché c’è la televisione, che è uno degli oggetti che non è condiviso, come gusti, fra i vari componenti della famiglia. Per cui, poiché in cucina normalmente ci vive di più Daniela, perché è lei che si occupa quasi esclusivamente del mangiare… e

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conseguentemente è l’ambiente dove lei soggiorna di più. Allora, siccome c’è la televisione anche dall’altra parte, questa viene usata in maniera particolare da me, per cui ci soggiorno diverso tempo. Anche se devo leggere qualcosa, lo leggo più volentieri di qua che non in cucina o in camera. Marco ha la sua stanza giù, quindi in effetti quando deve passare diverso tempo libero se lo passa giù. C’ha la televisione e c’ha il computer, che però è anche mio, per cui se lo devo usare vado giù. Il computer Daniela c’ha il suo e se lo porta in cucina. Certo, perché lei, perlomeno in questa casa… la stanza sua è la cucina. […] Voi direte, ma quand’è che parlate? Si parla, non è che… A tavola! Lo spazio normale è la cucina, perché noi siamo abituati, essendo in tre, a occupare quello spazio per pranzo e cena. Questa parte qui, che invece è della sala, viene usata quando ci sono degli ospiti, normalmente la domenica, perché c’è la famiglia di Daniela»

Il pranzo e la cena quindi sono occasioni in cui tutti i membri della famiglia si riuniscono quotidianamente non solo per mangiare, ma anche per condividere pensieri e informazioni, per discutere, insomma, per interagire. La tavola,che di fatto rappresenta un oggetto fisico, ha un valore fortemente simbolico: è qui che tradizionalmente avviene il processo legato alla distribuzione del cibo, dunque rappresenta un bene materiale che viene associato alla condivisione dei pasti e allo scambio di conversazioni spontanee e

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prolungate tra chi vi siede 162. Il quadro che emerge dallo studio sulla conversazione a tavola di un buon numero di famiglie italiane di classe media, condotto da Clotilde Pontecorvo, consente di affermare che nonostante le previsioni sociologiche sulla dissoluzione della famiglia in Italia e sulla mancanza di dialogo tra genitori e figli, nelle famiglie si parla molto insieme a tavola 163. Certamente oggi per motivi di lavoro, ma anche per una diversa gestione del tempo libero, non tutti tornano a casa per pranzo, e comunque non sempre è possibile concedersi un pasto insieme agli altri della famiglia dal momento che gli orari spesso non coincidono. Questo ad esempio succede a casa di Giulia e Giampiero: lei infatti insegna a scuola e lui ha i turni di lavoro in ospedale come anestesista. Giulia dice:

«[La cucina] la viviamo nel senso… per mangiare, sì. Perché non siamo mai in quattro, e quando siamo in quattro apro il carrello»

Anche Tania non ha sempre potuto condividere i pasti con la figlia:

«A parte quando lavoravo che facevo i turni, a volte ho lavorato anche di notte, fino all’una di notte, oppure magari ho lavorato fino alle nove e mezzo, non puoi pretendere che uno aspetti per la cena. Però prima di uscire mi aspettava, questo sì»

Roberta Sassatelli parla di una “marcata tendenza alla destrutturazione del desinare, per cui i pasti si semplificano, si mangia fuori pasto, spesso da soli e nei luoghi più diversi

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Proprio per questo la cena sta al centro di un lavoro che studia le famiglie, e in particolare i processi di socializzazione, attraverso l‟analisi delle conversazioni a tavola. Il lavoro è presentato in Clotilde Pontecorvo, Francesco Arcidiacono, Famiglie all’italiana. Parlare a tavola, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007.

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senza seguire uno specifico insieme di norme rituali” 164. In effetti oltre all‟abitudine di consumare i pasti al di fuori della propria abitazione e del proprio gruppo familiare, bisogna considerare che, all‟interno stesso dello spazio privato, il pasto non viene più necessariamente consumato in sala da pranzo o in cucina, né alla presenza di tutti i membri della famiglia, ma piuttosto davanti alla televisione, magari in tempi diversi secondo le diverse necessità dei familiari. I sociologi dunque sono portati a pensare ad una trasformazione delle pratiche di commensalismo, considerate invece fino ad oggi come pratiche universali e fortemente radicate.

