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Yatiri, Kallawaya e ciarlatani.

4. IL PALCOSCENICO: LA BOLIVIA

6.9 Yatiri, Kallawaya e ciarlatani.

Il distinguere i ciarlatani dai veri yatiri74 , e quindi le forme di medicina tradizionale modificate ad uso degli stranieri e quelle usate tuttora dai boliviani, è stata una delle sfide maggiori per Martina e Sara, due delle ricercatrici in viaggio con me, che avevano interessi specifici rivolti a queste figure.

A LaPaz l’autista del pulmino su cui viaggiamo ci fa conoscere parte della sua famiglia. Una tra i suoi parenti ci consiglia Estanislao, uno yatiri “vero”, che andiamo a visitare.

In questo caso, intendo vero nel senso che non fa sedute per i turisti: i suoi clienti sono signore boliviane della classe medio-alta, e ci viene consigliato dai parenti di La Paz di Rafo, l’autista del nostro pulmino.

Non spetta qui a me dare giudizi sulle sue capacità; è sufficiente dire che il suo aspetto serio, il fatto che fosse consigliato e che non abbia chiesto una quantità eccessiva di soldi abbiano contribuito a farlo assurgere agli occhi del gruppo allo status di “vero yatiri” non solo a livello istituzionale (aveva anche i diplomi di curandero professionista appesi nello studio), ma per le

74 Yatiri è il termine Aymara che indica una figura a metà via tra un medico erborista ed uno sciamano.

risposte emozionali che aveva provocato in chi ha parlato con lui.

Enrico l’ha pregato affinché preparasse e eseguisse un rituale, e quando lui l’ha fatto senza chiedere soldi oltre a quelli delle spese sostenute per gli ingredienti, la sua “autenticità” è diventata un dato di fatto.

Una performance in sé è stata, quando sono tornata da lui due mesi dopo, il poter ascoltare la seduta della donna boliviana prima di me, e il poter osservare come noi (il gruppo con cui ho conosciuto Estanislao due mesi prima) fossimo completamente fuori strada rispetto a quello che è e fa un o yatiri agli occhi dei locali. Succubi di letture antropologiche e romanzi sudamericani sui curanderos75 boliviani e dei discorsi sulla naturaleza76, di cui yatiri e

curanderos erano le figure di mediazione con gli abitanti, non avevamo capito che li avevamo trattati come Houdinì quando invece il loro lavoro, come ho potuto osservarlo nella

quotidianità con clienti boliviani, ricorda di più Vanna Marchi.

La sala d’aspetto dello studio di Estanislao, accanto al Museo de la Coca, e la sala in cui performa i suoi riti e legge il futuro sono divise solo da una tenda.

Prima di me e mia sorella Camilla, con me in Bolivia per parte del terzo mese, c’è una donna i cui abiti occidentali e i gioielli fan pensare appartenga alla classe ricca borghese di LaPaz, arrabbiata perché la persona a cui Estanislao aveva fatto una fattura non è ancora morta. Estanislao la stava sgridando, rammentandole che per queste cose ci vuole tempo.

Questo aneddoto non va preso come norma: abbiamo conosciuto anche curanderos che si sono rivelati (o ci sono sembrati) esattamente come ce li immaginavamo: Doña Justina, che ci ha accettato in dieci a casa sua e ha sopportato una videocamera puntata in volto e i flash delle macchine fotografiche, raccontando la sua vita e il suo lavoro (o meglio, il suo apporto al lavoro del marito, Don Aurelio, che è ufficialmente il curandero e la fonte principale per i libri sui kallawaya dell’antropologa Ina Rösing), ma anche Don Ramòn, estasiato

dall’opportunità di essere ripreso mentre parla del suo lavoro di kallawaya.

Anche Charazani, che nella teoria è un posto sicuro poiché ha dei “veri” curanderos, non è immune dai ciarlatani.

Una mattina Sara ha attaccato verbalmente un curandero che si è rivelato un ciarlatano, e che le aveva proposto di fare un vero rituale kallawaya a pagamento.

Il nostro gruppo aveva deciso di passare qualche giorno nel paesino proprio perché Sara potesse parlare con i medici kallawaya della zona. Parlando con gli abitanti, Sara era riuscita

75 Guaritori 76 La naturalità

ad avere gli indirizzi di alcuni di loro; uno in particolare, era nel paesino e non a Curva, ad ore di cammino sulle Ande.

Questi le era sembrato affidabile, ed avevano iniziato a discutere di organizzare un rituale a cui avremmo potuto partecipare tutti, in modo che ci illustrasse il suo modo di curare e fare rituali.

