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Turismo istituzionalizzato: guide ed agenzie turistiche

4. IL PALCOSCENICO: LA BOLIVIA

6.5 Turismo istituzionalizzato: guide ed agenzie turistiche

Nella mia permanenza a LaPaz, prima di andare ad Uyuni, ho avuto modo di parlare con alcune agenzie che organizzavano da lì tour per il Salar.

Le agenzie dislocate nella capitale o nelle città più grandi hanno nomi che richiamano questi concetti: “The Real Deal Tours”, “Adventure Tours”, mentre molte delle agenzie con sede ad Uyuni o Tupiza preferiscono usare nomi che si riferiscono a parti del paesaggio locale, come “Solili62 Tours” o “Licancabur63 Tours”.

Se l’autenticità è un concetto emergente e negoziato, spesso nemmeno portato a galla nei discorsi in modo cosciente dai turisti, parte della mia ricerca è stata rivolta all’osservare come esso venisse messo in pratica non solo dai turisti, la cui agentività nell’accettare o meno una esperienza come autentica e il modo in cui la accettano resta il nodo fondamentale della mia tesi, ma anche dalle persone che hanno creato e gestiscono i circuiti turistici della zona: le agenzie turistiche, e poi le guide.

Scopo è capire che parole usano, come cercano di vendere il viaggio e dunque su quali valori/stereotipi puntano. Come ci vedono i boliviani che cercano di venderci un pacchetto turistico? Come cercano di renderlo attraente, e per estensione autentico?

Come ci ricorda Cole (2007; 943), l’ossessione per il vero e l’autentico riguarda l’Occidente e i suoi turisti, ma non si traduce necessariamente in sistemi affini in altre popolazioni

considerate.

Quello che ho visto è stato pienamente confermato sia dal comportamento del mio gruppo sia da quello delle guide: le parole che fanno presa sono “natura incontaminata”, “avventura”, “esperienza estrema”, “vita dura”. Questo perché il turista interessato ad un viaggio in Bolivia di solito è una tipologia di turista che Cohen (1988; 377) classifica come “esperienziale”: un turista in cerca di avventura, emozioni, e magari una spiritualità diversa. La Bolivia non ha villaggi vacanze, e non ha nemmeno siti celebri come può essere Macchu Picchu nel vicino Perù. Non è un paese sviluppato, in nessun senso del termine. Proprio per questo motivo, attira una varietà di persone interessate a quello che un evoluzionista potrebbe chiamare “stato di natura”. E quindi, un turismo basato sul rapporto con la natura e il paesaggio incontaminato e con locali che, almeno stando ai pacchetto turistici, vivono in un mondo colorato ed oscuro, ma soprattutto un mondo che viene venduto come brado, difficile, fermo ad una storia prima

62 Solili è il deserto che si attraversa il terzo giorno di tour. 63 Vulcano al confine con il Cile

della storia, che può interessare a backpackers, ecoturisti e turisti che praticano sport come trekking o canoa.

Ovviamente queste affermazioni non vanno prese come una realtà, ma come stereotipi venduti ad uno specifico target di turisti, di solito interessati appunto a forme di ecoturismo e turismo comunitario.

L’agenzia Fremen Tours, ad Uyuni, ha fondato tutto il suo successo su dei tour che offrono alberghi di qualità maggiore e prezzi molto più alti perché parte di un progetto di ecoturismo comunitario

Se una delle critiche al turismo dei grandi numeri è che è gestito da compagnie occidentali, che lasciano poco ai locali (Aime, 2007; 58), la Fremen Tours gli oppone un progetto completamente gestito dalla popolazione locale.

Allo stesso modo, ecoparchi come la Loma Chuchini devono la loro fortuna in parte ai turisti occidentali che si spingono fin lì per vedere animali allo stato brado (cosa che purtroppo non avviene; gli animali del parco sono tutti in cattività).

Il rapporto con le agenzie di viaggio, soprattutto quelle che ho visitato a La Paz, è affabile ma impersonale. Queste agenzie spesso offrono tour in tutta la Bolivia, e sono abituate a gestire molti clienti. Non si preoccupano molto di accaparrarsi le persone per il tour, perché sanno che molti turisti vengono solo a farsi un’idea.

La mia prima volta ad Uyuni, arriviamo con il nostro trufi64, e lasciamo che sia Antonio ad organizzare il tour. Per praticità, si rivolge al nostro albergo e il giorno dopo partiamo. Fare il tour per conto proprio è vivamente sconsigliato: innanzitutto perché il sale corrode l’auto ed è necessaria una costante manutenzione, ma soprattutto perché la superficie del deserto in molti punti è fragile. “La chiamiamo cascara de huevo65, perché è fragile e se ci passi sopra si rompe tutto. E poi pluf!” mi dice José, mimando un oggetto che cade “c’è acqua sotto” (Uyuni, 23/11/2010, intervista in appendice)

Uno dei divertimenti più grandi della gente di Uyuni è, con una ironia insolitamente macabra, spettegolare dei turisti che sono morti nel Salar, soprattutto quelli caduti in qualche ojo66

Bisogna conoscere i percorsi sicuri ed evitare di perdersi; in questo altipiano bianco le distanze si confondono. Ricordo, durante il mio primo tour, di aver esultato vedendo la piccola isola di Incahuasi, piantata in mezzo al deserto con i suoi giganteschi cactus.

