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Tempi di lavoro e valorizzazione delle competenze

Nel documento RAPPORTO ANNUALE (pagine 174-200)

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I II III IV I II III IV I II III IV I II III IV I II III IV I II III IV 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Nuovi paesi membri

Ue15 Italia

Fonte: Eurostat, Labour force survey

Figura 4.1 - Il ciclo occupazionale in Italia, nellUe15 e nei nuovi paesi membri dellUnione europea - Anni 2000-2005 (occupati in età 15-64 anni, variazioni tendenziali)

dell’Unione europea a 15, seppure con un rallentamento tra la prima e la se-conda fase del ciclo, la crescita occupazionale dura ormai da 45 trimestri, con un tasso medio di crescita trimestrale pari all’1,1 per cento (1,2 per cento tra il quarto trimestre 1994 e il quarto trimestre 2002, 0,9 per cento tra il primo tri-mestre 2003 e il terzo tritri-mestre 2005). Il risultato di questo lungo e ininterrot-to periodo di sviluppo ha portaininterrot-to a un incremenininterrot-to di più di 20 milioni di oc-cupati nell’insieme dell’Unione a 15.

Questo risultato straordinario, che fornisce una forte evidenza a favore del-l’integrazione economica europea, sembra estendersi anche ai dieci paesi di nuo-va accessione. Questi, infatti, dal secondo trimestre del 2002 hanno visto miglio-rare la loro performance negativa e dal quarto trimestre del 2003 hanno iniziato una fase di espansione che, con un ritmo medio di crescita trimestrale dell’1,2 per cento, ha fatto registrare negli ultimi quattro trimestri una dinamica occupazio-nale superiore a quella dell’Ue15.

Nel contesto generalmente favorevole della nuova Europa l’espansione occu-pazionale italiana, che ha avuto inizio nel quarto trimestre del 1995 (con un ri-tardo di cinque trimestri rispetto all’Ue a 15) e ha segnato il punto di minimo tra la prima e la seconda fase nel primo trimestre del 2003 (con un ritardo di un tri-mestre rispetto al ciclo Ue 15), è stata anch’essa caratterizzata da una durata sen-za precedenti nella storia repubblicana: 41 trimestri, con il risultato complessivo di un aumento del numero degli occupati di 2,7 milioni di unità rispetto al pri-mo trimestre 1995 (13,8 per cento). La performance italiana, peraltro, è stata per un lungo periodo migliore di quella dell’Ue15. Tra il terzo trimestre del 2000 e il primo trimestre del 2004, la crescita occupazionale trimestrale media dell’Italia è stata dell’1,7 per cento (0,7 punti più di quella dell’Ue15), e nel primo trimestre del 2001 ha superato il valore del 3 per cento. La crescita ha subito un pesante ri-dimensionamento dal secondo trimestre del 2004 in poi: il tasso medio di varia-zione tendenziale è sceso a più 0,7 punti percentuali e, nella seconda parte del 2005, la crescita si è quasi arrestata.

La figura 4.2, che presenta il ciclo occupazionale italiano in rapporto a quello

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I II III IV I II III IV I II III IV I II III IV I II III IV I II III IV 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Germania Regno Unito Francia Spagna Italia

Fonte: Eurostat, Labour force survey

Figura 4.2 - Il ciclo occupazionale in Italia e in alcuni paesi dellUnione europea -Anni 2000-2005 (occupati in età 15-64 anni, variazioni tendenziali)

dei maggiori paesi europei, mostra che la performance del mercato del lavoro ita-liano è stata, sino al 2004, migliore di quella degli altri tre grandi paesi dell’U-nione europea (Germania, Francia e Regno Unito), anche se risultati significati-vamente più consistenti, soprattutto nella seconda fase del ciclo, sono stati otte-nuti da Spagna e Irlanda. Va notata, in particolare, la crisi occupazionale tedesca che, tra il primo trimestre del 2000 e il primo trimestre del 2004, ha causato la perdita di 1,7 milioni di posti di lavoro (-4,5 per cento dell’occupazione totale). Nella seconda metà del 2005 però, grazie anche alla vivace ripresa occupazionale della Germania, la modesta crescita occupazionale italiana è stata sopravanzata da quella di tutti e tre gli altri grandi paesi europei.

