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Disciplina dei beni e principio di tolleranza nel diritto europeo

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CAPITOLO I – ART. 1, I PROTOCOLLO

ADDIZIONALE

1. Art. 1: genesi, finalità e struttura della norma.

L’art. 1 del I Protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo rappresenta una disposizione sui generis se paragonato agli altri articoli dello stesso trattato. Si tratta infatti dell’unica norma che si prefigge lo scopo di tutelare un diritto a contenuto patrimoniale come il diritto di proprietà1 all’interno di un trattato che tutela i diritti civili fondamentali. Questo dato è il motivo – insieme al carattere fortemente compromissorio del testo in esame – del suo inserimento, soltanto in seconda battuta, all’interno del I Protocollo Addizionale firmato il 20 marzo 1952 piuttosto che direttamente nella Convenzione. È noto infatti come nel testo della Convenzione proposto all’Assemblea Consultiva il 5 settembre 1949 si intendesse inserire la tutela del diritto di proprietà all’interno dell’articolo 2 della Convenzione, impegnando gli Stati contraenti ad assicurare ad ogni persona residente nel territorio “le droit de la propriété, conformément à l’article 17 de la Déclaration

des Nations Unies”2. Il mancato raggiungimento di un accordo su

questo punto comportò il rinvio del testo alla Commissione per le questioni giuridiche e amministrative che predispose l’attuale articolo (o meglio una versione molto simile); per la sua natura compromissoria questo testo abbandona il richiamo alla Dichiarazione universale e viene “redatto più come una

1 In tal senso Comporti M., La proprietà europea e la proprietà italiana, in Rivista

di diritto civile, 2008, n. 2, CEDAM, parte I, p. 189 che critica il fenomeno di

spostamento del diritto di proprietà dai diritti economico-sociali ai diritti civili fondamentali “sia perché è del tutto improprio e antistorico l’inserimento della proprietà tra le libertà, sia perché i diritti fondamentali dell’uomo sono solo quelli di natura personale e non già quelli di natura patrimoniale”.

2 Conseil de l’Europe, Convention de sauvegarde des droits de l’homme et des

libertés fondamentales et Protocole additionnel, Recueil des travaux préparatoires, Strasbourg, I, p 217 ss.

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dichiarazione di principio che come definizione precisa”3. Il fatto

che i redattori abbiano rinunciato a consacrare direttamente il diritto di proprietà in favore di una formula, almeno sulla carta, più timida come quella di “diritto al rispetto dei beni” è la manifestazione di un contrasto di fondo circa la reale natura del diritto di proprietà: per alcuni un diritto fondamentale (sulla scia della Dichiarazione dei diritti del 1789) al pari degli altri diritti che possiamo trovare nella Cedu, per altri, di più moderna ispirazione, un diritto caratterizzato da una funzione sociale e che quindi non gode dei connotati di assolutezza delle altre libertà riconosciute nello stesso trattato4. Il testo attualmente in vigore recita quanto segue:

Art. 1 : "Toute personne physique ou morale a droit au respect de ses biens. Nul ne peut être privé de sa propriété que pour cause d'utilité publique et dans les conditions prévues par la

loi et les principes généraux du droit international.

Les dispositions précédentes ne portent pas atteinte au droit que possèdent les États de mettre en vigueur les lois qu'ils jugent

nécessaires pour réglementer l'usage des biens conformément à l'intérêt général ou pour assurer le paiement des impôts ou

d'autres contributions ou des amendes"5

3 Bariatti S., Genesi ed interpretazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla

Convenzione europea dei diritti dell’uomo nei lavori preparatori, in Riv. int. Dir. uomo, 1989, p. 218 e ss.

4 De Salvia, Alcune riflessioni in tema di interpretazione del diritto al rispetto dei

beni nella giurisprudenza della Commissione e della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, 1989, pag. 233.

5 Testo in inglese art. 1, I Protocollo: “Every natural or legal person is entitled to

the peaceful enjoyment of his possessions. No one shall be deprived of his possessions except in the public interest and subject to the conditions provided for by law and by the general principles of international law.

The preceding provisions shall not, however, in any way impair the right of a State to enforce such laws as it deems necessary to control the use of property in accordance with the general interest or to secure the payment of taxes or other contributions or penalties.”