Sembrava così vicina, eppure per arrivarci ci è voluta quasi un’ora: l’ampiezza del Salar, che

64 Piccolo pulmino da circa 15 persone che avevamo preso in affitto per muoverci in Bolivia. 65 Guscio d’uovo

sembra scorrere senza fatica sotto le ruote del fuoristrada, è di 12.000 km², quasi quanto l’intero Trentino Alto-Adige. Orientarsi in un posto del genere, senza punti di riferimento, ha causato la morte di molte persone negli ultimi vent’anni.

La seconda volta che arrivo ad Uyuni, ci arrivo in autobus dopo un terrificante viaggio da Tarija a Potosì fatto quasi a passo d’uomo a causa del cattivo stato delle strade, e cambio da Potosì ad Uyuni: un totale di 17 ore di viaggio per coprire 560 km.

Arrivata ad Uyuni vengo assalita da signore boliviane che mi riempiono le mani di volantini di agenzie che organizzano tour per il Salar e la Reserva Avaroa.

Nei tre giorni in cui aspetto l’arrivo di mia sorella, per poi partire per un tour “sportivo” di due giorni, in cui invece di andare a sud verso la Riserva Avaroa ci portano a scalare un vulcano, decido di visitare le agenzie di Uyuni. Anche qui i concetti chiave sono gli stessi: “avventura” e “natura”.

Il giorno dell’arrivo di mia sorella Camilla dal Cile, dove stava girando un documentario, vado ad aspettarla seduta sul ciglio del grande stradone dove, in teoria, sarebbero dovuti passare gli autobus (ma nessuno sa dirmi dove si fermassero. “Dove capita”, accompagnato da alzata di spalle, è la risposta, che in effetti si rivela vera). Qui non esiste una vera e propria fermata; inoltre, poiché avrebbe viaggiato per la maggior parte del tempo nel deserto (prima quello di Atacama in Cile, poi per l’area desertica sotto il Salar e sopra la Reserva Avaroa), non sarebbe stato possibile avere un contatto telefonico.

Alle 9 di mattina tutte le signore hanno iniziato ad aprire le loro agenzie di viaggi, e una di loro, Santina, mi ha offerto il suo divano, dove ho potuto aspettare fino all’arrivo del bus, che ha avuto 7 ore di ritardo. Col sorriso aperto della gente dei boliviani, mi ha raccontato

aneddoti su spedizioni precedenti e sugli incidenti più eclatanti della zona, soprattutto del frontale fatto in mezzo al deserto da due jeep, e di pettegolezzi riguardo all’unico

sopravvissuto, una guida boliviana.

L’assurdità dell’incidente la sorprende, ma non più di tanto: i turisti fanno le cose più strane, secondo lei.

Non avevo né registratore né bloc notes, quindi Santina mi ha dato un pacco di vecchie ricevute sul cui retro ho potuto scrivere. Mi ha detto che la quantità di agenzie qui è eccessiva rispetto a quella di turisti, e che la maggior parte, per non affondare, usa la scusa del turismo per trasportare droga oltre confine, visto che le jeep dei turisti non vengono mai controllate. Ho l’occasione di parlare con una donna brasiliana, di ritorno dal tour di tre giorni, e una coppia di francesi. I tre si lamentano di non aver avuto con sé contanti per i costi aggiuntivi

come l’ingresso alla Reserva o l’acqua calda per le docce e della temperatura notturna, che arriva fino a -20°C.

Santina li tratta come bambini capricciosi, e quando se ne sono andati mi guarda rassegnata (uno sguardo che mi sono abituata a ricevere da molti boliviani) e dice: “Ma chi mai parte per un tour di tre giorni senza contanti?Turisti…”.

Oltre ai gestori delle agenzie, un ruolo fondamentale spetta alle guide, che trasportano i turisti su jeep da 6 persone per tutta la durata del percorso.

José, che ha circa 30 anni ed è originario di La Paz, mi racconta com’è essere una guida ad Uyuni.

La guida, mi dice, è l’ultima ruota del carro; guadagna pochissimo (con un tour di 6 persone, che dura tre giorni, l’agenzia ha soldi sufficienti per il suo stipendio di un mese), ed è per questo che molte guide non si sentono di dare qualcosa “in più” ai turisti. I ritmi sono infernali: si sveglia alle 4 per preparare le nostre colazioni, guida tutto il giorno e prepara i pasti, poi, la sera, può capitare che debba fare consegne per l’agenzia nei paesi vicini. Una volta finito il tour, al pomeriggio del terzo giorno, porta a controllare la macchina e il giorno dopo riparte, senza giorni liberi.

Ricorda con nostalgia il suo precedente lavoro di camionista.

“Ogni tanto accetto ancora qualche lavoro di camionista tra Bolivia e Cile”, racconta a me, Camilla ed Anjelica (una ragazza colombiana del nostro gruppo), “ma qualche anno fa, ero con un mio amico e ci hanno fermato alla frontiera, e hanno trovato della droga nel camion. Non era mia, ma non me la sento più di fare solo il camionista.” (José, Uyuni, 23/11/2010, intervista in appendice)

Mi racconta di come le guide debbano seguire dei corsi di perfezionamento pagati dal Governo, oltre che sulla storia e la geografia del posto, anche su come fare un turismo più sostenibile.

Gli chiedo se pensa sia importante. Mi risponde che lo è perché i turisti lo pretendono, oggigiorno. Il giorno prima avevamo avuto un’accesa discussione al riguardo, perché mentre eravamo diretti a Coqueza, un microscopico paesino alle pendici del Vulcano Thunupa, un sacchetto di spazzatura è caduta dalla jeep. Nonostante le proteste, José si è rifiutato di sprecare benzina per tornare a raccogliere i rifiuti.