Il lungo ciclo occupazionale ha avuto rilevanti effetti sui mercati del lavoro eu-ropei, migliorando sia i tassi di occupazione sia quelli di disoccupazione. Partico-larmente interessante è il confronto tra il dato italiano, quello dell’Unione euro-pea e quello degli Stati Uniti (Figura 4.3). Tra il 1993 e il 2004 il tasso di occu-pazione delle persone in età lavorativa (15-64 anni) cresce, nell’Ue15, dal 60,1 al 64,6 per cento, mentre negli Stati Uniti passa dal 71,2 al 74,1 per cento tra il 1993 e il 2000, e si riduce dal 2001 sino a tornare al livello iniziale nel 2004. Di conseguenza, la distanza tra le due aree, che nel 1996 è di 12,6 punti, dal 1997 si riduce progressivamente e nel 2004 è di soli 6,5 punti.

Il mercato del lavoro italiano segue un andamento abbastanza simile a quello medio dell’Ue15. Nel periodo 1993-1999, tuttavia, l’Italia subisce in misura maggiore gli effetti della crisi occupazionale europea e la sua distanza dalla media dell’Ue15 sale da 7,0 a 8,8 punti percentuali. Dal 2000 in poi, invece, l’Italia ri-sulta favorita dall’intensa crescita occupazionale. Il divario con l’Unione europea si riduce sino a portarsi, nel 2003, a 6,8 punti; ma nel 2004 la caduta della cre-scita occupazionale riporta la distanza a 7,1 punti. In definitiva, la sostanziale analogia tra la dinamica italiana e quella europea consente anche al nostro Paese

45 50 55 60 65 70 75 80 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Stati Uniti Giappone Ue15 Ue25 Italia

Fonte: Eurostat, Structural indicators

Figura 4.3 - Tassi di occupazione in Italia, nellUnione europea, negli Stati Uniti e in Giappone - Anni 1993-2005 (valori percentuali)

di ridurre significativamente il divario nel tasso di occupazione rispetto agli Stati Uniti, da 21,2 punti nel 1997 a 13,6 punti nel 2004.

L’esame dell’evoluzione dei tassi di occupazione in Italia e nei maggiori paesi europei mostra poi il miglioramento relativo italiano nel periodo considerato (Figura 4.4). L’Italia ha ridotto sensibilmente (da 12,0 a 7,4 punti percentuali) il distacco dalla Germania, il cui mercato del lavoro ha subito tra il 2001 e il 2004, come già notato, una fase di consistente ridimensionamento. Si è ridotta, anche se in misura minore (da 6,2 a 5,5 punti), la distanza che separa i tassi di occupa-zione italiani da quelli francesi; ma il divario rispetto al Regno Unito è rimasto pressoché invariato (da 14,3 a 14,0 punti) e, soprattutto, la distanza dalla Spagna si è trasformata, da un vantaggio di 6,5 punti percentuali, in un ritardo di 3,5 punti. Quest’ultimo paese infatti, insieme con l’Irlanda, i Paesi Bassi e la Finlan-dia, è stato protagonista di un “miracolo occupazionale”, che ha portato il tasso di occupazione dal 46,6 del 1993 al 61,1 per cento nel 2004, con un guadagno di 14,5 punti percentuali. Analogo è l’incremento conseguito dall’Irlanda (14,6 punti, dal 51,7 al 66,3 per cento), mentre sono più contenuti i guadagni di Pae-si BasPae-si e Finlandia (rispettivamente, di 9,5 e 6,6 punti). Tra i paePae-si mediterranei, anche la Grecia ha messo a segno un significativo ampliamento della base occu-pazionale (dal 53,7 al 59,4 per cento della popolazione in età di lavoro).

Il miglioramento relativo dei mercati del lavoro europei appare evidente anche esaminando l’andamento dei tassi di disoccupazione (Figura 4.5). Tra il 1994 e il 2005, l’insieme dei mercati del lavoro dei paesi dell’Ue15 ha progressivamente ridot-to il tasso di disoccupazione medio dal 10,5 al 7,9 per cenridot-to delle forze di lavoro, mentre negli Stati Uniti la riduzione si è verificata soltanto fino al 2000 (dal 6,1 al 4,0 per cento), seguita da un periodo di aumento fino al 2003 e da una successiva ridu-zione. Di conseguenza, la distanza nei tassi di disoccupazione tra le due aree geogra-fiche, che nel 1997 era pari a 5 punti percentuali, tra il 1998 e il 2002, con l’accele-razione della crescita occupazionale nell’Unione europea, si è sensibilmente ridotta si-no a un minimo di 1,8 punti, per poi tornare a crescere nel 2003-2005.