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I contrasti che hanno preceduto la redazione di questo testo hanno avuto una profonda incidenza sulla sua iniziale interpretazione perché hanno manifestato una tecnica di elaborazione che, a discapito della maggiore estensione del livello di tutela del diritto, predilige la ricerca di un “massimo comune denominatore”6 delle diverse esperienze giuridiche degli Stati

contraenti senza spingersi oltre il grado di protezione già garantito dalle singole costituzioni nazionali. Al momento in cui il testo

venne approvato, dunque, l’innovazione consisteva

nell’introduzione, da una parte, di una norma generale di divieto di atti di confisca arbitraria, intesa genericamente come qualsiasi privazione ingiustificata della proprietà (e tra l’altro già prevista dalle norme di diritto internazionale sulla protezione degli interessi economici degli stranieri), dall’altra, di un ostacolo a possibili ripensamenti unilaterali degli Stati circa quel grado di tutela minimo già da questi predisposto nelle rispettive costituzioni7. La

convinzione che i testi costituzionali dei singoli Stati riuscissero a garantire una tutela del diritto di proprietà più avanzata rispetto a quella del primo Protocollo, affiancata da un’iniziale interpretazione restrittiva della disposizione in esame ad opera della Commissione e della Corte europea, ha fatto sì che fino agli anni ottanta l’articolo 1 restasse sostanzialmente inapplicato8.

1.1. Struttura tripartita dell’articolo.

Una svolta fondamentale all’interpretazione e applicazione dell’art. 1 è arrivata dalla sentenza Sporrong e Lonnroth c. Svezia9

6 Condorelli, La proprietà nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in

Rivista di diritto internazionale, 1970, pag. 178.

7 Ivi, pag. 179.

8 Padelletti M.L., La tutela della proprietà nella Convenzione Europea dei Diritti

dell’Uomo, Milano, 2003, pag. 2-3

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con cui la Corte europea ha chiarito come questo contenga in realtà tre norme “distinte anche se collegate”10. La prima enuncia un

principio generale di rispetto della proprietà (prima frase del primo capoverso); la seconda attiene alla privazione della proprietà e alle condizioni a cui tale privazione è subordinata (seconda frase del primo capoverso); ed infine la terza norma che attribuisce la facoltà agli Stati di regolamentare l’uso dei beni in conformità all’interesse generale (secondo capoverso). All’interno di questa tripartizione, la prima norma (“diritto al rispetto dei beni”) svolge un ruolo centrale rispetto alla struttura complessiva dell’articolo. Il principio generale al rispetto dei beni opera infatti sia come criterio generale di interpretazione delle altre due norme sia quale norma autonoma11. In quest’ultima accezione tale principio costituisce una

“norma di chiusura” che va quindi a ricomprendere qualunque ingerenza che abbia per effetto una diminuzione patrimoniale (o comunque un pregiudizio patrimoniale) diversa da quelle disciplinate dalle altre due norme dell’articolo.

Come opportunamente rilevato, se l’operazione di divisione ad opera della giurisprudenza da una parte ha facilitato un’interpretazione estensiva dell’istituto in esame, con un notevole incremento dei ricorsi presentati a Strasburgo su tale violazione, dall’altro lato però ha reso più “difficile un’applicazione uniforme dell’articolo in oggetto”12. Infatti, dall’analisi della giurisprudenza

sembra emergere come ciascuna delle tre norme abbia un campo di

10 Corte, 21 febbraio 1986, James e altri c. Regno Unito, Serie A, n. 98 e Corte, 25

marzo 1999, Iatridis c. Grecia, Recueil, 1999-II in cui si precisa la correlazione tra le tre norme dell’art. 1.

11 Cfr. M.L. Padelletti, Protezione della proprietà, in S. Bartole, B. Conforti, G.

Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti

dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, Cedam, 2001. In particolare si rileva

come, con riferimento alla funzione di criterio interpretativo della prima frase dell’art. 1, la giurisprudenza abbia ricostruito il principio del “giusto equilibrio” applicabile a tutte le forme di ingerenza nel diritto di proprietà, facendo leva proprio sul diritto al rispetto dei beni.

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applicazione differente. La Corte infatti ha spesso negato la tutela in forza della seconda norma (privazione della proprietà) per poi concederla in ragione della protezione accordata dalla prima (diritto al rispetto dei beni) grazie al suo carattere residuale idoneo a ricomprendere un numero più ampio di fattispecie. A tal proposito, è utile richiamare il caso Iatridis13 in cui la Corte Edu ha escluso

l’esistenza di una violazione della seconda norma, e dunque di una privazione di proprietà, in virtù del fatto che il ricorrente era semplicemente titolare di un diritto personale di godimento sul bene, salvo poi accogliere la domanda del ricorrente in forza della prima norma. Il “diritto al rispetto dei beni” è quindi un principio la cui portata è autonoma rispetto alle altre due norme non solo con riferimento al tipo di ingerenza nella sfera giuridica altrui (diversa cioè dalla “privazione della proprietà” e dalla “regolamentazione dell’uso dei beni”) ma anche con riferimento al campo di applicazione. La separazione dell’articolo in tre norme distinte si riflette a sua volta sulle situazioni giuridiche che sono oggetto della tutela14. Ciò sembra essere testimoniato dalle più recenti decisioni della Corte Edu che, “per la complessità sia in fatto che in diritto”15

della fattispecie denunciata, hanno ritenuto applicabile soltanto la prima frase del primo comma. Il fatto che la tripartizione si riferisca anche al campo di applicazione troverebbe ulteriore conferma anche alla luce dell’interpretazione letterale della prima e della seconda norma: “respect de ses biens” e “Nul ne peut être privé de

