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IV.1. Di alcuni punti preliminari sullo spazio scenico

Come abbiamo evidenziato nel precedente capitolo, la questione della presenza deve essere discussa in relazione a una certa conformazione dello spazio scenico. Pertanto dedicheremo questo capitolo all’esplorazione delle diverse dimensioni spaziali che la scena tecnologica contemporanea organizza. Partiremo da una doppia articolazione del problema: quella inerente la relazione e la conformazione dello spazio all’interno del quale si colloca l’evento performativo. La nuova teatrologia, in modo efficace, ha definito questa questione con il termine di drammaturgia dello spazio1. Cerchiamo di soffermarci in modo adeguato su ognuno dei termini che compongono questa locuzione. La drammaturgia. Per drammaturgia non si intende semplicemente l’articolazione e la stesura di un testo scritto ma, in modo decisamente più complesso, l’intera scrittura dell’opera. Chiaramente, come lo stesso De Marinis mette in luce, la drammaturgia dell’opera è il prodotto di una serie di drammaturgie parziali, come lo sono quella del testo drammatico, ove fosse contemplata la sua presenza, e le diverse partiture gestuali, sonore e visive che a loro volta si compongono2. Per affrontare il secondo polo, quello dello spazio, centro della nostra riflessione, è necessario spendere ulteriori riflessioni. È utile, in questa sede, per meglio mettere a fuoco le caratteristiche e le modificazioni che lo spazio subisce con l’introduzione delle tecnologie in scena, partire dalla magistrale analisi offerta da Fabrizio Cruciani ne Lo spazio scenico3.

Quando si cerca di delineare o circoscrivere in una definizione unitaria il concetto di spazio teatrale si pensa comunemente a tre diversi aspetti correlati:

1 Si veda in questo senso l’analisi avanzata da Marco De Marinis in In cerca

dell’attore, Roma, Bulzoni, 2000, soprattutto il primo capitolo. Si veda inoltre L.

Mango, La scrittura scenica, Roma, Bulloni, 2003. 2 Ibid., p. 29.

- la scenografia come insieme di riferimenti visivi che supportano, sulla scena tradizionale, la rappresentazione di un testo;

- il palcoscenico come vero e proprio luogo della rappresentazione, il luogo degli attori;

- il teatro come edificio, spazio architettonico che accorpa le due istanze generalmente separate, il palco e la platea, lo spazio degli attori e lo spazio degli spettatori.

È noto come la scena novecentesca abbia articolato la sua storia sopratutto attorno alla terza di queste dimensioni, privilegiando quella che è stata definita, a più riprese, la relazione che si instaura tra la scena e la platea. A queste potrebbe, inoltre, esserne aggiunta una quarta che in realtà fa più riferimento alla praxis operativa piuttosto che alla definizione generale, e mi riferisco principalmente all’utilizzo di spazi altri, alternativi ai teatri. Tuttavia la vera rivoluzione nella concezione dello spazio scenico novecentesco risiede altrove, soprattutto nell’aver affrontato il problema dello spazio teatrale a diversi livelli.

a)- una prima riflessione potrebbe riguardare, a un livello più generale, l’abolizione delle differenze tra lo scenografo e l’architetto;

b)- nell’aver valorizzato lo spazio di relazione tra la scena e la platea; c)- nell’aver fatto della riflessione sullo spazio una componente interna alla drammaturgia complessiva dell’evento spettacolare.

Chiaramente è a questa terza tendenza che guardiamo con maggior interesse in queste pagine. Fare dello spazio un elemento o una dimensione della drammaturgia significa fondamentalmente rifiutare l’idea che lo spazio sia un dato immodificabile e dato a priori. Qualcosa si colloca esternamente alla composizione dell’evento performativo e all’interno del quale quest’ultimo debba essere semplicemente ospitato. La scena novecentesca insegna invece, in modo del tutto radicale, a sentire lo spazio all’interno del quale si colloca l’evento; sentire lo spazio significa pertanto avere un margine di intervento su di esso, poterlo articolare e, al limite, piegare alle proprie esigenze. Significa inglobare lo spazio nella composizione stessa dell’evento spettacolare. Pertanto possiamo qui tentare una prima definizione del concetto di drammaturgia dello spazio, sulla base della quale procederemo, nei successivi paragrafi, a seguirne le modificazioni che l’introduzione in scena delle tecnologie veicolano.