45 50 55 60 65 70 75 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Regno Unito Germania Francia Italia Spagna

Fonte: Eurostat, Structural indicators

Figura 4.4 - Tassi di occupazione in Italia e nei maggiori paesi dellUnione europea -Anni 1993-2005 (valori percentuali)

Per l’Italia, la riduzione del divario rispetto agli Stati Uniti è risultata ancora maggiore: tra il 2000 e il 2005 il nostro Paese ha messo a segno una consistente riduzione del tasso di disoccupazione raggiungendo, dal 2004, un livello poco in-feriore a quello medio dell’Ue15. Se nel 1998 il tasso di disoccupazione america-no era di 6,8 punti inferiore a quello italiaamerica-no, nel 2005 la distanza è di soli 2,6 punti. Va comunque ricordato che il calo della disoccupazione in Italia si è ac-compagnato, a partire dal quarto trimestre del 2003, a una significativa crescita della popolazione inattiva, in particolare nelle regioni meridionali. È un fenome-no che si riscontra, seppure in misura mifenome-nore, anche in Francia e nel Regfenome-no Uni-to, ma non nel resto dell’Ue15.

La dinamica favorevole della disoccupazione italiana consente al nostro mer-cato del lavoro di ridurre, a partire dal 2003, il tasso di disoccupazione a un li-vello inferiore a quello di Francia e Germania e di mantenere, tra il 1999 e il 2005, un vantaggio su quello della Spagna superiore a 1,5 punti percentuali (Fi-gura 4.6). Notevole è anche la performance del Regno Unito che, tra il 1994 e il 2005, riesce a ridurre il tasso di disoccupazione di 4,6 punti percentuali. Ma, an-che nell’area della disoccupazione, i risultati più straordinari sono conseguiti da Spagna, Irlanda e Finlandia. Per i primi due paesi, tra il 1994 e il 2005 il tasso di disoccupazione subisce un abbattimento, rispettivamente di 10,3 (dal 19,5 al 9,2 per cento) e 10,0 punti percentuali (dal 14,3 al 4,3 per cento). In Finlandia, in-vece, la riduzione è minore: 8,2 punti percentuali, dal 16,6 all’8,4 per cento.

Un altro aspetto di rilievo del ciclo occupazionale europeo è che, nonostante il si-gnificativo aumento dei tassi di occupazione e la progressiva riduzione della disoc-cupazione, i mercati del lavoro dell’Unione non mostrano, nella media, segni di sur-riscaldamento dal punto di vista salariale. La figura 4.7 mostra anzi che, nella media dell’Ue15, il costo unitario reale del lavoro è cresciuto in misura contenuta sino al 2001 (+0,8 punti percentuali), per poi seguire una più netta dinamica cedente che, tra il 2002 e il 2004, ha comportato una riduzione di 1,5 punti percentuali. Per l’ag-gregato dell’Ue25 la riduzione è stata anche più sensibile (1,8 punti percentuali).

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Fonte: Eurostat, Structural indicators

Figura 4.5 - Tassi di disoccupazione in Italia, nellUnione europea, negli Stati Uniti e in Giappone - Anni 1994-2005 (valori percentuali)

Diverso è il caso dell’Italia, dove il meccanismo di regolazione della dinamica retributiva varato con il Protocollo di luglio 1993 ha contenuto in misura signifi-cativa non solo le retribuzioni, ma anche il costo del lavoro fino al 2000. Nel solo periodo 1998-2000 l’indicatore ha messo a segno una riduzione di 1,5 punti per-centuali. Tuttavia in seguito, tra il 2001 e il 2003, il costo unitario reale del lavo-ro è tornato a crescere, recuperando la riduzione del precedente periodo, e tra il 2003 e il 2005 è rimasto sostanzialmente invariato sul livello del 1998. Per com-prendere correttamente questo risultato è, però, opportuno notare che esso, diver-gente rispetto al dato europeo, non è stato causato dall’andamento del numerato-re dell’indicatonumerato-re (il numerato-reddito da lavoro dipendente) – che anzi ha pnumerato-resentato fino al 2004 dinamiche inferiori a quelle dei prezzi impliciti del valore aggiunto – ma in-vece dalla caduta del denominatore (la produttività del lavoro). Questa grandezza infatti, tra il 2000 e il 2004, nel settore privato extraagricolo dell’economia ha su-bito una riduzione di 2,4 punti percentuali, che ha determinato un aumento del costo unitario del lavoro.

