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CAPITOLO III – IL PRINCIPIO DI TOLLERANZA IMPLICITA

4. La tutela del tollerato

L’analisi della tolleranza nel diritto privato ed il tentativo di ricostruire una fattispecie unitaria ha lo scopo dichiarato di individuare gli effetti ulteriori che l’istituto può dispiegare anche in materia possessoria rispetto all’unica conseguenza giuridica (esclusione del possesso) prevista dall’art. 1144 del codice civile. Questo itinerario argomentativo sebbene rimasto minoritario in dottrina e in giurisprudenza merita di essere sviluppato. Le soluzioni prospettate dalla dottrina in esame78 non solo trovano riscontro – come si avrà modo di vedere dall’analisi comparatistica – in altri ordinamenti giuridici ma sembrano avere delle forti analogie con il richiamo che la Corte Edu ha fatto del principio di tolérance implicite. Già da un’analisi del Libro III, l’art. 936 non consente di ridurre la tolleranza ad un mero fatto impeditivo dell’acquisto del possesso (ed in alcuni casi del diritto reale per usucapione). Ma proprio ampliando lo spettro di analisi ad altri settori del diritto privato è lecito affermare che la tolleranza del titolare possa generare effetti favorevoli al tollerato

77 Cfr. Patti, ult. op. cit., pag. 85-6.

78 Ancora Patti S., Profili della tolleranza nel diritto privato, Napoli, 1978; Idem,

voce Tolleranza (atti di), in Enciclopedia del diritto, vol. XLIV, Milano, 1992, p. 701.

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piuttosto che il contrario79. Questa considerazione unitaria dell’istituto non è condivisa da un’altra letteratura80 che tende a isolare la tolleranza in materia possessoria, che spiegherebbe i suoi effetti soltanto a sfavore dell’autore dell’intrusione (impedendo l’acquisto del possesso), rispetto alla tolleranza con effetti favorevoli all'autore della violazione (rendendo lecito l'atto dannoso). Ma questa conclusione contrasta con la forte analogia sussistente tra le fattispecie esaminate, a tal punto da far propendere per la soluzione opposta che ammetterebbe l’estensione degli effetti favorevoli al tollerato anche in ambito dominicale. L’art 1144 c.c. in breve costituirebbe una norma speciale rispetto al più generale principio secondo cui il contegno tollerante genera un affidamento meritevole di tutela81.

4.1. L’esonero da responsabilità

Seguendo questa linea interpretativa è necessario comunque circoscrivere tali conseguenze giuridiche essendo pacifico che la fattispecie non potrà portare ad un trasferimento del diritto di proprietà in capo al soggetto tollerato né a una rinuncia del medesimo da parte del titolare. Le pretese meritevoli di tutela che il terzo tollerato potrebbe vantare e di cui è necessario approfondire la portata effettiva sono l’esonero da responsabilità per l’ingerenza già posta in essere e la possibilità che l’affidamento venga tutelato anche con riferimento alle ingerenze future. Sono questi infatti gli effetti costanti della tolleranza nelle altre ipotesi contemplate dall’ordinamento ed è dunque questa la finalità di una riconsiderazione unitaria dell’istituto. Con riferimento alla liceità dell’ingerenza tollerata e quindi all’esonero da risarcimento del danno, la dottrina maggioritaria

79 In senso opposto v. Sicchiero G., voce Tolleranza, in AA. VV., Digesto disc. Priv,

sezione civile, vol. XIX, Torino, Utet, 1999, pag. 372 il quale andando oltre i confini

della materia possessori nell’analisi della tolleranza non giunge alle medesime conclusioni del Patti.

80 Ruffolo U., Tutela possessoria delle servitù non apparenti ed “atti di tolleranza”

nel quadro delle teoriche (e ideologie) del possesso, in Rivista diritto civile, 1974,

II, 353 ss.

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sembra ammettere questo come un effetto tipico della fattispecie di tolleranza82. A tal proposito si è però precisato che l’esclusione della responsabilità dei danni causati dal soggetto tollerato al titolare del diritto deve riferirsi ai danni causati necessariamente dall’attività oggetto di tolleranza. Ben diverso è il danno ulteriore causato al titolare dal comportamento colposo del soggetto agente in occasione dell’esercizio dell’attività tollerata. Si tratta quindi di distinguere i pregiudizi connaturati all’attività tollerata da quelli ulteriori che il terzo avrebbe potuto evitare con un comportamento diligente senza però precludersi di compiere ciò che il titolare ha tollerato.