La drammaturgia dello spazio è dunque una modalità di rapportarsi allo spazio dato, geometrico della scena; esso è da un lato soggetto drammaturgico, portatore di potenzialità di sviluppo. È dunque portatore di una drammaturgia in potenza che aspetta di poter essere attualizzata. Dall’altro, sul versante opposto, lo spazio è anche sempre oggetto drammaturgico, cioè componente sulla quale si interviene per organizzarlo, adattarlo al disegno compositivo4. La drammaturgia dello spazio fa quindi sempre parte di ogni operazione drammaturgica più ampia; il problema è, semmai, quello di seguire e rintracciare – così come abbiamo fatto per la presenza – i diversi gradi di intervento e le modificazioni che lo spazio subisce.

È questa, a nostro modo di vedere, l’idea che comincia a radicarsi nella visione di Adolphe Appia già alla fine dell’ottocento. Per Appia la scena è, prima di tutto, un ritmo; qualcosa che entra in stretta sintonia con i restanti elementi della composizione. Questi aspetti cominciano a delinearsi, con maggiore nettezza, già a partire da un testo come La musique et la mise en scène scritto nel 18995. Cambia qui il grado di consapevolezza con la quale gli uomini di scena guardano allo spazio. Come è noto questa visione di Appia si concretizza nella realizzazione di dispositivi scenici che lo stesso Appia progetta per la scuola di Dalcroze a Hellerau, in Germania. La serie più interessante di questi progetti si chiama Espaces rithmiques come riprova della necessità di articolare lo spazio secondo processi ritmici e dinamici. Appia progetta quindi spazi tridimensionali, forme geometriche praticabili, con una forte tendenza ascensionale ottenuta grazie all’introduzione di scalinate, rampe e altri praticabili. Il punto interessante di questa articolazione dello spazio è che si tratta, in gran parte, di spazi astratti, non figurativi e soprattutto non descrittivi. Lo spazio non è asservito alla componente testuale, si

4 Vedremo più oltre come proprio queste due dimensioni, soggettiva e oggettiva dello spazio vengano messe in discussione radicalmente dall’intervento delle tecnologie. In questo senso, facendo leva sul carattere potenziale dello spazio, la scena contemporanea, che integra le tecnologie nel sistema compositivo, rende manifeste due operazioni: da un lato l’attualizzazione dello spazio, dall’altro la sua virtualizzazione ottenuta grazie alla moltiplicazione di piani spaziali, in primo luogo proiettati.

affranca da essa e si presenta come segno autonomo6. Una componente altrettanto importante di questo pensiero dello spazio è la collocazione della figura dell’attore: all’interno di questa complessa architettura spaziale, l’attore è la figura principale, in qualche modo lo spazio dialoga con l’attore proprio così come il performer dialoga, sulla scena contemporanea, con le proiezioni video e gli spazi virtuali. In altri termini lo spazio fisico è ciò che si presenta nella sua materialità ma anche ciò che può diventare.