Avevano stabilito un prezzo ed un giorno. La mattina dopo, il sedicente curandero ha chiesto di incontrarsi e ha iniziato a gonfiare il prezzo del rituale, cambiando i termini degli accordi che lui e Sara avevano preso un paio di giorni prima.

Questo, aggiunto al fatto che Sara aveva chiesto in giro e non le avevano parlato bene del kallawaya; una signora aveva riso, dicendo che non c’erano Kallawaya a Charazani e avrebbe dovuto andare a Curva, o a Lullaya da Don Aurelio.

Sara, sentendosi presa in giro, ha iniziato ad accusarlo di averla imbrogliata, fino a che, arrivato Antonio, il curandero se ne è andato.

Non importa che, studiando la medicina tradizionale, potesse esserci un valore nello studiare come la medicina viene “performata” ad uso dei turisti e dei non esperti. Il ciarlatano era una macchia nella sua ricerca che lei non voleva ammettere né riconoscere.

Sara, essendo già laureata, non aveva una tesi da scrivere; tuttavia l’episodio, nonostante le abbia occupato giorni, è stato levato dai suoi materiali di ricerca perché per lei una ricerca sui Kallawaya doveva comprendere solo i “veri” Kallawaya.

Le ho chiesto, tornate in Italia, se avesse materiale sull’episodio, ma mi ha detto di non essersi scritta nulla; non ricordava molto, a parte il fatto che che gli avesse chiesto ripetutamente soldi per dei rituali che in genere sono gratuiti, come aveva dimostrato la nostra esperienza a LaPaz con Estanislao, uno yatiri.

Era seccata che lui per primo le avesse fatto dei discorsi sulla Pachamama e sul fatto che i guaritori non chiedono soldi, e il giorno dopo ha cercato di ottenerne non solo per gli strumenti che sarebbero serviti per il rituale, ma anche per il tempo passato con lei.

Queste figure, che lucrano a spese dei turisti, spesso compiono rituali che hanno ben poco di diverso rispetto a quelli messi in atto dai “veri curanderos”; il problema riguardava non la messa in vendita di una performance tradizionale, ma nel fatto che l’imbroglio metteva in luce la “non appartenenza” di Sara; facendole pagare di più lei veniva indirettamente espropriata della sua identità di ricercatrice ed incasellata come turista, con tutti i significati che lei attribuiva al termine.

Sara pensava fosse affidabile perché le era stato trovato da Antonio. Lui e Gabriele erano andati al centro medico di Charazani, dove uno degli infermieri aveva detto loro di essere

figlio di un kallawaya; hanno concordato un appuntamento col padre a cui anche Sara ha partecipato.

Parlando col padre, ha potuto vedere che le informazioni che gli ha dato concordavano con quanto aveva letto nei libri; tutto è andato bene fino a che lui ha cominciato, appunto, a chiederle soldi.

Il giorno dopo è riuscita a trovare il modo di raggiungere Don Aurelio, un kallawaya tanto vero che l’antropologa Ina Rösing, che ha dedicato vari libri alla cultura Kallawaya, si è basata proprio sulle informazioni datele da Don Aurelio.

Lo stesso sentimento, nella situazione completamente opposta, è ciò che mi ha mosso a rifiutare di indossare il vestito tradizionale alla Loma Chuchini: la proposta di mettere un vestito che non mi apparteneva, per il solo motivo di poter fare una foto, mi riportava a tutto il sostrato di sentimenti negativi nei confronti dei “turisti ridicoli”, come i turisti nel

documentario di O’Rourke (1988) che si vestono da primitivi.

Spesso è lo straniero a fraintendere e non capire: ad Achacachi, città per cui passiamo per raggiungere Charazani e in cui ci fermiano per pranzo, io e Sara troviamo la bottega di quello pensiamo sia un curandero.

Fuori sono appesi mazzi di erbe e volpi ed uccelli impagliati; dentro, dal pavimento al soffitto, è tutto coperto da strumenti usati nei rituali di cura boliviani.

Una volta dentro Sara, che sta studiando la medicina tradizionale boliviana, inizia a fare domande al proprietario.

Siamo così abituate ad avere a che fare con i curanderos delle grandi città, abituati ai turisti e propensi a spiegare, che ci vuole del tempo per capire che l’uomo, sempre più irritato, non ha idea di cosa rispondere e alla fine sbotta: “Io non sono un curandero, non so a cosa servono queste cose. Io le vendo e basta!”.

Figura 10: negozio per guaritori ad Achacachi.