13 Corte, 25 marzo 1999, Iatridis c. Grecia cfr. Par. 55: “Dans ces circonstances, il y

a eu ingérence dans le droit de propriété du requérant; celui-ci n’étant que simple locataire de son fonds de commerce, l’ingérence en question ne constitue ni une expropriation ni une réglementation de l’usage des biens, mais relève de la première phrase du premier alinéa de l’article 1”.

14 Padelletti M.L., Il caso Beyeler di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo,

in Rivista di diritto internazionale, 2000, p. 781 ss. In generale l’Autrice avanza l’ipotesi che la prima norma si riferisca ad una categoria più ampia di beni e che ciò darebbe ancor più senso alla struttura tripartita dell’articolo.

15 La medesima espressione è presente nelle sentenze Beyeler c. Italia e Öneryildiz

c. Turchia che, come si vedrà in seguito, hanno esteso notevolmente il campo di applicazione dell’art. 1.

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sa propriété”16. Al contrario di quanto possa dirsi riguardo alla

seconda frase del primo capoverso, la prima frase sembra far riferimento a situazioni giuridiche diverse ed ulteriori rispetto al diritto di proprietà17. Per concludere, il contenuto del principio del

rispetto dei beni può essere apprezzato proprio alla luce del confronto, sia letterale che sistematico, con le altre due norme dell’art. 1. Questa norma sembra più idonea, rispetto alle altre due, a tutelare “relazioni giuridiche di appartenenza diverse rispetto al diritto di proprietà”18. A deporre in senso opposto19 è il rilievo

secondo cui la Corte non si sia mai spinta a dire esplicitamente che la tripartizione, oltre che riguardare le tipologie di ingerenza, riguardi anche l’oggetto della tutela. Inoltre, se si analizzano le decisioni della Corte, la struttura del testo delle sentenze sembra confermarlo: i giudici di Strasburgo espongono la motivazione della decisione dividendola sempre in due fasi logicamente sequenziali. Nella prima si verifica l’esistenza del bene (prima frase, primo capoverso) e successivamente si procede a qualificare il tipo di ingerenza messa in atto dall’autorità statale, scegliendo tra le possibilità offerte dall’art. 1 (privazione della proprietà, regolamentazione all’uso dei beni e, in via residuale, le “altre” ingerenze). Da queste considerazioni potrebbe dunque conseguire che la nozione di bene è un concetto trasversale attinente in modo indistinto a tutte le tre le fattispecie. Sul punto si tornerà in seguito, dopo aver analizzato la casistica giurisprudenziale e in particolare in quale delle tre norme la Corte sussume le singole situazioni soggettive tutelate.

16 Nel testo inglese un’analoga discrepanza intercorre tra il primo e il secondo

comma (“possession” e “property”).

17 Nel senso opposto, di intendere queste differenze terminologiche come mere

imprecisioni di redazione del testo, si vedano alcune pronunce della giurisprudenza, tra cui Corte, 13 marzo 1978, Marckx, Serie A, n. 31.

18 Padelletti M.L., La tutela della proprietà… cit., pag. 10.

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Adesso si procederà all’interpretazione dell’articolo 1 alla ricerca di elementi che indichino quale sia la nozione di bene a cui esso si riferisce, cominciando dall’analisi del dato letterale per poi procedere a un breve studio dei lavori preparatori.

2. Le discrepanze linguistiche.

Il problema riguardante la corretta individuazione di cosa è “bene” ai sensi della Convenzione si pone già da un confronto delle due versioni ufficiali, francese ed inglese, del medesimo art. 1. “Peaceful enjoyment of his possessions” se confrontato con il corrispettivo “respect de ses biens” non costituisce una fedele traduzione dal punto di vista giuridico, come evidenziato dalla stessa giurisprudenza nel caso Marckx20. Il “rispetto” dei beni privati è una locuzione che introduce un principio di portata molto più generale rispetto a quella di “pacifico godimento” perché con quest’ultima ci si riferisce ad una specifica facoltà del diritto di proprietà21. Inoltre, la coerenza della (già impropria) traduzione

risulta ulteriormente minata se si prosegue nella lettura dell’art. 1, I Prot.: nella seconda frase la “propriété” (e non più come sopra i “biens”) viene tradotta con “possessions” e al secondo comma “usage des biens” viene sostituito con “use of property” (al posto di “possessions”).

