RAPPORTO
ANNUALE
Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2005
presentato dal Presidente dell’Istituto nazionale di statistica
RAPPORTO
ANNUALE
SISTEMA STATISTICO NAZIONALE
ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA
RAPPORTO ANNUALE La situazione del Paese nel 2005 Istituto nazionale di statistica Via Cesare Balbo, 16 - Roma
In copertina:
Pisa, Piazza dei Cavalieri (foto: G. Baviera)
Finito di stampare nel mese di maggio 2006 presso:
Rubbettino - Industrie Grafiche ed Editoriali - Soveria Mannelli (CZ) Copie 6.000
Si autorizza la riproduzione a fini
Avvertenze . . . Pag. XI
Sintesi - Ridurre le aree di vulnerabilità, far crescere la fiducia. . . » XV
Capitolo 1 - La congiuntura economica nel 2005
1.1 Quadro macroeconomico internazionale . . . » 1
1.2 Economia italiana nell’area dell’euro . . . » 7
1.2.1Prodotto lordo e componenti della domanda . . . » 7
1.2.2Commercio con l’estero . . . » 12
XLe dinamiche territoriali delle esportazioni tra il 2000 e il 2005. . . » 14
XLa dinamica delle esportazioni italiane tra il 2000 e il 2005: un confronto con i paesi dell’Unione monetaria . . . » 20
1.2.3Attività produttiva settoriale . . . » 23
1.2.4Inflazione . . . » 31
XLa dinamica dei prezzi nel comparto energetico. . . » 40
1.2.5Mercato del lavoro . . . » 42
1.3 Finanza pubblica . . . » 48
1.3.1Dinamica degli impieghi . . . » 53
1.3.2Dinamica delle risorse . . . » 54
Approfondimenti La posizione dell’Italia in Europa misurata dal sistema degli indicatori strutturali . . . » 56
VII
Capitolo 2 - Evoluzione del sistema delle imprese e produttività
2.1 Struttura e tendenze evolutive del sistema produttivo . . . Pag. 63
2.1.1Il sistema delle imprese italiane in una prospettiva europea
dal 1999 al 2003 . . . » 64
2.1.2L’evoluzione strutturale delle imprese italiane . . . » 69
2.2 Demografia d’impresa e crescita del sistema . . . » 74
2.2.1Gli indicatori della demografia d’impresa . . . » 74
2.2.2La crescita delle nuove imprese . . . » 80
XLe determinanti della sopravvivenza delle imprese . . . » 84
2.2.3Il ruolo delle nuove imprese nella dinamica produttiva del sistema. . . » 85
2.3 La performance delle imprese . . . » 88
2.3.1I fattori della performance . . . » 88
2.3.2La dinamica della produttività . . . » 92
XStagnazione della produttività ed effetti di composizione settoriale . . . » 98
Capitolo 3 - Specializzazioni produttive e sviluppo locale 3.1 Introduzione . . . » 103
3.2 La classsificazione dei Sistemi locali del lavoro in base alle specializzazioni produttive prevalenti . . . » 104
3.3 Dinamiche evolutive dei Sistemi locali del lavoro . . . » 110
3.3.1Gli anni Novanta . . . » 110
3.3.2Le dinamiche di lungo periodo . . . » 115
3.4 Dinamica demografica delle imprese secondo la specializzazione dei Sistemi locali del lavoro . . . » 118
XLe unità locali delle medie e grandi imprese manifatturiere . . . . » 120
3.5 Aspetti competitivi dei Sistemi locali del lavoro secondo la loro specializzazione produttiva . . . » 124
Approfondimenti Gli effetti del controllo estero sul sistema produttivo italiano. . . » 130
Le imprese a controllo pubblico in Italia . . . » 135
Capitolo 4 - Tempi di lavoro e valorizzazione delle competenze 4.1 Introduzione . . . » 141
4.2 Le ore lavorate in Italia e in Europa . . . » 147
4.2.1Un confronto tra l’Italia e l’Europa. . . » 148
4.2.2Ore lavorate e caratteristiche dell’occupazione in Italia. . . » 153
4.3 La modulazione dei tempi di lavoro . . . » 154
4.3.1Confronti internazionali. . . » 154
ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005
4.3.2La situazione italiana. . . Pag. 156
4.4 Tempo di lavoro e vita quotidiana . . . » 160
4.4.1I tempi di lavoro di dipendenti e autonomi . . . » 160
4.4.2La sovrapposizione dei tempi di vita: lavoro e non lavoro . . . » 166
4.5 Il livello di istruzione e il sottoutilizzo della forza lavoro . . . » 167
4.5.1Gli occupati per titolo di studio e professione in Europa e in Italia » 167 4.5.2Il legame tra titolo di studio e professione . . . » 168
4.5.3La diffusione e le caratteristiche dei lavori sottoinquadrati . . . » 173
4.6 I giovani e il mercato del lavoro . . . » 178
4.6.1Il difficile rapporto tra i giovani europei e il mercato del lavoro. . . » 178
4.6.2L’influenza delle caratteristiche individuali e del sostegno familiare sulla partecipazione dei giovani italiani al mercato del lavoro . . . » 183
XIl differenziale retributivo tra giovani e adulti. . . . » 188
Approfondimenti Dinamiche recenti delle retribuzioni contrattuali e di fatto. . . » 190
Capitolo 5 - Disuguaglianze, disagio e mobilità sociale 5.1 Introduzione . . . » 201
5.2 Il reddito netto delle famiglie . . . » 203
5.3 La disuguaglianza . . . » 210
5.4 Composizione del reddito familiare e disagio economico . . . » 214
5.4.1Le strutture di reddito familiari . . . » 214
5.4.2La composizione dei redditi delle diverse tipologie familiari . . . » 216
5.4.3I divari di reddito delle famiglie . . . » 219
5.5 I percettori di bassi redditi da lavoro: gruppi a rischio e contesti familiari . . . » 222
5.6 Il disagio economico delle famiglie . . . » 228
5.7 Il disagio abitativo e l’onere economico dell’abitazione . . . » 234
5.8 Le caratteristiche della povertà relativa in Italia . . . » 238
5.9 La mobilità sociale. . . » 243
5.9.1La mobilità intergenerazionale assoluta . . . » 244
5.9.2La mobilità intragenerazionale assoluta . . . » 246
5.9.3La mobilità relativa . . . » 248
Approfondimenti Strategie d’acquisto delle famiglie povere . . . » 251
IX
ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005
X
Capitolo 6 - Interventi e servizi sociali nel territorio
6.1 Introduzione . . . Pag. 257
6.2 Dinamica e struttura territoriale della popolazione . . . » 258
XLa spesa sociale, confronti con i paesi dell’Unione europea . . . » 259
6.2.1 Distribuzione regionale della popolazione . . . » 262
6.2.2Recenti tendenze demografiche regionali . . . » 263
6.2.3L’invecchiamento della popolazione . . . » 266
6.2.4La popolazione straniera regolare in Italia . . . » 268
6.3 La spesa sociale nelle regioni . . . » 274
XLa spesa sociale dei Comuni . . . » 281
6.4 Offerta di strutture, interventi e servizi . . . » 284
6.4.1L’offerta di strutture sanitarie . . . » 284
XLa mobilità ospedaliera interregionale . . . » 290
6.4.2L’offerta nel settore istruzione . . . » 292
XGli studenti con cittadinanza non italiana . . . » 298
6.4.3Gli interventi e i servizi sociali dei Comuni . . . » 307
XI servizi socioeducativi per la prima infanzia: utilizzo, grado di soddisfazione e domanda potenziale. . . » 312
Tavole statistiche . . . » 317
Glossario . . . » 387
Avvertenze
SEGNI CONVENZIONALI
Nelle tavole statistiche sono adoperati i seguenti segni convenzionali:
Linea ( - ) a) quando il fenomeno non esiste;
b) quando il fenomeno esiste e viene rilevato, ma i casi non si sono verificati.
Quattro puntini ( .... ) Quando il fenomeno esiste, ma i dati non si conoscono per qualsiasi
ragione.