Per quanto riguarda le interviste effettuate per questo lavoro di ricerca, bisogna dire che l‟immagine restituita non combacia con una riduzione della commensalità: riascoltando le interviste si nota che quasi mai si è parlato di pasti solitari, e i discorsi sulla diminuita abitudine di riunirsi tutti a tavola sono pressoché inesistenti. L‟idea è che il valore della condivisione del cibo risulti ancora importante per le persone intervistate, che quindi cercano di mantenere la consuetudine di stare insieme a tavola. Antonella racconta:

«Sì, no… mangiare sempre insieme, sempre insieme. Magari poteva capitare durante l’estate che i ragazzi andassero a mangiarsi un panino sul mare… va bene. Ma sennò la norma era di mangiare sempre insieme. Ora siamo… a mezzogiorno siamo in tre, perché c’è anche il mio babbo, la sera siamo in due. Ma quando vengono i ragazzi a mangiare siamo noi quattro»

Anche Angela e Mamo hanno sempre mantenuto l‟abitudine di condividere i pasti:

«Sì, regolarmente si mangia insieme. Ci si aspetta. È rarissimo…»

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Roberta Sassatelli, L'alimentazione: gusti, pratiche e politiche, «Rassegna Italiana di Sociologia», 2004, 4, pp. 475-492.

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Per Luciana, così come per molte altre persone, la cucina rappresenta il solo spazio di incontro con la figlia e il marito durante tutto l‟arco della giornata:

«Chiaramente c’è l’ora del pasto in cui siamo tutti insieme. La cucina è l’unico posto… Dove siamo in tre insieme è la cucina. Perché bene o male, mentre si prepara… o dopo… se si deve parlare… si è in cucina. Poi ognuno va nel suo spazio, se devo parlare devo andare a raggiungere nel proprio spazio!»

La cucina solitamente fa da sfondo ai pasti quotidiani, mentre quando ci sono ospiti generalmente viene usato il tinello, se c‟è, altrimenti si mangia in sala. Mauro parla di pranzi domenicali fatti in sala con la famiglia di Daniela, Angela racconta di quando i figli erano piccoli e la sala veniva usata giusto come «luogo di ricevimento quando venivano più persone», Debora e Tommaso invece decidono dove apparecchiare a seconda delle circostanze:

«Se vengono degli amici decidiamo al momento se mangiare qui o di là, dipende quanti siamo, dipende un po’ com’è la serata… Un po’ qui, un po’ di là. Ora è estate qui [in cucina] fa caldo perché è esposta a sud e allora tendiamo a stare di là, d'inverno si sta meglio di qua perchè c'è il forno...»

La preparazione del cibo e la sua offerta a parenti, amici e ad altre persone che si pongono al di fuori della famiglia nucleare costituiscono un veicolo attraverso il quale mantenere i rapporti interpersonali: consumando insieme un pasto si sanciscono, si confermano e si rafforzano i legami che fondano la rete di relazioni sociali di un

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individuo o di una famiglia. Le case allora vengono attrezzate per poter ospitare un numero consistente di persone in nome della convivialità. A questo proposito Tommaso dice:

«Abbiamo un piano di compensato che raddoppia il tavolo, diventa da dodici persone… lo appoggiamo sopra»

Antonella invece:

«Questo tavolo qui si gira e si raddoppia, e allora fino a otto-dieci persone ci si sta abbastanza comodi, e quindi si sta qui perché è più semplice, altrimenti si va di là [in salotto, dove c’è un altro tavolo allungabile]»