È pacifico che, dal punto di vista interpretativo, queste discrepanze debbano assumere il minor rilievo possibile,

20 Opinione dissidente del giudice Fitzmaurice, nota 7, par.18: “L'équivalence

apparente des termes "possessions", "property", "biens" et "propriété", dans des contextes différents et sans justification évidente, prête à confusion. La meilleure traduction du français "biens" est en anglais "assets" et non "possessions", mais la meilleure traduction française de l'anglais "assets" est "avoirs". En outre, il n'y a pas d'équivalent français vraiment satisfaisant du mot "possessions", au pluriel. Ces anomalies de traduction ajoutent aux difficultés, mais par là même elles diminuent aussi la valeur de l'interprétation de la Cour.”

21 In tal senso cfr. 21 Colacino N., “Nuove proprietà” e beni comuni nel diritto

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presumendo che unica sia la volontà delle degli Stati contraenti di cui la Convenzione è espressione. Questa conclusione è resa necessaria anche dall’applicazione della regola di interpretazione dei trattati internazionali disposta dalla Convenzione di Vienna, art. 33, 4° comma22. Tuttavia, come opportunamente rilevato23, la

comparazione tra i due testi non deve essere ignorata, bensì sfruttata per trarne delle indicazioni circa l’autentico senso delle espressioni utilizzate. Se si guarda all’intero testo Cedu, infatti, è possibile individuare svariati problemi di incompatibilità tra le due versioni autentiche; questi problemi sono stati solitamente affrontati dalla Corte mediante il ricorso ad un’interpretazione teleologica, prendendo cioè in considerazione “l’oggetto e lo scopo delle disposizioni analizzate” al fine di realizzare “una protezione effettiva dei diritti contemplati da tali norme”24. Con riferimento

all’art. 1, la Corte non ha mai dato grande rilevanza alla questione relativa a quale definizione, attinente all’oggetto o al contenuto del diritto, risulti essere la più appropriata e così non ha mai risolto il problema in maniera esplicita e definitiva.

La questione tuttavia non si riduce ad un semplice esercizio di traduzione testuale ma attiene al più complesso problema della comparazione degli istituti giuridici. La scelta tra il termine “biens” e il termine “possession” impone infatti preliminarmente un’indagine sul significato che i due termini assumono nei rispettivi sistemi giuridici e successivamente, attraverso la ricostruzione del campo di applicazione della norma in esame, l’individuazione di quale dei due significati meglio esprima le finalità di tutela a cui la norma (e la giurisprudenza che la applica) aspira. A tal proposito

22 Art. 33, 4° comma: “Si presume che i termini e le espressioni di un trattato abbiano

lo stesso senso nei vari testi autentici”.

23 Condorelli, La proprietà nella convenzione europea… cit., pag. 183.

24 Pustorino P., L'interpretazione della CEDU nella prassi della Commissione e

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qualche commentatore ha osservato come il termine possession sia una “formula di basso profilo”25 che rischia di svuotare di

significato l’art. 1: se interpretata letteralmente, nel termine dovrebbero rientrare soltanto gli “oggetti puramente personali, le cose che ognuno porta appresso o ha nel proprio alloggio, e che anche la polizia dello Stato più brutale generalmente rispetta”26.

Alla luce dell’interpretazione teleologica un significato del genere è inaccettabile. Risulta chiaro infatti come l’art. 1 non si riferisca a privazioni di cose possedute o detenute ma a forme di aggressione della proprietà e questo sembra confermato dall’interpretazione che la giurisprudenza di Strasburgo ne ha dato in concreto. La Corte infatti già da tempo27, tramite una lettura combinata della prima e della seconda frase, ha osservato che il testo francese non lasci margini di dubbio su quale sia l’oggetto e lo scopo dell’articolo in esame e per questo motivo sia da preferirsi.

In realtà la divergenza linguistica deriva da un problema assai più difficile da dirimere: le differenti tradizioni giuridiche occidentali utilizzano infatti termini che designano concetti giuridici che poco hanno in comune dal punto di vista contenutistico, nonostante alcune assonanze (dettate dalla medesima radice filologica) possano far pensare il contrario (come nel caso di “propriété” e “property”). Quello che può apparire come un errore redazionale sembrerebbe allora la scelta volontaria di redigere una norma a tutela della proprietà in termini più generici possibili al fine di non dover affrontare in maniera netta il problema delle divergenze tra diverse tradizioni giuridiche. Come si vedrà in seguito, negli ordinamenti di common law il termine “property” ha un’estensione di significato che va ben oltre il concetto di proprietà

25 Ballarino, La proprietà protetta nel Primo Protocollo, in Rivista internazionale

dei diritti dell’uomo, 1989, p. 222.