Due puntini ( .. ) Per i numeri che non raggiungono la metà della cifra relativa all’ordine
minimo considerato. COMPOSIZIONI PERCENTUALI
Le composizioni percentuali sono arrotondate automaticamente alla prima cifra decimale. Il totale dei valori percentuali così calcolati può risultare non uguale a 100.
EUROLIRE
Si riferisce ai valori monetari precedenti il 1999, quando l’euro non esisteva in quanto divisa. Sono ottenuti convertendo in euro gli importi in lire, secondo la parità fissata (1 euro = 1.936,27 lire). RIPARTIZIONI GEOGRAFICHE
Nord-ovest Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Liguria
Nord-est Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna
Centro Toscana, Umbria, Marche, Lazio
Mezzogiorno
Sud Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria
Isole Sicilia, Sardegna
ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005
XII
SIGLE E ABBREVIAZIONI UTILIZZATE
Aic Alta intensità di conoscenza
Aids Acquired immune deficiency syndrome
Ap Pubblica amministrazione
Asia Archivio statistico delle imprese attive
Asl Azienda sanitaria locale
At Alta tecnologia
Ateco 2002 Classificazione delle attività economiche 2002
Bic Bassa intensità di conoscenza
Cd-rom Compact disc-read only memory
Cif Cost insurance freight (Costo, assicurazione e nolo)
Cig Cassa integrazione guadagni
Cis Censimento generale dell’industria e dei servizi
Clup Costo del lavoro per unità di prodotto
Cnel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro
Cnvsu Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario
Cpa Classificazione centrale dei prodotti secondo l’attività economica di
origine
CpAteco 2002 Raccordo tra la nomenclatura dei prodotti e l’Ateco 2002 attraverso
la Cpa
Csi Comunità degli stati indipendenti
Cup Centri unificati di prenotazione
Cv Coefficiente di variazione
d.l. Decreto legge
d.lgs. Decreto legislativo
d.m. Decreto ministeriale
d.p.r. Decreto del Presidente della Repubblica
Dpef Documento di programmazione economica e finanziaria
Drg Diagnostic related groups (Raggruppamenti omogenei di diagnosi)
Dvd Digital versatile disc
Efta European free trade association (Associazione europea di libero
scambio)
Eurostat Istituto statistico dell’Unione europea
Eu-Silc European union-Survey on income and living conditions (Indagine
sul reddito e le condizioni di vita)
Fmi/Imf Fondo monetario internazionale/International monetary fund
Fob Free on board (Franco a bordo)
Gpl Gas di petrolio liquefatti
Hiv Human immunodeficiency virus
Ici Imposta comunale sugli immobili
Ilo International labour organization
Inps Istituto nazionale previdenza sociale
Irap Imposta regionale sulle attività produttive
Isae Istituto di studi e analisi economica
Isced-97 International standard classification of education, 1997
Isco-88 International standard classification of occupations, 1988
XIII
It Information technologies (Tecnologie dell’informazione)
Iulgi Indagine sulle unità locali delle grandi imprese
Iva Imposta sul valore aggiunto
l. Legge
Lea Livelli essenziali di assistenza sanitaria
Lep Livelli essenziali delle prestazioni
Mat Medio-alta tecnologia
Mbt Media e medio-bassa tecnologia
Miur Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca
Mol Margine operativo lordo
Mpi Ministero della pubblica istruzione
Nace Nomenclatura delle attività economiche nelle comunità europee
Nc Nomenclatura combinata
Nic Indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale
Npm Nuovi paesi membri dell’Unione europea
Nsis Nuovo sistema informativo sanitario
Ocse/Ocde/Oecd Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico/
Organisation de coopération et de développement économiques/ Organization for economic cooperation and development
Omc/Wto Organisation mondiale du commerce/World trade organization
Opec Organization of petroleum exporting countries (Organizzazione dei
paesi esportatori di petrolio)
Oros Rilevazione su occupazione, retribuzioni e oneri sociali
Pac Polica agricola comune
Pdm Prezzi di mercato
Pil Pdm Prodotto interno lordo ai prezzi di mercato
Pil Ppa Prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto
Pisa Programme for international student assessment (Criteri di riferimento
europei per l’istruzione e la formazione)
Ppa Parità di potere d’acquisto
p.r. Persona di riferimento
R&S Ricerca e sviluppo
Roi Return on investment (Redditività del capitale investito)
Ros Return on sales (Risultato operativo su fatturato)
S&T Scientifico e tecnologico
Sdi Sistema di indagine
Sec95 Sistema europeo dei conti 1995
Siae Società italiana degli autori ed editori
Sifim Servizi di intermediazione finanziaria indirettamente misurati
Sitc Standard international trade classification (Classificazione standard
del commercio internazionale)
Sll Sistemi locali del lavoro
Spa Standard di potere d’acquisto
Srl Società a responsabilità limitata
Tac Tomografia assiale computerizzata
Tbc Tubercolosi polmonare
Tip Tasso di inflazione programmata
Ue Unione europea
Ue15 Unione europea a 15 paesi
Ue25 Unione europea a 25 paesi
Uem Unione economica e monetaria
Ula Unità di lavoro equivalenti a tempo pieno
v.m.u. Valori medi unitari
ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005
XV
Le statistiche ufficiali sono un bene pubblico indispensabile per la
cono-scenza e quale supporto alle decisioni di tutta la collettività: dei governi,
delle istituzioni, degli operatori economici, delle parti sociali, di tutti i
cit-tadini. Offrono gli elementi necessari per la valutazione dei possibili
inter-venti e per la verifica partecipata delle politiche attuate, contribuendo così
allo sviluppo della democrazia; proprio per questo devono rappresentare un
servizio per il dibattito documentato e non le armi della contesa politica. In
questo ambito è fondamentale il contributo dell’Istat e di tutta la statistica
ufficiale.
L’appuntamento con il Rapporto annuale dell’Istat è l’occasione offerta
al Paese per riflettere sulla situazione e sulle trasformazioni che interessano
l’economia e la società. Questa riflessione è possibile a partire dalla base
am-pia e integrata di informazioni che l’Istat e il Sistema statistico nazionale
producono. Il succedersi nel tempo di questi appuntamenti permette di
co-gliere, volta per volta, i problemi più attuali in un contesto di continuità
dell’analisi. Ciò consente di comprendere la direzione complessiva dei
cam-biamenti e la natura strutturale di problemi che affondano spesso le loro
ra-dici nelle caratteristiche storiche e territoriali del nostro Paese.
I Rapporti degli anni più recenti avevano messo in luce l’esigenza di
pro-gettare nuove linee di sviluppo del Paese nella prospettiva europea,
fornen-do risposte chiare in termini di politiche pubbliche e di comportamenti
in-dividuali ai cambiamenti prodotti dalle trasformazioni strutturali in atto da
oltre dieci anni in ambito economico e sociale.
Nei Rapporti si indicava, in particolare, che l’Italia, pur essendo una
del-le più avanzate economie mondiali, presenta prospettive di sviluppo
forte-mente condizionate da vincoli strutturali, che per essere allentati
richiedo-no interventi di ampio respiro. Si richiamava come prioritario il rilancio
della competitività per consentire un aumento del potenziale di sviluppo
dell’economia e favorirne un più agevole adattamento al cambiamento. Si
aggiungeva, poi, che le capacità competitive dipendono in misura rilevante
e crescente dalle conoscenze incorporate nel sistema produttivo e nel
capi-tale umano. Cooperazione, informazione e organizzazione sono dunque
ri-sorse da porre al centro dei processi produttivi. Questi “segnali” sono
emer-si più volte dalle analiemer-si effettuate in passato, ma pubblici amministratori,
XV
Sintesi
imprenditori e cittadini hanno avuto difficoltà nell’individuare interventi
tesi a eliminare i punti di debolezza e a valorizzare quelli di forza.
Complessivamente l’Italia sembrava – ancora oggi è così – non saper
guardare oltre le sfere individuali e avere una scarsa propensione a fare
siste-ma. In un clima di “incertezze” sul futuro, appariva indispensabile saper
go-vernare i cambiamenti, dando risposte non limitate alla dinamica della
con-giuntura economica, sociale e istituzionale. Un elemento centrale veniva
in-dividuato nella capacità di incidere sul rapporto tra costi e benefici delle
scelte individuali, riducendo i costi dell’innovazione e aumentando i
van-taggi potenziali per una più ampia base di operatori e famiglie.