La dottrina motiva in maniera differente l’esonero da responsabilità. Per alcuni la non risarcibilità dei danni conseguenti dall’attività tollerata discenderebbe dalla configurazione della tolleranza come manifestazione dell’autonomia privata83, per altri

l’illiceità sarebbe legata al consenso comunque prestato dal titolare con l’atto di tolleranza84 e c’è chi fa leva sull’elemento psicologico del

terzo tollerato che, in forza dell’affidamento in lui generato dall’altrui tolleranza, vale ad escludere per le regole generali l’elemento essenziale di imputazione della responsabilità del dolo o della colpa85. Si è infine recentemente sostenuto che “più che rendere lecita una condotta altrimenti illecita, la tolleranza assurge a giustificazione di un fatto che non perde la propria qualifica d’illiceità, restando privo semplicemente della idoneità a produrre effetti rimediali” e perciò dovrebbe essere intesa come una causa di esclusione della responsabilità86.

82 Cfr. Sacco R., Il possesso, cit., pag. 190 e Sicchiero G., op. cit. pag. 375. 83 Betti E., op cit., pag. 76.

84 Sacco R., ibidem.

85 Patti, ult. op. cit., pag. 32-3. 86 Foti G., op.cit., pag. 37.

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4.2. La tutela dell’affidamento sulla continuazione della tolleranza…

La tutela dell’affidamento ad avviso di quest’ultima impostazione dottrinaria risolverebbe anche altre ipotesi di conflitto tra tollerante e tollerato ed in particolare l’ipotesi di improvvisa interruzione della tolleranza da parte del titolare del diritto. In tale ipotesi “si avverte l’esigenza di impedire che egli possa senz’altro interrompere l’attività del terzo e farla cessare”87. Il rimedio

dell’arricchimento ingiustificato ex art. 2041 c.c. consentirebbe al terzo di ottenere un indennizzo equivalente alla minor somma tra arricchimento del titolare e sua diminuzione patrimoniale subita. Tale rimedio risulta però insoddisfacente nell’ipotesi in cui al danno del terzo non corrisponda un vantaggio economico del titolare. Per queste ipotesi l’Autore prospetta l’introduzione di “un obbligo di preavviso o di indennizzo a favore del terzo agente”88. La dottrina maggioritaria

non sembra sposare questa soluzione in ragione del rilievo per cui “la convinzione del debitore circa il futuro atteggiamento tollerante del creditore, rappresenti solo un atteggiamento intimo che non merita tutela sol che si consideri come il debitore stesso, ove intenda avere la certezza che un adempimento con modalità diverse da quelle proprie del rapporto in essere sia accettato dal creditore, ben potrebbe ottenerne il consenso domandandolo preventivamente”89. Una più recente letteratura arriva alla medesima conclusione interrogandosi sulla natura dei poteri del titolare del diritto: la mancata tempestiva opposizione si configurerebbe come un onere se si ammettesse la tutela dell’affidamento mentre qualificandola come esercizio di un

diritto questa non può avere conseguenze sfavorevoli per il titolare90.

La giurisprudenza nelle rare pronunce91 in merito ha sempre escluso

87 Patti, ult. op. cit. pag. 34. 88 Ibidem.

89 Sicchiero G., op. cit., pag. 379. 90 Foti L., op. cit., pag. 36-7

91 Cass. Civ. 22 giugno 1962, n. 1628, in Giur. it., 1963, I, 1, 766 di cui si riporta la

massima: “L'atto di tolleranza, in quanto compiuto per ragioni di buon vicinato o di familiarità, esclude ogni sorta di riconoscimento, da parte del titolare del diritto,

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la possibilità che l’autore degli atti tollerati vanti una posizione tutelabile e di conseguenza ha consentito al titolare di far cessare la situazione posta in essere dal terzo in base a tolleranza. L’orientamento trova inoltre conforto in quella letteratura che ha attribuito alla fattispecie in esame la qualifica di concessione precaria revocabile ad nutum. In analogia alla disciplina del comodato senza determinazione della durata prevista dall’art. 1810 c.c. il tollerato sarebbe tenuto a cessare l’attività “non appena il comodante [il tollerante in questo caso] lo richiede”. La tesi in esame è osteggiata dalla precedente dottrina sia perché questa rifiuta – e lo si è detto più volta – la qualificazione della fattispecie in termini contrattuali; sia perché non sembra ravvisabile nemmeno una sua applicazione in via analogica in quanto la disposizione costituisce un’eccezione alle regole generali.