26 Ibidem

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(propriété, Eigentum) degli ordinamenti continentali. Inoltre, anche all’interno del mondo anglosassone, il termine property rappresenta una locuzione che assume a seconda del contesto una pluralità di significati28 andando tal volta a designare gli elementi attivi del

patrimonio, gli assets, che nel nostro ordinamento giuridico sono individuati dall’art. 2740 c.c. con il termine di “bene”29. Questa

confusione terminologica è riscontrabile in diversi testi dotati di efficacia giuridica: non esistendo un termine perfettamente corrispondente a “bene”, le volte che è stato necessario tradurlo ufficialmente in inglese, si è utilizzato, come nel testo Cedu, il termine property che è il medesimo vocabolo “che serve a designare il diritto sulle cose”30. Invece, la traduzione inglese più corretta di

propriété, nel senso di una situazione di appartenenza assoluta ed esclusiva che ha ad oggetto un bene materiale, è ownership, termine che non compare nel testo dell’art. 1. Simili imprecisioni linguistiche sono state ripetute anche dalla Corte di Strasburgo che in una delle prime decisioni che cercavano di individuare il contenuto dell’art. 1 ha scritto nel testo francese della sentenza “En reconnaissant à chacun le droit au respect de ses biens, l’article 1

(P1-1) garantit en substance le droit de propriété”31 per poi tradurlo

nella versione inglese come “right of property” che non ne costituisce affatto un sinonimo.

L’incertezza nell’esegesi del dato letterale può essere parzialmente sciolta tramite un’analisi dei lavori preparatori, non tanto perché in essi sia contenuta una indicazione più puntuale delle

28 Cfr. Candian, Gambaro, Pozzo, Property – Propriété – Eigentum, Padova 1992,

pag. 11 ss

29 Cfr. Gambaro A., La proprietà: beni, proprietà, comunione, Giuffrè, Milano,

1990, pag. 3-4

30 Ancora v. Gambaro A., I beni, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto

da Cicu-Messineo-Mengoni, Giuffrè, Milano, 2012, pag. 38-9. In particolare viene

citato a nota 85 il Code Civil du Québec che traduce nelle due versioni ufficiali all’art. 899 “biens” con “property”.

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posizioni giuridiche a cui i redattori avevano voluta riferirsi, quanto piuttosto perché da questi è possibile evincere alcuni criteri che l’interprete potrebbe seguire nell’attività di definizione giuridica della norma in esame.

3. I lavori preparatori e la nozione di bene.

La dottrina è unanime nel ritenere che dallo studio dei lavori preparatori non si riesca ad estrapolare indicazioni circa i beni oggetto della tutela predisposta dall’art. 1 né sulla nozione di proprietà a cui i redattori hanno voluto riferirsi32. Al contrario fu

proprio tale difficoltà a rendere così travagliata la redazione dell’articolo.

Da una lettura complessiva dei lavori preparatori emergono comunque due obiettivi di fondo che hanno influenzato la redazione dell’art. 1. Il primo di carattere più marcatamente politico, che mira a far risaltare il carattere “edulcorato”33 del diritto di proprietà al

fine di superare le opposizioni degli Stati, in particolare Regno Unito e Svezia, che avevano a suo tempo ostacolato l’inserimento del medesimo diritto di proprietà direttamente nella Convenzione (a causa dei piani di nazionalizzazione che questi Stati erano in procinto di realizzare). Un diritto di proprietà dunque che non deve essere concepito come diritto assoluto ma come un diritto che “est une fonction sociale […] en vue d’assurer le rendement maximum

dans le sens de l’intérêt général”34.

L’altra esigenza attiene invece al problema più tecnico di definire le situazioni soggettive rientranti nel campo di applicazione della norma, cercando di superare i problemi teorici scaturenti dalle differenti nozioni di proprietà in uso nei vari sistemi giuridici. Ciò

32 Bariatti S., Genesi ed interpretazione dell’art. 1, cit. 33 Padelletti M.L., La tutela della proprietà… cit., pag. 13. 34 Bastid in Id, Recueil des travaux préparatoires, IV, cit. p. 923

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spiega perché si è passati dalla formula “diritto al rispetto della proprietà” a quella attuale che però non contribuisce a precisare il significato della norma. Esemplare è l’intervento del rappresentante italiano che, durante l’Assemblea consultiva in sede di discussione del rapporto del comitato per le questioni giuridiche e amministrative, ammette che non si possa riferirsi esplicitamente di diritto di proprietà “…pour éviter de grosses questions, surtout

théoriques, sur la nature et l’extension de ce droit”35. I

rappresentanti hanno dunque rinunciato a tale complesso compito limitandosi ad affrontare soltanto questioni di carattere generale con la conseguenza di lasciare all’organo di controllo l’onere di dirimere i problemi di natura applicativa36. Del resto, il fatto di evitare definizioni puntuali e precise delle libertà protette sembra essere un metodo spesso utilizzato dai redattori ed a maggior ragione è sembrato opportuno per un diritto, come quello proprietario, che è fortemente condizionato dalle contingenze politiche e dalle scelte legislative dei singoli Stati nei diversi momenti storici37.