In una linea di continuità con le ricerche già presentate, il Rapporto
of-fre oggi nuova documentazione e analisi su questi temi. Ben consapevoli che
nel nostro Paese esistono realtà economiche e sociali solide e avanzate, in
al-cuni casi di eccellenza, abbiamo ritenuto opportuno approfondire le analisi
della vulnerabilità dei soggetti, della crescente complessità dei fenomeni e
dei riflessi che questa ha sulle risposte individuali e di policy.
È infatti indispensabile conoscere nel dettaglio le aree di vulnerabilità dei
contesti settoriali e territoriali, delle imprese, delle famiglie e degli
indivi-dui: anche quando interessano gruppi limitati, non è escluso che queste
possano estendersi a livello di sistema impedendo così quella coesione
so-ciale indispensabile per uno sviluppo sostenibile e duraturo.
L’aumento delle interdipendenze – economiche, finanziarie e culturali –
comporta un parallelo incremento della complessità: per gestire questi
ri-schi è perciò necessario rendere il sistema più “resiliente” ovvero capace di
assorbire a livello sistemico shock non previsti, riducendo così quella
vulne-rabilità che si manifesta in presenza di equilibri precari.
Occorre però tener presente che le eterogeneità dei contesti e dei
com-portamenti producono segnali diversi e a volte contradditori. Gli attori
so-ciali trovano arduo operare scelte e prendere decisioni: ciò è vero per le
im-prese, che esitano a investire e modernizzarsi; per le famiglie, che ritardano
le decisioni di spesa; per i giovani, che pospongono le scelte di vita e la
tran-sizione a una piena autonomia sociale ed economica.
Ciò invita a non limitarsi all’esame dei valori medi e delle tendenze
do-minanti nella società, ma a effettuare analisi più approfondite proprio per
capire quando queste eterogeneità sono un valore e quando richiedono
in-terventi differenziati. È il contributo all’analisi di questi fenomeni che la
statistica pubblica oggi offre, cercando di ridurre il rumore informativo
spesso associato a dinamiche complesse e fornendo gli strumenti di
infor-mazione adeguati per le valutazioni e le scelte.
L’economia italiana nel 2005
Nel 2005 l’economia italiana è stata nuovamente contraddistinta dal
ri-stagno della domanda e dell’attività: il Pil ha registrato in termini reali una
variazione nulla. Nonostante la ripresa registrata nel 2004 (con un
incre-mento del Pil dell’1,1 per cento), nell’arco dell’ultimo quadriennio
l’econo-mia italiana ha segnato un tasso di sviluppo medio pari ad appena lo 0,4 per
ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005XVI
cento all’anno. Hanno contribuito a frenare lo sviluppo dell’attività
produt-tiva tutte le componenti della domanda.
La deludente performance italiana va inserita in un contesto che ha visto
l’Europa crescere molto più lentamente di altre aree geografiche mentre lo
sviluppo dell’economia mondiale si è mantenuto vigoroso (+3,4 per cento
del Pil), pur in lieve rallentamento rispetto al ritmo del 2004. Alla crescita
ancora robusta degli Stati Uniti e al consolidamento della ripresa in
Giap-pone si sono aggiunti tassi di crescita molto elevati in India e Russia, ma
so-prattutto in Cina (+9,9 per cento). L’economia italiana non ha agganciato
la ripresa mondiale perché esprime un potenziale di crescita inferiore (che
dipende da fattori strutturali), pari a circa la metà dell’area dell’euro,
nono-stante abbia visto l’aumento dell’occupazione, soprattutto dipendente,
in-sieme a una riduzione della disoccupazione.
Il 2006 è iniziato con forti segnali di ripresa e un rafforzamento
dell’e-spansione dell’attività economica, tanto in Europa quanto in Italia (+0,6
per cento), trainato dall’aumento della produzione industriale e dalla
cre-scita dei comparti dei beni strumentali e dell’offerta specializzata. Infatti
nel primo trimestre sono aumentati consistentemente gli indici della
pro-duzione industriale, quelli del fatturato e degli ordinativi, nonché le
espor-tazioni. Tuttavia, rimane ancora relativamente debole il contributo dei
consumi delle famiglie, in particolare per la componente dei beni non
du-revoli. Il reddito disponibile è cresciuto debolmente negli anni per effetto
di una contenuta dinamica delle retribuzioni reali (per molti anni al di
sot-to dei modesti incrementi della produttività) e del rallentamensot-to della
cre-scita dell’occupazione. Inoltre la produttività e la competitività delle
no-stre imprese sono ancora nel complesso molto modeste. Ciò testimonia la
perdurante fragilità della nostra economia e potrebbe condizionare – in
presenza di cambiamenti del contesto internazionale – la dimensione e la
durata della crescita.
A questi elementi di debolezza si aggiungono fattori di vulnerabilità più
specifici, quali l’esposizione ai rischi di ulteriore perdita di competitività e
l’elevata dimensione del debito pubblico, che ci portiamo dietro da
decen-ni. Lo scorso anno è stato caratterizzato da un peggioramento della
situa-zione della finanza pubblica, con lo stock di debito pubblico in rapporto
al Pil che ha segnato nel 2005 un’inversione di tendenza, interrompendo
la discesa degli anni precedenti: il rapporto è risalito al 106,4 per cento
(103,8 per cento nel 2004). L’avanzo primario si è gradualmente ridotto
nel tempo a partire da un massimo del 6,6 per cento del Pil nel 1997 fino
quasi ad annullarsi nel 2005 per effetto di un consistente aumento della
spesa pubblica primaria. Ciò pone limiti molto forti alla possibilità di
con-tribuire alla crescita attraverso la leva della spesa pubblica e rende
necessa-rie misure strutturali per riportare il debito pubblico entro un sentiero di
sostenibilità.
L’impatto sull’inflazione dei forti aumenti del prezzo del petrolio è
sta-to finora modessta-to. In Italia, il tasso di inflazione medio annuo è sceso dal
2,2 per cento del 2004 all’1,9 per cento ed è risalito al 2,2 per cento in
questi ultimi mesi. Gli effetti diretti e indiretti dell’aumento dei costi
SINTESI- RIDURRE LE AREE DI VULNERABILITÀ, FAR CRESCERE LA FIDUCIA
energetici si sono già trasferiti in parte sui prezzi alla produzione, ma non
hanno al momento generato aumenti dei prezzi al consumo, grazie al
con-tenimento dei margini di profitto indotto dai bassi livelli della domanda.
Nel medio periodo, prezzi del petrolio persistentemente elevati possono
avere effetti sui prezzi dell’output (0,6 punti percentuali per l’aumento del
40 per cento del prezzo del petrolio osservato tra 2004 e 2005) e ridurre
ulteriormente la crescita economica.
In questo contesto, l’accumularsi di aspettative di recupero salariale, in
parte rese probabili dai ritardi dei rinnovi contrattuali e dall’incompleto
recupero della perdita di potere di acquisto, può avere effetti
destabiliz-zanti sulla dinamica dei prezzi e sul quadro macroeconomico.
Infine, il possibile rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro costituisce
un ulteriore elemento di vulnerabilità per le esportazioni e potrebbe
rappre-sentare un freno alla crescita.
Sistema produttivo: punti di forza e aree di rischio
Le caratteristiche del modello produttivo italiano non sono favorevoli
alla crescita. Infatti, le difficoltà a fronteggiare il mutamento profondo
del-lo scenario competitivo ruotano attorno agli aspetti di dimensione e
spe-cializzazione.
La grande diffusione delle microimprese – tuttora il tratto più
caratteri-stico della struttura economica del nostro Paese – che denotano una
im-prenditorialità elevata, e la specializzazione nei settori manifatturieri della
meccanica strumentale e delle filiere dei beni per la persona e la casa (il
cuore del made in Italy) costituiscono il fondamento della crescita italiana
ma, al tempo stesso, il suo principale elemento di vulnerabilità. Nel
conte-sto europeo le imprese italiane sono il 22 per cento del totale dell’Ue25 e
pesano l’11 per cento in termini di occupazione. La loro dimensione è
pa-ri a circa la metà di quella media europea e la produttività è del 10 per
cen-to inferiore.