La figura 4.7 mostra anche che la dinamica del costo reale del lavoro, nono-stante l’accelerazione del 2001-2003, consente all’Italia di mantenere nel 2005 un limitato vantaggio dinamico nei confronti della Francia e del Regno Unito, ma non della Germania e della Spagna che presentano dinamiche più favorevoli della produttività.

Il ciclo occupazionale appena descritto ha provocato nei mercati del lavoro eu-ropei profonde modifiche strutturali. Le pagine che seguono ne affrontano alcu-ne, proponendo in particolare un esame a livello italiano e un confronto con i principali paesi dell’Unione europea: gli orari di lavoro e della loro influenza sui tempi di vita di chi lavora, quindi il fenomeno del sottoinquadramento della for-za lavoro in relazione al livello di istruzione, e inoltre i problemi connessi all’in-serimento dei giovani nel mercato del lavoro, il differenziale retributivo tra gio-vani e adulti, e infine l’andamento delle dinamiche delle retribuzioni contrattua-li e di fatto negcontrattua-li ultimi anni.

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Fonte: Eurostat, Structural indicators

Figura 4.6 - Tassi di disoccupazione in Italia e nei maggiori paesi dellUnione europea - Anni 1994-2005(valori percentuali)

4.2 Le ore lavorate in Italia e in Europa

La durata del lavoro e le modalità con cui viene prestato rivestono una fon-damentale importanza per il funzionamento delle imprese e dell’intero sistema produttivo, ma anche per l’organizzazione della vita quotidiana degli individui. L’orario di lavoro ha un impatto diretto sulla produttività e sui costi delle im-prese, sullo stato di salute e di affaticamento degli individui, sulla qualità della vita. Il tema dell’orario di lavoro, quindi, coinvolge aspetti economici e sociali di rilevanza generale.

In Italia è ritornata recentemente l’attenzione su questi temi perché è stato ipotizzato che il minore impegno lavorativo orario degli italiani rispetto a quel-lo di altri paesi sia uno dei fattori che ha contribuito a una crescita economica modesta. A tale proposito, l’indagine armonizzata sulle forze di lavoro permet-te di effettuare un primo confronto sugli orari di lavoro a livello italiano ed eu-ropeo. 93 95 97 99 101 103 105 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Italia Ue15 Ue25 93 95 97 99 101 103 105 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Regno Unito Francia Germania Spagna Italia

Fonte: Eurostat, Structural indicators

(a) Rapporto tra il reddito da lavoro dipendente a prezzi correnti per Ula dipendente e il Pil a prezzi correnti per Ula totali.

Figura 4.7 - Costo unitario reale del lavoro (a)in Italia e nellUnione europea - Anni 1998-2005 (numeri indice in base 1998=100)

Durata

e organizzazione della settimana lavorativa

4.2.1 Un confronto tra l’Italia e l’Europa1

L’analisi delle informazioni statistiche sulle ore medie settimanali effettivamen-te lavoraeffettivamen-te meteffettivamen-te in evidenza differenze molto consiseffettivamen-tenti all’ineffettivamen-terno dell’Unione europea (Tavola 4.1). Nella media dei 15 paesi di più antica appartenenza all’Ue

(Ue15), la settimana lavorativa è di 36,9 ore2. Sopra alla media si assesta un

grup-po di paesi guidato dalla Grecia (41,9 ore), seguita da Austria, Spagna e Portogal-lo (rispettivamente 38,7, 38,6 e 38,4 ore). Al quinto posto si colPortogal-loca l’Italia, con una settimana lavorativa media di 38,1 ore. In questo gruppo rientra anche la me-dia dei nuovi paesi membri (Npm) con 40,5 ore settimanali. All’estremo opposto, con una settimana lavorativa di gran lunga inferiore alla media Ue15, si trova un gruppo di paesi del nord Europa. Seguono poi la Danimarca (35,1 ore), la Svezia (35,6 ore) e il Regno Unito (35,7 ore). In fondo alla graduatoria, staccando anche gli altri paesi con gli orari settimanali più brevi, vi sono i Paesi Bassi con 31,6 ore.