Spazi diversi e tavoli diversi per occasioni differenti. Ma anche cibi diversi: “la diversità e l‟eccezionalità alimentare è rappresentata dall‟ospitalità; sono le occasioni di commensalità, a prescindere dai calendari religiosi o del ciclo della vita, a distinguere i menù” 165. In particolare, secondo Mary Douglas c‟è una relazione inversa tra la frequenza con cui si consumano certi cibi e si usano certi oggetti e il loro valore di rango, per cui i generi alimentari “possono discriminare tra le diverse fasi della giornata e distinguere un giorno dall‟altro; oltre che gli eventi che si succedono nell‟arco dell‟anno, possono contraddistinguere anche momenti del ciclo di vita come i funerali e i matrimoni” 166. D‟altronde uno dei presupposti dell‟etnografia, sebbene

tradizionalmente applicato agli studi sulle società tribali, è che tutti i beni materiali sono

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Caterina Di Pasquale, Dal peccato all’eucarestia: voci e percezioni del dono del cibo, «Religioni e società», 48, 2004, 1, p. 90.

166

Mary Douglas, Baron Isherwood, Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, Bologna, Il Mulino, 1984 (ed. or. 1979), p. 126.

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dotati di significati sociali, dunque oltre alla loro utilità - nel caso dei beni alimentari legata al nutrimento - servono a creare e a conservare i rapporti sociali, a “rendere visibili e stabili le categorie della cultura” 167

. Dunque nella busta della spesa ci saranno cose per la famiglia e cose, meno ordinarie, espressamente riservate agli ospiti. Le persone che invitiamo, la frequenza con cui le invitiamo, il cibo e le bevande offerte, la conversazione con cui le intratteniamo sono tutte scelte che esprimono e creano la cultura 168. Mangiare è aggregare ma anche distinguere: sia Douglas sia Bourdieu mostrano come le pratiche di consumo - anche quelle legate al consumo di cibo - riflettano e allo stesso tempo riproducano la struttura sociale. Ogni pasto è un evento sociale strutturato in cui si esprimono e si realizzano classificazioni culturali e distinzioni sociali: le modalità con cui la tavola viene apparecchiata, i criteri con cui i commensali scelgono i posti intorno alla tavola imbandita, i gusti che traspaiono dalla scelta dei cibi, insomma, cosa si mangia, come e con chi sono fattori che definiscono la propria identità sociale 169.

Dunque il cibo costituisce un particolare oggetto di cultura materiale domestica, che, al pari degli oggetti fino ad ora analizzati, detiene un valore simbolico. Come giustamente ricorda Caterina Di Pasquale “da quando il cibo e la mente umana hanno plasmato la natura, in ogni dove e in ogni tempo, il cibo ha assunto valori simbolici, divenendo mediatore di significati sociali, culturali e religiosi” 170. Per questo motivo esso è stato già in passato oggetto privilegiato di rilevazioni etnografiche e motivo di riflessione da parte di alcuni studiosi dell‟antropologia e della sociologia classica. Tuttavia è solo a partire dalla fine degli anni settanta che intorno al cibo comincia a consolidarsi un‟apprezzabile costellazione di specifici lavori che si pongono nel campo

167 Ibidem, p.66. 168

Ibidem, p.64.

169

Clotilde Pontecorvo, Francesco Arcidiacono, Famiglie all’italiana. Parlare a tavola, cit., p.114. Cfr. anche Roberta Sassatelli, L'alimentazione: gusti, pratiche e politiche, cit., p. 480.

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delle discipline umanistico-sociali. Il fatto che per lungo tempo le dissertazioni sul cibo e sull‟alimentazione abbiano rappresentato per la comunità scientifica italiana e internazionale un sapere di serie B è da imputare, secondo Sassatelli, ad un diffuso e grossolano modo di pensare per il quale era da ritenersi scientificamente privo di significato non solo “tutto ciò che aveva il sapore del quotidiano, ma anche tutto ciò che era legato alla sfera domestica e quindi, sulla scorta di un‟eredità ottocentesca difficile da eliminare, al lavoro femminile, di cui quello in cucina è certamente uno tra i più creativi” 171. Il cibo, da interesse di ricerca di pochi studiosi di scienze umane e sociali, inizia progressivamente a diventare oggetto di riflessione per un numero sempre maggiore di sociologi, antropologi, storici, psicologi e demologi, “non più ancorati a paradigmi riduzionistici del proprio sapere disciplinare e sempre più “sensibili” al crescendo mediatico-commerciale coagulatosi attorno al cibo” 172.Tra le diverse linee di ricerca che sono state sviluppate nello studio del cibo esiste una certa variabilità riguardo agli elementi presi in considerazione, che possono essere tanto il cibo in senso stretto, quanto le sue modalità di produzione o di consumo.