Vi sono, come risulta dalle analisi, vari settori e molte tipologie di
im-prese più im-presenti sui mercati internazionali e che hanno livelli di
competi-tività e reddicompeti-tività maggiori: questi sono in prevalenza concentrati nei
di-stretti produttivi, soprattutto del Nord-est e del Centro (che si trovano ai
li-velli delle più sviluppate regioni dell’Europa), organizzati come società di
capitali e specializzati nei settori più innovativi della manifattura leggera
(prodotti meccanici, utensili, strumentazione e ottica di precisione).
L’ana-lisi delle caratteristiche dei sistemi locali del lavoro, che presentiamo nel
ca-pitolo 3, ha messo chiaramente in evidenza varie tipologie di distretti con
dinamiche e sviluppi molto differenziati che devono essere attentamente
va-lutate, anche perché i rischi e la vulnerabilità possono essere maggiori nelle
aree in cui si incrociano le “debolezze” settoriali con quelle di contesto.
Tuttavia, la specializzazione delle imprese italiane è soprattutto nei
setto-ri (terziasetto-rio, manifattura tradizionale e una parte dei servizi alle imprese) in
cui innovazione e produttività sono comparativamente più basse. Ma esse,
pur in una situazione di minore produttività, sono riuscite a conseguire,
al-ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005meno fino agli anni più recenti, una redditività comparabile con quella
del-le imprese dei principali paesi europei, soltanto in virtù dei più bassi livelli
del costo del lavoro.
La specializzazione italiana continua a essere debole nei settori ad alta
tecnologia ed elevata intensità di conoscenza, caratterizzati da livelli di
produttività più elevati, meno esposti alla concorrenza delle economie
emergenti e dove la domanda è cresciuta più rapidamente. Anche nel
ter-ziario, al cui interno prevalgono le attività a bassa produttività, pesano di
meno i servizi di mercato ad alta intensità di conoscenza.
Dimensioni d’impresa e specializzazione sono strettamente associate
al-la produttività. Nel 2003 in Italia per l’insieme di industria e servizi al-la
pro-duttività del lavoro era nell’ordine dei 37 mila euro per addetto: appena
su-periore a quella della Spagna e nettamente inferiore al livello di Francia e
Germania (50 mila euro in media). L’aspetto dimensionale da solo spiega
circa la metà del differenziale. Quasi il 30 per cento origina però
dall’inte-razione tra composizione settoriale e dimensione delle imprese per classi
d’addetti, mettendo in luce l’importante effetto congiunto di una
specia-lizzazione in settori caratterizzati da bassa produttività e da dimensioni
d’impresa ridotte.
Per converso, il sistema delle imprese italiane sopporta un costo del
la-voro per dipendente nettamente più basso di quello delle altre maggiori
economie europee. In particolare nella manifattura, la differenza con
Fran-cia e Germania è rispettivamente pari a circa 9 mila e 14 mila euro per
ad-detto. Pertanto, nonostante la maggiore incidenza media degli oneri
socia-li, in Italia il costo del lavoro per dipendente rimane tra i più bassi
d’Euro-pa. Il risultato è che nelle imprese italiane la redditività resta in linea,
co-me detto, con quelle degli altri paesi, compensando il minor valore
ag-giunto per addetto con il basso costo del lavoro.
Perciò il nostro sistema produttivo preserva un suo equilibrio, legato al
mantenimento di un basso costo del lavoro e al persistere di una
specializ-zazione in settori tradizionali. Ma si tratta di un equilibrio vulnerabile,
perché fondato su dimensioni aziendali ridotte che comprimono la
pro-duttività e perché meno in grado di assorbire le pressioni derivanti dalle
trasformazioni dei mercati e dall’innovazione tecnologica.
La modesta crescita produttiva osservata tra il 1999 e il 2004 è dovuta a
tre fattori: la produttività delle singole imprese, la composizione degli
ad-detti nei settori e la demografia di impresa. La dinamica individuale delle
imprese stabilmente attive dell’industria e dei servizi ha offerto un
contri-buto negativo alla variazione della produttività, parzialmente compensato
da effetti positivi di riallocazione dell’occupazione tra imprese con diversi
livelli di performance. Il contributo del saldo netto tra imprese nate e
ces-sate è moderatamente positivo, soprattutto per il fatto che le imprese che
cessano le attività sono meno produttive della media. Dunque, dietro una
variazione della produttività media pressoché nulla si nasconde
un’eteroge-neità di performance che a sua volta rivela la complessità del nostro sistema
produttivo.
I fattori che maggiormente influenzano la produttività del lavoro, anche
SINTESI- RIDURRE LE AREE DI VULNERABILITÀ, FAR CRESCERE LA FIDUCIA
a parità di dimensioni d’impresa e di settori produttivi, sono l’intensità di
capitale, l’innovazione, le spese per servizi e le immobilizzazioni
immate-riali. Per contro, un elevato rapporto d’indebitamento si associa a
perfor-mance produttive peggiori. I livelli medi e gli andamenti aggregati della
produttività, d’altro canto, nascondono ampi differenziali e varietà di
com-portamenti tra singole imprese, tra settori e tra territori.
Le imprese che innovano (generalmente quelle di maggiore dimensione,
tra le quali spiccano le imprese a controllo pubblico) fanno registrare più
alti livelli del valore aggiunto per addetto e hanno una più elevata
probabi-lità di passare nel corso del tempo in classi di produttività superiori. Da
notare, dal punto di vista territoriale, che nel Mezzogiorno la quota di
im-prese che passano a classi di produttività superiore è maggiore di quelle che
scendono nella graduatoria.
Le imprese di eccellenza, circa 25 mila con riferimento al periodo
1999-2004, sono più presenti nelle regioni del Nord-ovest e hanno dimensioni
medie più consistenti. Anche l’intensità delle spese per servizi è più
eleva-ta. Le variazioni del costo del lavoro per dipendente, che approssima la
qualità dell’input di lavoro, sono sempre positive. Per contro le piccole
im-prese a più bassa produttività hanno difficoltà a innovare: occorre dunque
favorire la cooperazione tra imprese con interventi mirati che la
richiama-ta analisi dei distretti contribuisce a identificare.
Rimangono forti spazi di rendita nei settori più protetti dalla
competi-zione internazionale: specialmente tra i servizi (comunicazioni, trasporti,
energia) sono presenti posizioni dominanti con ampia discrezionalità sulla
fissazione dei prezzi. In particolare, nel settore energetico le imprese a
con-trollo pubblico conseguono una produttività del lavoro di poco superiore
alla media settoriale, ma a parità di fatturato creano più valore aggiunto e
mantengono livelli più elevati di redditività. Questo risultato riflette sia una
maggiore integrazione delle imprese a controllo pubblico (mediamente più
grandi e dunque capaci di maggiori economie di scala), sia un più ampio
potere discrezionale nella determinazione dei prezzi dell’output, con effetti
negativi sui costi del servizio anche in confronto agli altri paesi europei.
L’apertura dell’economia agli investimenti stranieri può rappresentare un
altro importante stimolo alla crescita e all’innovazione. Infatti, gli effetti
po-sitivi del controllo estero di imprese italiane vanno oltre il semplice
investi-mento finanziario, in quanto le multinazionali realizzano anche un
signifi-cativo trasferimento di qualificate competenze manageriali e di conoscenze
tecnologiche a favore delle loro affiliate residenti in Italia. Più investimenti
esteri comportano inoltre un aumento della concorrenzialità dei mercati.