Il problema della tutela dell’affidamento del terzo – lo si è già accennato – rappresenta il nodo centrale del dibattito attorno alla natura giuridica della tolleranza. Ad avviso della dottrina a cui si è scelto di dare maggiore credito in questa trattazione lo sforzo di ricondurre la tolleranza all’interno delle fattispecie negoziali tramite la finzione del comportamento concludente aveva il nobile intento di apprestare un’efficace tutela dell’affidamento del terzo92. Dal momento in cui la dottrina si è orientata nel senso di qualificare la tolleranza come mero fatto giuridico umano la conseguenza naturale è stata quella di negare la meritevolezza di tutela dell’aspettativa generata dal contegno tollerante del titolare. La tutela dell’affidamento nei rapporti interprivati sembra dunque essere confinata nell’ordinamento italiano alle relazioni contrattuali (stipulazione ed esecuzione), o al massimo alla fase precontrattuale per espressa

verso colui che compie quell'atto; né il permetterne la continuazione può mai far presumere una rinuncia a vietarlo ulteriormente, nessuno potendo essere costretto a far godere ad altri un proprio diritto, quando manchi l'obbligazione relativa, anche se per il passato abbia tollerato l'esercizio del diritto medesimo.”

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previsione normativa (art. 1337 c.c.93). Non sembra del medesimo avviso chi ritiene che “la responsabilità per l’affidamento causato dagli atteggiamenti di tolleranza non nasce perché la parte con il suo comportamento abbia posto in essere un negozio giuridico, ma deve essere collegata direttamente alla violazione della normativa di buona fede”94. Il ragionamento parte dalla constatazione che rispetto ad altre

esperienze giuridiche (il riferimento è all’ordinamento tedesco) l’applicazione giurisprudenziale del principio di buona fede è restata confinata in settori specifici del diritto civile, indipendentemente dalla lettera della legge che avrebbe in astratto consentito di attribuire alla clausola un’operatività di portata ben maggiore. Da una lettura sistematica delle disposizioni che impongono l’obbligo di correttezza e buona fede nelle trattative precedenti la conclusione del contratto (art. 1337 c.c.), nell’attuazione del rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.) e nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) nonché, per uscire dai confini del contratto, della norma che statuisce il divieto di atti emulativi (art. 833 c.c.), è possibile sostenere l’esistenza di un dovere generalizzato per i consociati di comportamento secondo buona fede in tutti il campo dei diritti patrimoniali. La dottrina in esame non è la sola ad aver evidenziato le affinità tra la disposizione in materia proprietaria sul divieto di atti emulativi e la clausola generale di buona fede oggettiva in materia contrattuale. Prima di cercare di chiarire il rapporto tra i suddetti istituti è opportuno puntualizzare la rilevanza dell’art 833 c.c. rispetto alla fattispecie di altrui tolleranza. Si è osservato95 che la tutela dell’affidamento del terzo richiede necessariamente un sindacato da parte dell’interprete sull’esercizio del potere decisionale del titolare del diritto. Una simile valutazione è consentita nel nostro ordinamento dall’art. 2 della Costituzione che

93 Sul punto tra i tanti v. Bianca C. M., Diritto civile, 3, Milano, 1997, pag. 160 per

cui la disposizione “…non tutela l’interesse all’adempimento ma l’interesse del soggetto a non essere coinvolto in trattative inutili, a non stipulare contratti invalidi o inefficaci e a non subire coartazioni o inganni in ordine ad atti negoziali”.

94 Patti, ult. op. cit., pag. 85. 95 Ivi, pag. 38.

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introduce la possibilità di effettuare un contemperamento solidaristico di interessi contrapposti. Il divieto di atti emulativi ne costituirebbe un’applicazione normativa in cui sarebbe possibile far rientrate anche la tutela dell’aspettativa del tollerato: far cessare un’attività precedentemente tollerata costituisce esercizio del diritto di proprietà e quindi atto emulativo qualora il proprietario non percepisca da tale esercizio nessuna utilità o comunque sia ravvisabile una sproporzione tra i contrapposti interessi. Questo rilievo è stato però accompagnato dalla constatazione che, nella sua applicazione pratica, l’art 833 c.c. non ha mai avuto uno spettro operativo in grado di sussumere al suo interno la tutela del tollerato. Tale limite è dovuto da una parte alla difficoltà di provare in questa fattispecie l’animus nocendi, considerato elemento necessario per integrare il divieto, e dall’altra dal fatto che la giurisprudenza ha sempre considerato la minima utilità percepita dal proprietario sufficiente a sacrificare le pretese del terzo impedendo così a monte un effettivo esame di proporzionalità tra i contrapposti interessi96.