Le problematiche sopra esposte ci hanno consegnato un articolo che volutamente non offre né una definizione del diritto di proprietà né dei beni oggetto di tale diritto. Con riferimento all’estensione della tutela, invece, si è già accennato al fatto che all’inizio l’art. 1 si limitasse a costituire una garanzia contro le confische arbitrarie e questo al fine di assecondare l’atteggiamento diffidente di quegli Stati che non volevano limiti al loro potere conformativo sulla proprietà privata. Solo a seguito

35 Conseil de l’Europe, Recueil des travaux préparatoires, I, p 217 ss.

36 Colacino N., “Nuove proprietà” e beni comuni nel diritto internazionale ed

europeo, cit., pag. 96

37 In tal senso si espresse il rappresentante francese Teitgen: “En vérité, la méthode

de la définition était ici, peut-être, mal appropriée […] il est extrêmement difficile d’énumérer toutes les facultés que contient une liberté et toutes celles qu’elle ne contient pas. L’énumération risque toujours d’être incomplète”.

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dell’interpretazione evolutiva della Corte l’articolo 1 è stato scomposto in più norme con ambito di applicazione e ad efficacia diversi tra loro.

Questo originario vuoto definitorio può essere apprezzato soltanto se messo in relazione all’esigenza, anch’essa avvertita dai redattori della Convenzione, di “promuovere lo sviluppo di un diritto comune ricavato dalle singole legislazioni nazionali”38. Da

un’analisi complessiva dei lavori preparatori infatti emerge chiaramente l’intenzione di ricorrere ai principi generali degli Stati contraenti per approdare a nozioni, autonome e distinte rispetto a quelle delle singole legislazioni nazionali, ma che al contempo non siano completamente sganciate dai principi comuni agli ordinamenti interni. È interessante rilevare che proprio i redattori che avevano ammesso l’impossibilità di giungere ad una stretta definizione delle nozioni di bene (e di proprietà) e che rigettavano un metodo di redazione che definisse in modo puntuale il contenuto e i limiti dei diritti protetti dalla Convenzione (come ad esempio voleva il Regno Unito), si auspicassero un’interpretazione della norma fatta alla luce dei principi generali degli ordinamenti39. Il

metodo adottato dall’assemblea fu quello di lasciare spazio agli organi di controllo circa l’interpretazione del contenuto dei diritti protetti senza darne una definizione puntuale40. In questo approccio

metodologico, i principi generali di diritto svolgono un ruolo centrale, perché senza di essi si rischierebbe di trovarsi di fronte ad una norma svuotata di contenuto. Una nozione di proprietà indefinita ha come ulteriore conseguenza quella di dipendere dalla

38 Padelletti M.L., La tutela della proprietà… cit., pag. 17.

39 È sempre il rappresentante francese Teitgen che, dopo aver proposto di inserire un

ulteriore articolo che facesse un esplicito riferimento ai principi generali di diritto riconosciuti, puntualizza che “les définitions qui nous sont proposées devront être

interprétées par référence aux principes généraux du droit des nations civilisées. Dès lors, les lacunes que peuvent contenir ces définitions seraient levées par le seul fait de cette référence complémentaire”.

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definizione che di questa danno le varie legislazioni degli Stati aderenti. Un simile risultato, secondo un’autorevole e consolidata dottrina, non è auspicabile: “è accuratamente da evitare di imputare alla Convenzione una nozione di proprietà ricavata senz’altro da uno degli ordinamenti degli Stati membri, magari da quello che ci è più familiare” ma allo stesso tempo non si può neanche “accordare alla norma convenzionale un contenuto variabile come accadrebbe se si sostenesse che essa tutela ciò che è proprietà secondo l’ordinamento interessato nella specie, dato che ciò condurrebbe a ritenere la medesima norma produttrice di obblighi in misure diverse per i vari Stati, in ragione delle peculiarità dei loro ordinamenti interni”41.