In conclusione, il sistema produttivo italiano mostra segnali importanti
di vitalità nonostante la presenza di aree vulnerabili. A quattro anni dalla
nascita il 40 per cento delle imprese ha cessato l’attività con elevati costi
economici e sociali. Tuttavia, il saldo tra imprese nate e cessate
contribui-sce positivamente alla produttività e ad aumentare la resilienza del sistema
produttivo. Ciò avviene nelle regioni del Mezzogiorno e ancora di più in
quelle del Nord-est. Tuttavia, per molti settori del terziario, dove la
con-correnza è ridotta, la selezione indotta dal movimento demografico delle
ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005imprese avviene in modo inefficiente: ovvero al costo di una forte
turbo-lenza in termini di flussi, senza che vi sia un rilevante impatto netto su
oc-cupazione e produttività. Questo rumore informativo contribuisce a
inqui-nare i segnali del mercato anche per le imprese che vi operano.
Individui e famiglie: flessibilità e rischi
Negli ultimi anni si è verificato un ininterrotto ciclo di sviluppo
l’occupazione, cui hanno contribuito la crescita dei servizi e l’aumento
del-la componente femminile. Nonostante del-la dinamica positiva del fenomeno,
si sono manifestate profonde modificazioni strutturali del mercato del
la-voro che hanno inciso anche sugli orari di lala-voro e sui tempi di vita.
Inol-tre, persistono aspetti critici legati alla complessiva carenza di domanda di
lavoro e quindi alla bassa partecipazione al mercato del lavoro, ai forti
di-vari territoriali e alla presenza di aree di disagio per alcuni gruppi di
indi-vidui e famiglie.
Il modello occupazionale italiano è ancora caratterizzato da tassi di
oc-cupazione nettamente inferiori a quelli medi europei ed è fondato sulla
centralità dell’occupazione maschile adulta a tempo indeterminato, con
al-ti livelli di esclusione dei giovani, delle donne e degli anziani. La setal-timana
lavorativa media è differente, ma non molto, nei vari paesi europei e
riflet-te le diverse composizioni della struttura dell’occupazione. Ma vi sono
ele-vate differenze a seconda della tipologia dei lavoratori, dei lavori e dei
set-tori di attività economica. Ad esempio, l’orario di lavoro settimanale è
molto più lungo per gli autonomi rispetto ai lavoratori dipendenti.
A livello europeo si possono individuare modelli occupazionali diversi,
che coniugano alti tassi di occupazione e maggiore diffusione di forme di
lavoro flessibile. Ad esempio, nei Paesi Bassi livelli di ore lavorate pro
capi-te approssimativamencapi-te uguali a quelli italiani si conseguono attraverso un
tasso di occupazione notevolmente più elevato e orari medi settimanali
molto più bassi: una più ampia diffusione del part time è associata a una
maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro.
In Italia, nonostante una diffusione del part time inferiore alla media
europea, nell’ambito del lavoro standard la flessibilità degli orari è forte,
specialmente tra gli autonomi. Per le donne ciò implica una compressione
dei tempi di vita. Solo un terzo dei dipendenti svolge una prestazione
la-vorativa full time dal lunedì al venerdì, in ore sostanzialmente diurne e
sen-za turnazioni e/o straordinari.
Sebbene il modello italiano abbia sinora garantito un equilibrio, questo
si prospetta però difficilmente sostenibile per il futuro. Dal punto di vista
economico tale insostenibilità deriva dal processo di invecchiamento della
popolazione e dai relativi costi per la finanza pubblica. Da quello sociale,
questo modello si scontra con le trasformazioni familiari e con le difficoltà
di conciliazione tra lavoro e famiglia che rendono più difficile per le
don-ne la partecipaziodon-ne al mercato del lavoro, in sofferenza don-negli ultimi due
anni.
Questo modello di diseguale partecipazione al mercato del lavoro
con-SINTESI- RIDURRE LE AREE DI VULNERABILITÀ, FAR CRESCERE LA FIDUCIA
tribuisce anche alle disparità reddituali. La disponibilità dei risultati di una
nuova importante indagine condotta dall’Istat sui redditi e le condizioni di
vita delle famiglie permette di analizzare più in profondità le caratteristiche
della distribuzione dei redditi familiari e individuali. La disuguaglianza dei
redditi in Italia è maggiore che nei principali paesi europei, ma inferiore a
quella di Stati Uniti e Regno Unito. L’indice di concentrazione dei redditi,
al netto dei fitti imputati, colloca l’Italia, insieme a Portogallo, Spagna,
Ir-landa e Grecia, nel gruppo dei paesi con la più alta disuguaglianza
(supe-riore a 0,30). A livello di ripartizione geografica, il Mezzogiorno mostra al
suo interno la più alta sperequazione dei redditi. La disuguaglianza
com-plessiva dipende più dalle differenze interne ai gruppi di famiglie e alle
ri-partizioni, in particolare da quelle che caratterizzano Sud e Isole, che dal
divario tra i redditi medi.
La disuguaglianza dei redditi testimonia della compresenza di
condizio-ni di agiatezza e povertà, ed è ovviamente a queste ultime che si rivolge il
maggiore interesse.
La combinazione delle dimensioni lavorativa e reddituale consente di
individuare gruppi di soggetti più esposti a condizioni di vulnerabilità: i
la-voratori a basso reddito e gli anziani; i giovani che hanno difficoltà di
ac-cesso e stabilizzazione sul mercato del lavoro; i gruppi di lavoratori con
bassi livelli di istruzione o che non possono valorizzare il loro capitale
uma-no. Quando queste condizioni individuali si combinano con particolari
aree di disagio familiare e di contesto territoriale danno spesso luogo a
con-dizioni di deprivazione materiale e povertà.
I giovani hanno difficoltà di accesso al mercato del lavoro e presentano
rischi di disoccupazione più elevati degli altri gruppi demografici. Il
diffe-renziale tra il tasso di occupazione dei giovani tra 20 e 29 anni e gli adulti
è di 20 punti percentuali e superiore a quello medio europeo (15 punti). Il
tasso di disoccupazione giovanile è di dieci punti superiore a quello degli
adulti: anche in questo caso il divario è maggiore di quello registrato in
Eu-ropa (6,5 punti). Soltanto in Italia si hanno tassi di occupazione più bassi e
tassi di disoccupazione più elevati per i giovani laureati rispetto ai
corri-spondenti valori europei, per effetto della maggiore età alla quale si
conse-gue il titolo. Soltanto dopo i 30 anni i livelli italiani convergono verso
quel-li medi europei.
Sono però i giovani che vivono in contesti familiari disagiati a
speri-mentare le forme di precarietà più forti.
In Italia l’incidenza del lavoro a termine è al di sotto della media
euro-pea, sia per i giovani sia per gli adulti. Nondimeno, il nostro Paese è
l’uni-co, tra i principali stati dell’Unione, in cui tra i giovani sussistono
signifi-cative differenze di genere: nella classe di età 20-29 anni, l’incidenza del
la-voro a termine per la componente femminile è, infatti, di 5,5 punti
per-centuali più elevata che per quella maschile. Il part time risulta
relativa-mente diffuso tra i giovani italiani, ma, rispetto agli adulti, è più spesso
in-volontario (quasi il 60 per cento, valore circa doppio di quello medio
eu-ropeo). Le forme di flessibilità sono prevalenti e spesso associate a
condi-zioni di precarietà quando i livelli di capitale umano sono bassi e il
soste-ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005gno familiare insufficiente: oltre il 40 per cento dei giovani con contratto
a termine, co.co.co o prestatori occasionali (circa 400 mila unità) vive in
famiglie dove nessun altro membro è occupato oppure, se occupato, ha un
contratto a termine o di basso livello. Di questi solo il 13 per cento ha una
laurea. Tra i giovani con occupazione a termine coesistono, dunque, due
ti-pologie differenti: quelli con alti livelli di capitale umano individuale e/o
familiare (che quindi hanno potenzialità occupazionali e tutele maggiori
per il futuro) e quelli che hanno livelli di istruzione ed esperienza
lavorati-va meno spendibili sul mercato e/o vivono in contesti familiari vulnerabili
e sono dunque più “precari”.