L’affinità tra queste due figure (buona fede e divieto di atti emulativi) appartenenti a settori del diritto patrimoniali differenti è stata più volte motivo di riflessione da parte della dottrina italiana. I due istituti sono stati considerati come le specificazioni normative del principio (non scritto) di divieto di abuso del diritto. Si tratta dunque di valutare se la tutela del terzo tollerato possa realizzarsi attraverso la più moderna rilettura che di questo generale istituto è stata fatta. 4.3. (segue) … e l’abuso del diritto

La configurabilità di un divieto generale di abuso del diritto nell’ordinamento italiano, malgrado la mancanza di una definizione normativa, è da sempre oggetto di dibattito dottrinario. La letteratura maggioritaria tende a rifiutare questa eventualità97 sposando il

96 Ivi pag. 39.

97 Tra i tanti sembra opportuno richiamate proprio Patti S., voce Abuso del diritto,

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brocardo latino qui iure suo utitur neminem laedit. D’altra parte una dottrina minoritaria ma costante98 ha cercato da tempo di ricostruire una disciplina generale dell’abuso che poggia su un’interpretazione sistematica di regole settoriali. Questa percorso ricostruttivo induttivo mira perciò a rileggere l’art. 833 c.c., da un lato, e la sequenza normativa che disciplina la regola di buona fede in senso oggettivo (artt. 1175, 1366, 1375 c.c.), dall’altro, al fine di farne emergere il loro comune ruolo di applicazioni specifiche del principio del divieto di esercizio abusivo del diritto. Altri autori hanno prospettato la possibilità di applicare il divieto di emulazione al di fuori della disciplina proprietaria o la buona fede oltre i confini del settore contrattuale ma senza teorizzare – ed è questa la portata innovativa della tesi in esame – una riconduzione di entrambe le regole al medesimo principio generale non scritto.

L’attualità di questa impostazione è confermata dalla più recente dottrina99 che rileggendo in chiave moderna le due regole settoriali

ricostruisce il contenuto di questi strumenti di valutazione dei rapporti patrimoniali in modo da superare le critiche che hanno osteggiato i tentativi di estensione della loro operatività. La modernizzazione dell’art. 833 e delle disposizioni in materia di correttezza e buona fede è necessaria per evidenziare quella convergenza di ratio sostenuta dalla dottrina in esame. La convergenza può essere riscontrata nella considerazione che entrambi gli istituti introducono un giudizio di proporzionalità tra le posizioni contrapposte da operarsi non in termini astratti ed assoluti ma a posteriori. Il divieto di atti emulativi perde l’elemento necessario dell’animus nocendi ravvisabile nella mancanza di interesse perseguito da parte del proprietario in favore di una

39-44 sembrava più propenso ad ammetterne la rilevanza giuridica con riferimento alla tolleranza.

98 Una delle prime e più importanti trattazioni in materia è quella di Natoli U., Note

preliminari ad una teoria dell'abuso del diritto nell'ordinamento giuridico italiano,

in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1958, 37 ss. il cui merito è di aver ver fatto dialogare le regole settoriali più volte citate.

99 Cfr. Busnelli F. D., Navarretta E., Abuso del diritto e responsabilità civile, in Studi

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concezione dell’emulatività dell’atto che si appunta esclusivamente sulla sproporzione tra interesse dell’agente ed interesse leso100. Allo

stesso modo anche il principio di buona fede in senso oggettivo recupera il ruolo di criterio di valutazione ex post dei rapporti interpersonali abbandonando la funzione ben più ristretta di obbligo accessorio “individuabile ex ante all’interno del rapporto obbligatorio”101. Le due regole mantengono una reciproca autonomia