Il primato della Grecia deriva soprattutto dagli orari dei lavoratori a tempo pieno (43 ore), mentre nel caso dei Paesi Bassi il peso molto elevato dell’occupazione a tempo parziale abbassa drasticamente le ore settimanali. Al contrario, agli orari rela-tivamente lunghi dell’Italia contribuisce la quota contenuta di lavoratori a tempo parziale (il 13 per cento, rispetto al 20 per cento dell’Ue15 e al 18 per cento del-l’Ue25) e l’elevata quota di lavoratori autonomi (il 27 per cento) che lavorano in

me-PAESI Totale Maschi Femmine Tempo pieno Tempo parziale Dipendenti Autonomi Italia 38,1 41,0 33,5 40,6 20,7 36,5 42,4 Austria 38,7 42,7 33,5 43,3 20,6 37,1 48,2 Belgio 36,7 40,1 32,1 40,8 22,5 34,4 50,8 Danimarca 35,1 37,9 31,7 39,5 19,0 34,2 44,0 Finlandia 37,1 39,2 34,6 39,6 20,6 36,0 43,4 Francia 36,8 39,9 33,0 39,7 22,6 35,0 50,5 Germania 36,9 41,6 30,9 42,7 18,1 35,7 44,8 Grecia 41,9 43,8 38,9 43,0 21,0 39,5 46,2 Irlanda 37,3 41,5 31,4 41,1 18,7 35,4 46,6 Lussemburgo 37,9 41,2 33,0 41,3 21,2 36,7 50,5 Paesi Bassi 31,6 37,0 24,7 41,0 20,1 30,6 39,0 Portogallo 38,4 40,2 36,3 40,8 19,1 38,3 38,7 Regno Unito 35,7 40,4 30,2 41,3 18,5 35,3 38,8 Spagna 38,6 41,3 34,6 41,5 18,9 37,6 43,2 Svezia 35,6 38,3 32,4 39,8 24,0 34,8 41,8 Ue15 36,9 40,6 32,0 41,2 19,7 35,6 43,5 Npm10 40,5 42,3 38,1 42,1 21,6 39,9 42,5 Ue25 37,5 40,9 33,0 41,4 19,8 36,3 43,3

Tavola 4.1 - Ore medie settimanali effettivamente lavorate per sesso, tipo di orario e posizione nella professione nei paesi dellUnione europea (media 2005)

Fonte: Eurostat, Labour force survey

1

La principale fonte statistica che consente di effettuare comparazioni a livello Ue delle informa-zioni sulle ore lavorate è la rilevazione continua sulle forze di lavoro che, proprio a partire dal 2005, risulta essere completamente armonizzata. In precedenza, per effettuare confronti internazionali sono stati utilizzati in modo improprio i dati annuali prodotti dall’Ocse. Tali dati, però, sono il frutto di una stima indiretta delle ore annuali “effettivamente lavorate” pro capite, basata sulle ore lavorate “abitual-mente” rilevate dall’indagine sulle forze di lavoro, depurate dalle ore settimanali di “assenza” (vacanza, congedo eccetera) ricavate attraverso alcune informazioni amministrative. Come sottolinea la stessa Ocse (nell’allegato statistico all’Employment Outlook), quelle stime venivano ritenute idonee a effettua-re confronti internazionali sulle variazioni delle oeffettua-re effettivamente lavorate, ma non sui livelli.

2

La variabile utilizzata rileva il numero di ore effettivamente lavorate nel primo lavoro nella setti-mana di riferimento. La media delle ore lavorate è calcolata al netto dei lavoratori che non hanno svol-to ore di lavoro nella settimana considerata.

dia sei ore in più dei dipendenti. La diffusione relativamente bassa del tempo par-ziale in Italia riguarda sia gli uomini sia le donne, anche se per queste ultime (il cui dato è caratterizzato da una maggiore variabilità fra i paesi) la distanza dalle medie europee è più elevata. Mentre, infatti, solo il 4 per cento dei lavoratori maschi in Ita-lia è a tempo parziale (rispetto al 7 per cento nell’Ue15), le lavoratrici itaIta-liane a tem-po parziale sono il 25 per cento (contro il 36 per cento dell’Ue15).

In relazione al genere, in Italia come nel resto dell’Unione la quota di lavoratri-ci a tempo parziale è maggiore di quella dei lavoratori maschi con orario ridotto. Inoltre, le donne lavorano mediamente meno degli uomini anche considerando solo le posizioni a tempo pieno. La differenza fra orari femminili e maschili in Ita-lia (7,5 ore) è leggermente inferiore sia a quella della media dell’Ue25 (7,9 ore), sia a quella dei soli 15 paesi da più lungo tempo presenti nell’Unione (8,6 ore).