Un ulteriore elemento di vulnerabilità degli individui è rappresentato
dalla scarsa valorizzazione del capitale umano. I diffusi fenomeni di
sot-toinquadramento (che riguardano quasi 4 milioni di occupati) riflettono
sia la debolezza del sistema formativo, sia le scelte degli studenti e delle
lo-ro famiglie, in relazione alle richieste del mercato del lavolo-ro, sia una
flebi-le domanda di lavoro qualificato per effetto della struttura produttiva
pre-valente. Emergono due tipi di sottoinquadramento: quello legato alle
dif-ficoltà di ingresso nel mercato del lavoro e alla breve durata
dell’esperien-za lavorativa tipica dei giovani (spesso associato con il lavoro a termine) e
quello, meno consistente (circa un terzo del totale), degli individui in età
adulta. Sono soprattutto le imprese che adottano modelli tradizionali a
utilizzare la flessibilità senza valorizzare il capitale umano, forse anche per
tenere basso il costo del lavoro e rimanere competitivi in assenza di
inno-vazione.
Nella media complessiva i redditi pro capite possono risultare anche
ele-vati e molte famiglie con due o più percettori di reddito godono di una
si-tuazione soddisfacente, ma nel Mezzogiorno e in altre zone in molte
fami-glie vi è un solo percettore di reddito e un numero consistente di famifami-glie
(circa 650 mila, di cui più di due terzi nel Mezzogiorno) è, come suol
dir-si, senza occupati.
Ci sono oltre 4 milioni di lavoratori a basso reddito (al di sotto dei 700
euro mensili), di cui circa 1,5 vive in famiglie in condizioni di disagio
eco-nomico. Si tratta in prevalenza di giovani con redditi da lavoro autonomo;
ma bassi redditi da lavoro sono anche presenti tra i dipendenti con orari
standard e a tempo determinato. Il fenomeno dei bassi redditi da lavoro è
più frequente tra le donne (28 per cento contro il 12 degli uomini), tra i
giovani al di sotto di 25 anni (36 per cento), tra le persone con un grado di
istruzione inferiore alla licenza media (32 per cento) e tra i lavoratori che
operano nel settore privato (21 per cento contro il 5 degli impiegati del
set-tore pubblico).
I redditi da pensione costituiscono una fonte importante − in alcuni
ca-si prevalente − per molte famiglie (circa un terzo del totale beneficia di
so-li redditi da trasferimenti pubbso-lici). I so-livelso-li medi sono però diversi nelle
aree del Paese: al Nord le famiglie beneficiano di importi maggiori
(pen-sioni di anzianità e vecchiaia) che permettono anche trasferimenti
intrafa-miliari a beneficio dei più giovani (soprattutto se “precari” o con
occupa-zioni a basso reddito). Nel Mezzogiorno, invece, i redditi da pensione sono
SINTESI- RIDURRE LE AREE DI VULNERABILITÀ, FAR CRESCERE LA FIDUCIA
un’integrazione di quelli da lavoro nei casi più favorevoli; nelle famiglie in
cui questi rappresentano invece la principale fonte di reddito si osservano
situazioni di povertà. Per le famiglie degli anziani, insieme ai trasferimenti
pubblici, anche il possesso dell’abitazione rappresenta, di fatto, un forte
elemento di “protezione sociale”. Infatti, se si tiene conto del possesso
del-la casa nel calcolo del reddito, del-la disuguaglianza si riduce. Il costo
dell’abi-tazione incide in misura maggiore per le famiglie dei giovani. Sono
soprat-tutto queste famiglie a vivere in affitto (pagando in media nel 2004 oltre
500 euro al mese). Tra le famiglie proprietarie delle abitazioni che pagano
un mutuo (circa il 13 per cento), sono ancora una volta le famiglie giovani
che più frequentemente (oltre il 30 per cento) devono sopportare questo
costo indubbiamente rilevante per il bilancio familiare. In questo contesto
appaiono evidenti le difficoltà dei giovani e la loro esitazione a formare
nuove famiglie è ovvia.
Il numero di famiglie e di persone relativamente povere (individuate
sulla base di un valore convenzionale del livello della spesa per i consumi)
si è modificata poco negli ultimi otto anni.
Tali informazioni sono importanti per capire quando la vulnerabilità si
trasforma in povertà. In termini generali si può dire che la povertà relativa
è concentrata nel Mezzogiorno, nelle famiglie con un elevato numero di
componenti, tra gli anziani soli, nelle famiglie con disoccupati. Si possono
individuare quattro gruppi caratteristici di famiglie povere: le coppie
ziane (circa il 33 per cento del totale delle famiglie povere), le donne
an-ziane sole (circa il 20 per cento), le famiglie con persona in cerca di
occu-pazione nel Mezzogiorno (circa l’8 per cento) e le famiglie con lavoratori a
basso profilo professionale (quasi il 40 per cento).
Il disagio economico si traduce anche in situazioni di deprivazione
ma-teriale e di insicurezza. È così possibile stimare l’ammontare di famiglie che
sperimenta difficoltà nel consumare un pasto adeguato ogni due giorni (il
7,5 per cento), quelle che trovano difficoltà per arrivare a fine mese con il
reddito conseguito o che non riescono a far fronte a una spesa imprevista
di mille euro (in entrambi i casi oltre il 30 per cento). Tra le famiglie in
condizioni economiche meno favorite, ci sono quelle dei giovani che
han-no prevalentemente redditi da lavoro autohan-nomo, le famiglie numerose e
quelle residenti nel Mezzogiorno.
Come detto, la presenza di più redditi riduce fortemente il rischio di
di-sagio: il modello verso cui si tende è quello in cui entrambi i coniugi
lavo-rano, ma ciò mette sotto pressione i tempi di vita in assenza di una forte
re-te di servizi sociali, in particolare nel Mezzogiorno.
Servizi e interventi sociali nel territorio: divari e fragilità
Queste condizioni di difficoltà e disagio, unitamente alle
trasformazio-ni demografiche, in particolare per quanto riguarda l’invecchiamento della
popolazione, e all’emergere di nuovi equilibri tra famiglia e lavoro,
accre-scono e qualificano la domanda di protezione sociale, al cui
soddisfaci-mento è preposto il sistema di welfare. Tra i nuovi bisogni non vanno
sot-ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005XXV
tovalutati quelli espressi dall’aumento della popolazione immigrata a cui
l’Istat, in un recente convegno, ha dedicato analisi approfondite. Il ruolo
dei servizi sociali è importante nel dotare tutti i cittadini di livelli minimi
uniformi di accesso a sanità, istruzione e assistenza sociale. Il processo di
decentramento in corso deve avvicinare l’offerta di servizi ai bisogni dei
cittadini, salvaguardando la coesione. Inoltre, la spesa sociale può
contri-buire a determinare le condizioni per attivare processi virtuosi di sviluppo,
anche attraverso investimenti in infrastrutture sociali. I forti squilibri
ter-ritoriali nel nostro Paese, da questo punto di vista, sono infatti un
ostaco-lo alostaco-lo sviluppo.
Una nuova fonte statistica, i Conti pubblici territoriali elaborati
nel-l’ambito del Sistema statistico nazionale, consente di analizzare nel
detta-glio i divari di spesa per interventi e servizi sociali a livello regionale. A
fronte di un valore medio per abitante di poco superiore a 3 mila euro
an-nui, permangono ampi divari territoriali di spesa sociale, con valori
mag-giori nelle regioni centro-settentrionali e minori in quelle meridionali. La
differenza di spesa sociale per abitante tra la regione che spende di più e
quella che spende di meno è pari a quasi 2 mila euro annui. Il reddito pro
capite è fortemente associato con questa spesa sociale: sono le regioni più
ricche a spendere di più per queste funzioni, indicando che la spesa sociale
ha solo modeste funzioni di riequilibrio dei divari tra le regioni.
La spesa sociale dovrebbe invece svolgere una funzione di perequazione
delle differenze in termini di dotazione di servizi tra i territori. Essa
po-trebbe, in particolare, operare una redistribuzione delle risorse in base ai
ri-schi specifici dei diversi comparti: le condizioni di salute per la sanità, la
povertà e il disagio per l’assistenza sociale e l’investimento in capitale
uma-no per l’istruzione. Nouma-nostante la crescente autouma-nomia decisionale e
finan-ziaria introdotta ai diversi livelli istituzionali per rendere l’offerta di
servi-zi più vicina ai bisogni dei cittadini, allo stato attuale non sembra che tale
potenzialità sia stata pienamente sfruttata.