Un aspetto non ancora trattato in questa sezione, dedicata alla condivisione della cucina come spazio per la produzione e il consumo di cibo, è il valore di quest‟ultimo come evocatore di ricordi, valore che conferisce alla cucina stessa la caratteristica di luogo di memorie. Il cibo inevitabilmente ci riporta al ricordo di gesti, sapori ed odori del nostro passato biografico, facendo riaffiorare, in modo volontario o involontario, le nostre esperienze intime, il più delle volte legate al nostro contesto di origine: immagini della famiglia seduta a tavola, della mamma che preparava gli odori per il sugo al ragù,

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Roberta Sassatelli, L'alimentazione: gusti, pratiche e politiche, cit., p. 475.

172 Ernesto Di Renzo, Oltre l’edibile. Su alcune valenze antropologico-culturali del cibo, «Economia della cultura»,

Bologna, Il Mulino, 20, 2010, 1, p. 59. Solo per citare alcuni di questi studiosi si possono ricordare le ricerche di Goody (1982), Harris (1985), Warde (1996), Lupton (1996). La «sociologia dell‟alimentazione» ha così assunto il carattere di una specializzazione sub disciplinare. In Italia il cibo è soprattutto al centro di una tradizione di studi storici che può essere rappresentata da Camporesi, Capatti e Montanari.

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o la voce della nonna che raccontava come ci si doveva comportare a tavola, come si preparavano gli gnocchi fatti in casa, e così via. Mentre si sta cucinando e mangiando, a volte il ricordo e le reminiscenze sorgono istantaneamente, a volte invece dobbiamo andare a ricercarli volontariamente nella memoria, ad esempio quando vogliamo ricostruire una ricetta non scritta o quando a nostra volta vogliamo trasmettere dei saperi. In questo modo il cibo e le memorie che ad esso si legano assumono un ruolo fondamentale nel creare un ponte tra le diverse generazioni all‟interno della famiglia, ma anche nel mantenere un legame con la propria terra d‟origine.

Patrizia è sposata con Karim, che a diciotto anni ha lasciato il Marocco per intraprendere gli studi in Francia. Nella loro cucina ci sono degli oggetti legati al cibo che sono identificativi delle origini di Karim: le ceramiche tipiche marocchine e alcune tajine.

Patrizia racconta:

«Mio marito fa… fa le tajine. Fa benissimo il cous cous, quello lo fa molto bene. Cioè, queste cose così. […] Gli ospiti… per esempio tutti gli anni c’è il cous cous tradizionale, perché lui deve… Sì! Ogni anno c’è questa serata del cous cous»

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Anche i signori Prestigianni non hanno sempre vissuto a Livorno, prima abitavano a Palermo. Quando raccontano cosa sono soliti cucinare richiamano subito alla mente i piatti tipici siciliani: «le arancine di riso», «la pasta con le sarde», «la pasta con i broccoli». Rosalba dice:

«Cannoli… queste cose qui… quelle le fa lui perché c’ha piacere»

Vittorio infatti dichiara:

«Quella… noi ci teniamo alla tradizione siciliana»

Dunque il cibo può evocare altri luoghi e altri tempi, legati in ogni caso alla propria identità. Luciana a proposito della cucina della sua casa di origine ricorda il lavoro svolto dalle donne della famiglia:

«In casa mia si occupava di tutto la mia mamma, con l’aiuto di una donna che veniva qualche volta la settimana e aiutava un pochino a fare le pulizie. Poi, finché è stata in gamba, nonna si occupava del mangiare… era suo. Mamma tutto ciò che era pulizie, bucati, stirare,tutte queste cose qui. Mamma aveva la conca, poi a un certo punto è arrivata la lavatrice. La conca me la ricordo bene. E poi avevamo una zia che abitava con noi e lei era… il suo compito era la cena la sera. […] Dunque, io in casa essendoci già tre donne, nonna, mamma e zia, non c’era bisogno del mio aiuto a parte a Pasqua asciugare i piatti!»