Analizzando più a fondo le differenze tra gli orari dei lavoratori a tempo pieno e parziale (Tavola 4.1), nel primo caso la variabilità fra i paesi è piuttosto ridotta: compresa fra il massimo dell’Austria (43,3 ore) e il minimo della Danimarca (39,5 ore). Gli orari italiani a tempo pieno sono di mezz’ora inferiori alla media Ue15, con 40,6 ore settimanali. Per il lavoro a tempo parziale le differenze tra i paesi so-no più accentuate, anche per il fatto che i contesti istituzionali influenzaso-no la stes-sa definizione di lavoro part time. In Svezia i lavoratori a tempo parziale lavorano in media 24 ore a settimana mentre, all’opposto, in Germania lavorano solo 18 ore. Gli occupati a tempo parziale in Italia lavorano in media 20,7 ore settimana-li, collocandosi un’ora al di sopra della media dell’Ue15.

I dati consentono anche di valutare quanto la struttura dell’occupazione italia-na contribuisca alla differente durata media degli orari. Considerando quattro gruppi di occupati (uomini a tempo pieno, donne a tempo pieno, uomini a tem-po parziale e donne a temtem-po parziale) è tem-possibile condurre un esercizio controfat-tuale misurando come varierebbe l’orario medio degli italiani se agli orari medi ita-liani dei quattro gruppi venissero applicate le strutture occupazionali dei diversi paesi europei (Figura 4.8). Se il mercato del lavoro italiano avesse la struttura oc-cupazionale dell’Ue15, l’orario medio sarebbe del 3,9 per cento inferiore a quello effettivo (1 ora e 12’). Se l’Italia avesse invece la struttura occupazionale dei dieci nuovi paesi membri o della Spagna, avrebbe un orario medio superiore a quello ef-fettivo dell’1,7 (36’) o dello 0,2 per cento (6’); mentre se la struttura fosse quella del Regno Unito o dei Paesi Bassi, avrebbe un orario medio inferiore del 6,7 (2,5 ore)

PAESI Tempo pieno Tempo parziale

Italia 87,2 12,8 Austria 78,9 21,1 Belgio 78,0 22,0 Danimarca 77,9 22,1 Finlandia 86,3 13,7 Francia 82,8 17,2 Germania 76,0 24,0 Grecia 95,0 5,0 Irlanda 86,0 14,0 Lussemburgo 82,5 17,5 Paesi Bassi 53,9 46,1 Portogallo 88,8 11,2 Regno Unito 74,6 25,4 Spagna 87,6 12,4 Svezia 75,3 24,7 Ue15 79,8 20,2 Npm10 92,1 7,9 Ue25 81,6 18,4

Tavola 4.2 - Occupazione per durata del lavoro nei paesi dellUnione europea (media 2005, composizioni percentuali)

o addirittura del 16,6 per cento (6 ore e 18’) rispetto all’orario effettivo.

Questi risultati dipendono, in particolare, dal basso peso che l’occupazione femminile e i contratti a tempo parziale hanno in Italia: nel caso dei nuovi paesi membri, l’occupazione femminile ricopre una quota di 6 punti percentuali supe-riore a quella italiana (e la quota delle occupate a tempo pieno sull’occupazione to-tale è maggiore di quella italiana di 11 punti); considerando i Paesi Bassi, la quota degli occupati part time è superiore a quella italiana di 33 punti percentuali.

I mercati del lavoro dei paesi europei sono peraltro caratterizzati da altre rile-vanti divergenze strutturali che attengono, ad esempio, alla composizione dell’oc-cupazione per posizione nella professione e per classe dimensionale d’impresa, che influiscono anch’esse sugli orari di lavoro medi.

In generale, i dipendenti presentano orari più brevi dei lavoratori autonomi. Nella media dei paesi dell’Ue15 i primi hanno una settimana lavorativa inferio-re di 8 oinferio-re circa rispetto agli indipendenti (Tavola 4.1). La diffeinferio-renza diminui-sce se si considera l’Ue25 (7 ore): ciò per la minore diversità di orario fra dipen-denti e indipendipen-denti nella media dei dieci paesi di nuova accessione (4 ore). Per l’Italia, la maggiore durata relativa degli orari di lavoro è dovuta ai dipendenti e, come già detto, all’elevata quota di lavoratori autonomi, anche se questi lavora-no circa un’ora in melavora-no della media europea.

Per analizzare gli orari in funzione delle caratteristiche dell’impresa si ricorre ai

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