Comunque, tra il 1996 e il 2003 si riscontra una graduale convergenza:
le regioni con i livelli di spesa minori hanno mostrato la crescita più
soste-nuta. Anche i modelli tradizionali di offerta sono in evoluzione: il peso
del-le spese di personadel-le si è ridotto nel settore istruzione, soprattutto al Sud.
Per la sanità è in crescita la quota di spesa dedicata agli acquisti in
conven-zione, specialmente al Nord. Per l’assistenza si è ridotto il peso dei
trasferi-menti monetari: in particolare nelle regioni meridionali. Tuttavia, al
mo-mento le differenze esistenti tra i territori sono il tratto dominante del
si-stema di offerta sociale.
Nella sanità emergono modelli differenziati. Si osserva una generale e
graduale tendenza alla deospedalizzazione, che però stenta ancora a
consoli-darsi nella gran parte del Paese. Alcune Asl rimangono incentrate sulla
pre-senza degli ospedali pubblici medio-grandi con elevati livelli di offerta (in
prevalenza nel Centro-nord). Nelle regioni meridionali domina il modello
dell’ospedale pubblico, ma con una capacità di offerta nettamente inferiore:
è da queste regioni che origina la gran parte della mobilità ospedaliera. In
alcune regioni del Sud (Sicilia e Campania), il modello prevalente è invece
SINTESI- RIDURRE LE AREE DI VULNERABILITÀ, FAR CRESCERE LA FIDUCIA
basato su un mix pubblico-privato orientato all’offerta in convenzione.
In-fine, nelle principali aree metropolitane è forte la presenza di grandi
ospe-dali e policlinici.
Per l’istruzione i divari sono concentrati sugli aspetti qualitativi.
L’offer-ta di servizi di istruzione primaria e secondaria è sosL’offer-tanzialmente
omoge-nea (però al Sud permane una minore offerta di servizi extrascolastici), in
presenza di livelli di spesa differenziati nel territorio e, soprattutto, di
ri-sultati scolastici che penalizzano le regioni centro-meridionali (come
testi-monia l’indagine Pisa condotta dall’Ocse).
Negli ultimi anni, a seguito della riforma degli ordinamenti didattici, si
è osservata una forte crescita del numero di corsi di laurea di primo e
se-condo livello, nonché dell’offerta formativa delle università. La spinta è a
decentrare l’offerta a tutti i capoluoghi di provincia e nel territorio.
Au-mentano gli iscritti e gli studenti in corso e diminuiscono quelli che non
superano alcun esame, anche se gli abbandoni continuano a rappresentare
un problema: circa uno studente su cinque non si iscrive al secondo anno.
Il numero dei laureati sta aumentando e altri indicatori di efficienza anche
gestionale delle singole unità e del sistema sono migliorati, ma è ancora
difficile valutare gli effetti della riforma, che presenta risultati
contrastan-ti. Si è diffusa tra gli atenei la valutazione delle attività svolte; in alcuni
ca-si il risultato è stato di correggere comportamenti distorti.
Tuttavia, si è puntato troppo sull’attività didattica che, come abbiamo
detto prima, non sempre corrisponde alla richiesta del mercato. Occorre
tra l’altro valutare ancora più attentamente la validità e la qualità
dell’of-ferta formativa e lo sviluppo del capitale umano che i corsi di laurea e
lau-rea specialistica consentono, a garanzia degli studenti e delle famiglie e
de-gli stakeholder. È infine fondamentale puntare sulla ricerca, motore dello
sviluppo delle conoscenze e dell’economia.
L’assistenza sociale è il settore più arretrato in termini di
riqualificazio-ne e crescita dei servizi e quello dove emergono i maggiori divari
territoria-li in termini di offerta. Gterritoria-li interventi assistenziaterritoria-li sono decisamente
infe-riori alla media nelle regioni meridionali, dove le tipologie più diffuse
so-no i contributi ecoso-nomici per le famiglie. È scarsa in queste regioni la
pre-senza di strutture socioassistenziali per disabili e anziani, mentre è
maggio-re il peso di quelle per minori. Tuttavia è più elevata della media
l’za domiciliare per anziani. Nelle altre regioni, invece, la forma di
assisten-za prevalente è quella di servizi alla persona in strutture residenziali o
semiresidenziali; inoltre i livelli di assistenza sono più elevati e la
copertu-ra dei servizi più completa sul territorio.
In conclusione, il sistema di welfare rimane caratterizzato da una forte
incidenza delle spese per prestazioni monetarie, tra queste in particolare
quelle per le pensioni, a scapito della componente dei servizi alla persona.
Negli ultimi anni si possono apprezzare alcuni leggeri segnali di
cambia-mento associati anche al decentracambia-mento e all’autonomia finanziaria dei
sog-getti erogatori di servizi, che non hanno ancora intaccato sostanzialmente il
modello incentrato sui trasferimenti monetari e non hanno realizzato
rile-vanti risultati in termini efficienza, qualità e riequilibrio dei divari.
ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005
XXVII Conclusioni
Il Rapporto di quest’anno, individuando aree specifiche di vulnerabilità
del Paese, consente di precisare ulteriormente, rispetto a quanto già
indi-cato negli anni passati, gli ambiti e gli ostacoli allo sviluppo che
potrebbe-ro essere trasformati in opportunità. Si tratta di far emergere il potenziale
di dinamismo implicito nella ricchezza dei comportamenti osservati.
L’Italia è caratterizzata da una forte eterogeneità dei soggetti, dei
com-portamenti e delle situazioni, sia sul piano economico sia su quello sociale.
In alcuni casi si osservano comportamenti virtuosi e favorevoli allo
svilup-po, in altri aree di disagio e di ostacolo alla crescita. Tra i primi si
annove-rano le medie imprese innovative, le istituzioni capaci di valorizzare le
po-tenzialità offerte dal decentramento, il dinamismo del mercato del lavoro,
il ruolo delle famiglie nell’assicurare la coesione sociale. Tra i secondi si
ri-cordano la debolezza del quadro di finanza pubblica, gli squilibri della
cre-scita economica, la polverizzazione e la scarsa cultura di impresa,
l’insuffi-ciente sviluppo della ricerca, dell’innovazione e del capitale umano, i
com-portamenti istituzionali tendenti ad accentuare i divari territoriali, la
per-sistenza delle forme di precarietà di lavoro per i giovani, il permanere di
aree di disagio socioeconomico, l’inadeguatezza delle politiche per gli
im-migrati e, infine, la scarsa mobilità sociale.
Alla luce di queste analisi, ad esempio, possiamo sostenere che
flessibi-lità lavorativa e precarietà non sono sempre sinonimi e spesso non si
riferi-scono agli stessi gruppi di soggetti. Per quanto riguarda la flessibilità, il
mercato del lavoro italiano si è in questi anni avvicinato a quello degli altri
paesi europei. Quote crescenti di lavoro flessibile coinvolgono
prevalente-mente i giovani e le donne. Tale flessibilità non necessariaprevalente-mente implica
precarietà, specialmente in situazioni in cui il sostegno familiare attenua il
disagio lavorativo e reddituale. Quando, invece, queste condizioni
persi-stono nel tempo, coinvolgono segmenti deboli del mercato del lavoro e si
coniugano con aree di disagio familiari e territoriali esse generano
preoc-cupanti fenomeni di precarietà. Questa precarietà è acuta ma non diffusa;
tuttavia, in assenza di un quadro adeguato di interventi pubblici, può
mi-nare la coesione sociale, indebolire la sostenibilità della ripresa economica
e intaccare la fiducia dei consumatori.
Ancora, l’eterogeneità dei segnali che pervengono agli attori economici
deriva in primo luogo dal cattivo funzionamento di alcuni mercati, in
par-ticolare per assenza di concorrenza. Si riscontra la presenza di posizioni di
rendita che riducono l’efficienza del sistema economico, con alti costi per
famiglie e imprese. Inoltre, anche nei settori dove è più forte il controllo
pubblico diretto e indiretto della produzione, questo spesso non si
trasfor-ma in benefici per i consutrasfor-matori.