4. I criteri di interpretazione dell’art. 1.

Il contenuto vago ed indeterminato dell’art. 1 ha dunque lasciato all’interprete l’onere di elaborare le nozioni di bene e di proprietà, in modo da definire con maggior certezza il campo di applicazione e l’operatività della disposizione in esame. Questo ruolo è svolto dall’organo di controllo previsto dalla Cedu, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e dalla Commissione, l’organo istruttorio e di esame della ricevibilità dei ricorsi, oggi soppresso a seguito dell’istituzione della Corte unica con l’11° Protocollo Addizionale. Avendo di fronte un testo convenzionale internazionale i metodi di interpretazioni divergono dalla tradizionale attività ermeneutica dei giudici nazionali.

Occorre innanzitutto ricordare che siamo di fronte ad un trattato internazionale a cui si applicano le regole di interpretazione (artt. 31, 32 e 33) previste dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. La Corte, qualificando tali regole come norme

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di natura consuetudinaria, ne ha fatto espresso rinvio già da tempo42 ribadendone la loro piena applicabilità nell’ambito del sistema convenzionale. Nell’ambito di tali metodi, quello che ha avuto maggiore sviluppo nella prassi di Strasburgo è il criterio

teleologico, che ha subìto una scomposizione e specificazione in

più criteri e sub-criteri, tutti però riconducibili al medesimo approccio finalistico43. La Cedu può essere definita, ed è questo il

suo principale elemento di specialità rispetto ai cd. trattati-negozio, un trattato normativo, in cui le volontà e gli interessi degli Stati contraenti non sono contrapposti ma devono ritenersi convergenti verso il comune obiettivo di garantire un efficace livello di tutela dei diritti dell’uomo. Questo spiega la preponderanza di un approccio ermeneutico ed applicativo di natura teleologica, che tenga di contro degli scopi generali della Convenzione e al contempo di quelli specifici di ogni singola norma. Tra i vari principi che sono espressione di attività ermeneutica, di alcuni più che di altri la giurisprudenza EDU si è avvalsa per sopperire all’indefinitezza dell’art. 144. In primo luogo occorre menzionare il

principio di effettività, secondo cui lo scopo della Convenzione non è quello di proteggere diritti ipotetici ed illusori ma al contrario

diritti concreti ed effettivi45 a cui apprestare una tutela effettiva.

4.1. La dottrina del margine di apprezzamento.

Il principio del margine di apprezzamento attiene al rispetto del potere discrezionale degli Stati in materia di ingerenza nell’esercizio dei diritti garantiti dalla Convenzione. In realtà questa dottrina, essendosi sviluppata all’interno della casistica

42 Corte, 21 febbraio 1975, Golder c. Regno Unito, Serie A, n. 18 43 Pustorino P., L'interpretazione della CEDU cit., p. 26

44 De Salvia, Alcune riflessioni in tema di interpretazione del diritto al rispetto dei

beni, cit., p. 233 ss.

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giurisprudenziale ha avuto modo di essere interpretata dalla Corte e dai suoi vari commentatori in direzioni affatto differenti tra loro. In generale è possibile affermare come essa parta dall’idea che la varietà culturale e ideologica incorporata in ciascun sistema giuridico degli Stati europei deve essere rispettata, impedendo l’uniformazione da parte della Corte Edu46. A seconda del tenore

letterale delle norme della Cedu, questo principio assume maggiori spazi di operatività: alcuni articoli infatti ammettono esplicitamente il potere degli Stati di interferire nei confronti delle libertà protette dalla Convenzione (tra questi l’art. 1, I Prot., 2° par.). Non potendo spingersi in un’approfondita analisi dell’istituto in questione, in questo lavoro possiamo limitarci a evidenziare quale possibile rilevanza abbia questo criterio circa l’individuazione dell’ambito di applicazione dell’art. 1, I Prot. A tal proposito è stato rilevato come il principio interpretativo del margine di apprezzamento miri a risolvere il problema delle cd. “espressioni indeterminate” cioè di quelle nozioni che attribuiscono volutamente una certa libertà di giudizio all’interprete richiamando elementi extra-normativi o elementi valutabili solo discrezionalmente47. Sulla base di questa

ricostruzione gli Stati non hanno il potere di riempire di significato qualunque nozione vaga, ma soltanto quello di operare una valutazione discrezionale in quei casi in cui la norma rinvia a concetti che sono lasciati indeterminati per permettere agli Stati di operare un giudizio di valore nel caso concreto48. Altri commentatori al contrario hanno messo in relazione il grado di operatività della dottrina del margine di apprezzamento con il livello di consenso degli Stati in ordine all’ammissibilità di una

46 Sudre F., L’interprétation de la Convention européenne des droits de l’homme,

Bruxelles, 1998, pag. 31-7

47 Sapienza R., Sul margine d’apprezzamento statale nel sistema della Convenzione

europea dei diritti dell’uomo, in Rivista di diritto internazionale, 1991, pag. 571 ss

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determinata interferenza sul diritto tutelato oppure ancora in relazione ad un profilo squisitamente procedurale, vale a dire la capacità dell’organo giurisdizionale nazionale di decidere meglio di quanto non faccia nel caso concreto l’autorità di controllo internazionale49.