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I ricordi di Dalia spaziano dalle ricette imparate dalla mamma, «cose che qui non ci sono che ho imparato da lei: l'agnello all'umbra, la famosa amatriciana...», all‟uso che la sua famiglia faceva della cucina:

«Io abitavo in una casa di struttura antica e vicino all'ambiente cucina c'era una specie di ripostiglio... […] dove inizialmente c'era un camino... e poi questo camino è stato eliminato. C'era questo piano di marmo e sotto questo ripostiglio per questa conca che era enorme e veniva riempita con acqua bollente e... c'era questa signora che veniva una volta alla settimana apposta per fare questi bucati. [...] E quindi quando è arrivata la lavatrice è stata una rivoluzione. […] Quindi è stata eliminata questa famosa conca che per portarla via è stato un bel lavoro... e prima della lavatrice è entrata in casa la televisione che anche quella... è stata una bella innovazione... io mi ricordo di tanti programmi ascoltati alla radio, gialli, romanzi. […] In cucina... fai conto che la cucina in casa mia era grandissima... sei metri per sei metri»

A volte il ricordo del saper fare di altri tempi porta a rifiutare l‟uso delle moderne tecnologie, che si sono progressivamente diffuse su larga scala a partire dal secondo dopoguerra, modificando profondamente e rimpiazzando almeno parzialmente vari aspetti del lavoro domestico. La stessa Dalia mi dice di usare lavastoviglie e lavatrice, che per lei sono indispensabili, ma per quanto riguarda i vari robottini da cucina afferma:

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Per cui preferisce fare tutto a mano, tanto che le chiare montate a neve le «vengono benissimo con la forchetta».

Questa stessa scelta di evitare le tecnologie e lasciare più spazio al lavoro manuale è messa in atto quotidianamente da Angela e Mamo, che sono consapevoli di non comportarsi come avviene nella maggioranza delle abitazioni, tanto che loro stessi dichiarano con ironia:

«Quindi ti ho detto, faremo parte, forse, di una curva di Gauss…»

Angela infatti racconta:

«Non c’è tecnologia. Niente. Qui è tutto lavoro manuale. Libera scelta. Nel senso che… né aspirapolvere, né lucidatrice… […] Ce l’avevamo. Abbiamo avuto tutto, ma l’abbiamo dato tutto ai figli. Perché tanto… non mi piace l’aspirapolvere in sé per sé, come rumore. Poi ci si adeguerà piano piano. […] Si usa di più l’oggetto manuale, e pazienza! Anche in cucina di elettrodomestici niente. Non c’è niente, troverai solo la lavatrice. Cosa c’è di elettrodomestici? Nulla!»

Mamo: «No, niente»

Angela: «C’è un fornino. […] Io penso che l’unica cosa che portino sia un alleggerimento nel riordinare in un momento di maggior confusione. Però nella vita quotidiana… onestamente della lavastoviglie non ho mai sentito l’esigenza. Proprio zero. La lavatrice chiaramente sì»

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«Debitamente conservati chiusi. C’è il tostapane, c’è il frullatore, c’è tutto. Ma vengono usati pochissimo. Anche montare quasi tutto a mano. Pentola a pressione esiste, ma si cucina in maniera diversa. Non lo so, forse è una scarsa abitudine a usare… perché mi piace fare a mano. […] Ecco, l’unica cosa è il frullatore che si è usato tanto, quello sì, quando c’erano i bimbi piccoli quello sì, ma ora molto meno. Tante cose si fanno a mano, si impasta a mano, ho comprato anche la macchina per fare la pasta. Tante cose, ma poi si fa tutto a mano»

Come osserva Angela stessa, le abitudini sono rimaste quelle che avevano nelle loro case d‟origine. Un tale atteggiamento si riscontra anche in altre interviste, sebbene non in modo così pronunciato. È un modus vivendi in cui si può leggere non solo la volontà