Lo stesso accade per il comportamento delle istituzioni pubbliche: il
proliferare di normative complesse, anche se molto è stato fatto per la
sem-plificazione, fornisce messaggi contraddittori. Altrettanto intricato è il
si-stema di incentivi in materia economica, che non sempre individuano con
chiarezza gli obiettivi prioritari. Per essere efficaci, le misure orientate alla
SINTESI- RIDURRE LE AREE DI VULNERABILITÀ, FAR CRESCERE LA FIDUCIA
promozione della crescita devono tenere conto delle caratteristiche e della
segmentazione del sistema produttivo.
In questo quadro, ad esempio, le misure in discussione sulla riduzione
del cuneo contributivo forniscono segnali solo parzialmente coerenti con le
esigenze di trasformazione del sistema delle imprese. La riduzione proposta
di 5 punti percentuali dei contributi sociali (con un costo netto per il
bi-lancio pubblico pari a circa 10 miliardi di euro) avrebbe l’effetto di
ridur-re il costo del lavoro e aumentaridur-re la ridur-redditività lorda di circa 2-3 punti
per-centuali se l’intero risparmio andasse a favore delle imprese. Ciò
rappre-senterebbe uno shock positivo in termini di competitività, ancorché una
tantum. Questa misura rischia però di fornire un disincentivo
all’innova-zione (di prodotto e di processo) e al passaggio verso tecnologie più capital
intensive e, in assenza di meccanismi di selezione virtuosa, premierebbe
so-stanzialmente le imprese meno produttive. Se una parte dei benefici fosse
trasferita ai lavoratori, l’impatto sui redditi disponibili delle famiglie
sareb-be comunque modesto, senza concentrarsi su quelle in condizioni di
disa-gio a meno che non si limiti il provvedimento a gruppi target più
selezio-nati. Le informazioni statistiche disponibili consentono di svolgere analisi
più puntuali, come abbiamo messo in evidenza nell’audizione alla
Com-missione bilancio alla fine dello scorso anno.
Difficilmente un provvedimento del genere può avere
contemporanea-mente effetti positivi sia sul versante della redditività delle imprese sia sul
reddito delle famiglie. Sarebbe allora più efficace diversificare gli
strumen-ti in funzione degli obietstrumen-tivi.
Anche sul versante delle politiche per l’occupazione e la produttività la
selezione degli interventi è fondamentale. Occorre non dimenticare che il
mercato del lavoro è segmentato. Vista la contiguità delle aree di flessibilità
con il lavoro sommerso è necessario considerare, assieme alle informazioni
statistiche sul lavoro “ufficiale”, le stime sul lavoro “sommerso” fornite
dal-l’Istat a livello settoriale e provinciale.
Comunque, l’ampliamento del part time, la diffusione di orari e durate
flessibili e l’aumento del tasso di occupazione (puntando alla
partecipazio-ne di coloro che rimangono fuori dal mercato del lavoro) sembrano essere
gli obiettivi più efficaci per stimolare e consolidare un modello
occupazio-nale a più ampia partecipazione e con più elevati livelli di produttività.
Gli obiettivi delle riforme istituzionali degli ultimi anni, e in
particola-re quelli connessi al processo di decentramento, sono messi a particola-repentaglio
dalla scarsa cooperazione istituzionale e, in alcuni casi, dall’assenza di
mec-canismi di bilanciamento e controllo degli assetti tra poteri. Tutto ciò si
traduce in una bassa efficienza della rete di servizi pubblici, soprattutto per
i cittadini, e in una scarsa attenzione all’investimento in capitale umano.
In questo quadro, è essenziale fornire segnali chiari. C’è una sostanziale
convergenza sui nodi strutturali da affrontare. Non è dunque importante
discutere e definire solamente il contenuto delle politiche, ma anche e
so-prattutto le modalità con cui queste vengono progettate, comunicate e
concertate. Tra gli interventi importanti, oltre a quelli con impatto
socio-economico più immediato, non devono essere trascurati quelli che
riguar-ISTAT - RAPPORTO ANNUALE2005dano lo sviluppo sostenibile di lungo periodo. Tra questi sono di
particola-re importanza il riequilibrio dei divari territoriali per colmaparticola-re il gap
infra-strutturale; la crescita delle infrastrutture sociali per assicurare
l’uguaglian-za delle opportunità e favorire la mobilità sociale; la centralità dei beni
co-muni (quali l’aria, l’acqua, il patrimonio culturale e artistico) per garantire
uguaglianza di condizioni e di accesso da parte di tutti i cittadini e delle
fu-ture generazioni.
La tempistica e la sequenza delle riforme devono però tenere conto dei
vincoli. Essi sono sia di tipo economico (l’esigenza di ridurre il disavanzo
pubblico, i costi di riconversione del sistema produttivo, l’impatto della
concorrenza globale), sia di tipo sociale (il diffuso bisogno di
redistribu-zione dei redditi e di proteredistribu-zione sociale, la gestione dei cambiamenti nel
mercato del lavoro, il riequilibrio dei divari territoriali, la riduzione degli
oneri impropri che grava sulle famiglie a causa dell’inefficacia del sistema
di welfare).
Il Rapporto annuale, come sempre, fornisce al Paese analisi che possono
aiutare nel disegno delle politiche necessarie per dare risposte adeguate ai
problemi sul tappeto. I messaggi che emergono mettono in luce
chiaramen-te i costi e i rischi dell’inazione e la conseguenchiaramen-te necessità di operare scelchiaramen-te
coraggiose nel rispetto dei vincoli economici, della comune appartenenza
europea e della coesione sociale. Alle istituzioni, alle imprese, alle parti
so-ciali, alla società civile e ai singoli cittadini il compito di operare
responsa-bilmente le proprie scelte.
Tutti devono fare correttamente la loro parte. Dal canto suo, anche la
sta-tistica ufficiale è impegnata, già da tempo, a potenziare gli strumenti di
mi-surazione e di valutazione. Sistemi informativi sempre più validi, efficaci,
tempestivi e integrati sono necessari per rappresentare adeguatamente la
complessità della nostra società. Questo processo richiede, come
ampia-mente noto, adeguate risorse umane e finanziarie, comparabili a quelle dei
nostri partner europei e certe in un quadro di programmazione pluriennale.
Ma condizione essenziale affinché questo compito così impegnativo possa
continuare a essere svolto ad adeguati livelli di qualità e con la piena fiducia
dei cittadini è l’indipendenza e l’autonomia scientifica dell’Istat. Ora più
che mai, dunque, è indispensabile che i principi fondamentali della
statisti-ca ufficiale e le sue istituzioni trovino un riconoscimento costituzionale.
SINTESI- RIDURRE LE AREE DI VULNERABILITÀ, FAR CRESCERE LA FIDUCIA
Rapporto annuale
1.1 Quadro macroeconomico internazionale
Per il complesso dell’economia mondiale la crescita nel 2005 si è mantenuta vi-gorosa, pur segnando un ritmo lievemente inferiore a quello del 2004. Secondo le prime stime del Fondo monetario internazionale, il prodotto ai prezzi di mercato è aumentato in termini reali del 3,4 per cento (dal 4 per cento del 2004). Il Pil espresso a parità di potere d’acquisto, che attribuisce alle economie emergenti un peso proporzionale al loro livello di reddito effettivo, è invece aumentato del 4,8 per cento (dal 5,3 per cento del 2004). Il limitato rallentamento dell’espansione ciclica si è associato con un’attenuazione della dinamica del commercio interna-zionale di beni e servizi (+7,3 per cento in volume, dal 10,4 per cento del 2004) mentre, in direzione opposta, è proseguito il rafforzamento della spesa per investi-menti (Figura 1.1).
La congiuntura economica nel 2005
L’'espansione mondiale è sostenuta 0 4 8 12 1985 1990 1995 2000 2005 16 20 24 28
Pil Ppa Pil Pdm
Investimenti in % sul Pil (scala di destra) Commercio mondiale di beni e servizi
Fonte: Fmi, World economic outlook database (aprile 2006)