spartendosi il campo di applicazione del più generale principio (non scritto) di divieto di abuso del diritto e andando a ricoprire tutte le fattispecie del diritto patrimoniale: l’art 833 c.c., essendo modellato su una situazione soggettiva come quella proprietaria dove manca un previo rapporto giuridico, introduce una valutazione circa l’abusività dell’esercizio del diritto senza tenere di conto delle modalità con cui tale esercizio si è svolto. In altri termini, la valutazione si appunterà soltanto sulla sproporzionalità degli interessi in conflitto senza che rilevi la condotta in concreto tenuta dalle parti. Al contrario il parametro di giudizio ex post della correttezza consentirà di introdurre nella comparazione non soltanto gli interessi in gioco ma anche le modalità della condotta tenuta dagli interessati. Al di là del differente criterio di valutazione introdotto non sembra tuttavia che ci siano limiti all’applicazione dei due istituti oltre i confini, rispettivamente, proprietari e dei rapporti obbligatori. Da parte sua l’articolo 833 c.c. non sembra costituire eccezione solo in campo dominicale dato che – e lo si è visto nei capitoli precedenti di questa trattazione – “la proprietà ha incarnato storicamente il modello più rigoroso di assolutezza del diritto, infranto il quale difficilmente si giustificano ulteriori baluardi di intangibilità”102. Anche la sequenza normativa

espressione della clausola generale di buona fede oggettiva non può essere considerata norma eccezionale ed è quindi suscettibile di applicazione analogica in tutto il diritto patrimoniale. All’interno di

100 Ivi, pag. 93. 101 Ivi, pag. 82. 102 Ivi, pag. 109.

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questa fattispecie dell’abuso del diritto la maggiore specificità di quest’ultimo criterio di giudizio (buona fede) gli consente di avere un’operatività maggiormente determinata rispetto a quella dell’art. 833 che invece individua le fattispecie in via residuale. La buona fede oggettiva infatti si presta ad essere applicata in tutte quelle fattispecie in cui il rapporto è sufficientemente “specificato” da consentire non soltanto una ponderazione a posteriori e neutra (perché guidata dai parametri costituzionali) degli interessi in gioco ma anche un sindacato sulle modalità concrete di esercizio del diritto (anche sulla base dell’affinità di queste condotte con fattispecie regolate tramite la buona fede da modelli normativi preesistenti103). Il divieto di atti emulativi invece è un criterio di valutazione residuale in quanto verrà applicato a fattispecie in cui la medesima specificazione non è ravvisabile e quindi la ponderazione non potrà che attestarsi sugli interessi in gioco di cui l’interprete dovrà accertare in concreto (e sempre ex post) la proporzionalità.

Da questa rilettura degli istituti è possibile dunque ricavare induttivamente un principio generale di divieto dell’abuso del diritto altrettanto moderno. Non si tratta più dell’abusività in una prospettiva “teleologica”, vale a dire intesa come sviamento dallo scopo (intrinseco o estrinseco al diritto a seconda delle teorie che si sono succedute nel tempo104). La dottrina in esame propone al contrario una teoria dell’abuso di tipo “relazionale”, di contenuto comparativo per la quale l’abuso del diritto non ha la funzione di individuare in astratto le finalità che un determinato diritto può perseguire ma si propone invece di ponderare il comportamento in concreto tenuto dalle parti e di bilanciarne gli interessi senza poter prescindere dal caso concreto in cui il conflitto si è realizzato. La teoria dell’abuso del diritto ha dunque

103 Sul punto si veda la rassegna delle situazioni di conflitto suscettibili di essere

regolate dalla buona fede oggettiva v. di nuovo Busnelli F. D., Navarretta E., Abuso

del diritto e responsabilità civile pag. 110.

104 Per le citazioni e un approfondimento sulla critica alle concezioni più tradizionali

di abuso del diritto cfr. ancora Busnelli F. D., Navarretta E., Abuso del diritto e

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il pregio di aggregare regole considerate finora settoriali dalla giurisprudenza e dottrina maggioritaria e di consentire a queste regole di adattarsi anche a fattispecie che esulano dal settore di appartenenza.

Resta quindi da domandarsi se la tolleranza possa trovare spazio all’interno della moderna teoria relazionale dell’abuso del diritto. Ad avviso di chi scrive una volta ammesso che il principio di buona fede in senso oggettivo, in quanto applicazione pratica del divieto di abuso del diritto, non sia confinato all’interno del settore dei rapporti obbligatori, la tutela dell’affidamento del terzo ingerente a seguito di tolleranza, prolungata nel tempo, da parte del titolare del diritto (di proprietà in particolare) può essere apprestata proprio per mezzo di questa clausola generale. Il fatto che il divieto di atti emulativi sia un