È qui che cominciano a delinearsi alcuni passaggi cardine che segneranno e determineranno la rivoluzione scenica del novecento teatrale e coreografico. Da un lato lo spazio non è più quindi il luogo all’interno del quale si colloca il corpo dell’attore e del danzatore; non si parla più di spazio della danza bensì di danza dello spazio, fluttuazione di forme. E questo vale anche per tutte le altre componenti che, nel corso del secolo scorso, cominciano ad assumere una autonomia segnica sempre più articolata; penso alla luce per esempio. Da semplice componente di illuminazione si passa – con Appia e Craig soprattutto – a una vera e propria disposizione architettonica della luce; si pensi, sommariamente, agli screens – originali pannelli mobili – progettati da Gordon Craig, o alle scenografie costruttiviste realizzate da scenografi del calibro di Tatlin per le scene praticabili di Mejerchol’d nella Russia sovietica degli anni venti del novecento.

Tuttavia è qui necessario soffermarsi su quello che, a nostro modo di vedere, rappresenta il punto più interessante della drammaturgia dello spazio: vale a dire la relazione con il corpo in movimento. È esattamente in questo punto che si incontrano le riflessioni sullo spazio di Appia e Craig da un lato e quelle sul movimento di Dalcroze, Laban e Delsaltre dall’altro. Entrambi sono interessati a capire il funzionamento di quel corpo in movimento che compie un’azione in uno spazio. Siamo a un crocevia. Per questi riformatori della scena il problema è quello di pensare un nuovo modo di

6 Intendo qui far notare un punto centrale utile alla chiarificazione del nostro percorso: il termine astratto è qui oggetto di attenzione proprio perché la scena contemporanea, e lo vedremo, lavora propriamente in questa direzione, verso una astrazione – di matrice geometrica – dello spazio. Si pensi alle progettazioni spaziali di Josef Svoboda o di Jacques Polieri solo per citare due tra le figure più innovative in ambito scenografico della seconda metà del novecento.

relazione tra il corpo e lo spazio e il tempo; corpo e movimento devono tornare a fondersi tra loro, non solo per occupare uno spazio, ma per riscriverlo, in modo decisamente più radicale. In questa direzione è necessario ritornare qui – anche solo per una precisazione e dopo averlo introdotto nel capitolo precedente – a guardare a una pratica la cui ricerca, più di altre, ha segnato la sperimentazione tecnologica alla quale questo intervento guarda con in interesse: la figura di Oskar Schlemmer, sopratutto nel periodo in cui sviluppa la sua ricerca presso il Bauhaus. In uno scritto del 1925, Uomo e figura Artistica – senza alcun dubbio il suo scritto più importante e articolato –, Schlemmer affronta la relazione dinamica tra corpo umano e spazio che sono regolati da due punti fondamentali:

- le leggi dello spazio tridimensionale che si sviluppa dalla “matematica” insita nel corpo umano;

- le leggi dell’uomo organico che risiedono nella parte intima dell’essere umano e riguardano tanto le sensazioni quanto l’attività cerebrale e nervosa7.

Secondo Schlemmer la ricerca di una forma scenica che non sia né di impianto naturalistico né di matrice illustrativa deve essere in grado di articolare, nello stesso modo, queste due dimensioni, senza che l’una prevalga sull’altra. Ne deriva, pertanto, l’idea di una organizzazione spaziale che non solamente scrive lo spazio con la sua presenza corporea, ma permette inoltre di costruire relazioni dinamiche con tutti gli altri elementi della scena, dalla luce al suono, verso la definizione di una scena non asservita a criteri mimetici.

IV.1.1. Dallo spazio all’environment

È noto che la scena novecentesca, oltre a ripensare in modo radicale lo spazio interno al teatro, ha anche ipotizzato e praticato la sua fuoriuscita: basti citare, a titolo esemplificativo, Copeau o Laban, per poi arrivare alla seconda metà del secolo con il Living e L’Odin Theatret. Proprio negli anni sessanta il teorico americano Richard Schechner teorizzò lo spazio teatrale come una forma di environment, ambiente

7 O. Schlemmer, F. Molnar, L. Moholy-Nagy, Die bühne im Bauhaus, Mainz, Florian Kupferberg, 1965 (tr. it. di Renato Pedio, Il teatro del Bauhaus, Torino, Einaudi, 1975).