Per rispondere alla domanda se gli Stati abbiano o meno un margine di apprezzamento anche con riferimento alla nozione di bene ex art. 1, occorre tenere presente che il suddetto principio viene spesso messo in opposizione dialettica con il ricorso alle nozioni autonome, di cui si approfondirà quale sia il ruolo in seguito. Si afferma infatti che ogni qual volta la Corte di Strasburgo qualifica una nozione come autonoma, questa impedisca agli Stati di avvalersi delle definizioni del proprio diritto interno per qualificare una determinata fattispecie e viceversa50. I due strumenti

opererebbero come parametri per ampliare o restringere l’ambito di applicazione delle norme e quindi in ultima analisi, la competenza dell’organo di controllo sulle ingerenze statali. Tuttavia secondo un’altra ricostruzione, questi criteri sembrano avere una diversa operatività51: il principio di autonomia determina il campo di

applicazione di un diritto, mentre il margine di apprezzamento regola le condizioni di esercizio del diritto dettando un’autolimitazione al controllo sulla legittimità di tale esercizio da parte dello Stato. In questo senso i due principi non stanno in un

49 Letsas G., Two Concepts of the Margin of Appreciation, in Oxford Journal of

Legal Studies, 2006, Vol. 26, p705

50 In Italia si veda Colcelli V., Le situazioni giuridiche soggettive nel sistema

C.E.D.U., Iseg Gioacchino Scaduto, 2010, pag. 15: “L’argomento delle nozioni

autonome nella giurisprudenza dei giudici di Strasburgo, è collegato a quello del margine di apprezzamento. Quest’ultimo si pone rispetto al primo in un rapporto

speculare. Tanto più cresce il margine di apprezzamento che la Corte riconosce in

una determinata materia ad uno Stato, tanto più diminuisce lo spazio per l’elaborazione di una nozione autonoma in campo convenzionale.” All’estero v. Kastanas E., Unité e diversité: notion autonomes et marge d’appréciation dans la

jurisprudence de la Cour européenne des droits de l’homme, Bruylant, 1996.

51 Sudre F., Le recours aux "notions autonomes”, in L’interprétation de la

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rapporto di reciproca opposizione perché operano su due differenti profili del diritto tutelato, l’ambito di applicazione e l’intensità dell’ingerenza. La nozione di bene, delineando i confini applicativi della norma, è soggetta ad un’attività ermeneutica che mira a renderla “autonoma” rispetto a ciò che è definito bene negli ordinamenti nazionali; mentre con riferimento alla proporzionalità dell’ingerenza gli Stati conserverebbero un margine di apprezzamento con riferimento a quelle valutazioni discrezionali che solo l’autorità amministrativa può compiere al momento in cui l’aggressione ai beni viene posta in essere.

4.2. Giusto equilibrio e principio di proporzionalità.

Il principio di giusto equilibrio riguarda il bilanciamento che deve essere effettuato tra l’interesse individuale che si incardina nel diritto tutelato dalla Convenzione e l’interesse generale della collettività. Quest’ultimo principio è strettamente collegato al principio di proporzionalità che deve sussistere tra i mezzi utilizzati dallo Stato in sede di compressione o limitazione del diritto individuale tutelato e l’obiettivo per il quale tali mezzi sono stati impiegati. Il “giusto equilibrio” è un parametro di giudizio che la Corte applica a tutti i tipi di ingerenza disciplinati dalle tre norme dell’articolo 1 ma il suo fondamento viene ricavato, ad opera della Corte, direttamente partendo dal “diritto al rispetto dei beni” che, come abbiamo anticipato, è un criterio interpretativo alla luce del quale vengono applicate le altre due norme. È stato osservato che “un esercizio interpretativo del genere permette un ampio margine di discrezionalità nella constatazione di violazioni dell’art. 1”52. Al

contempo però è proprio su questo aspetto che la dottrina del

52 Conforti B., La giurisprudenza della Corte di Giustizia di Strasburgo in tema di

proprietà, in La proprietà nella Carta Europea dei Diritti Fondamentali, a cura di

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margine di apprezzamento opera come fattore di limitazione del controllo degli organi internazionali sulle interferenze statali ai diritti fondamentali. Da un punto di vista evolutivo, è stato rilevato come mentre fino agli anni ’80 il margine di apprezzamento statale circa la valutazione della proporzionalità del proprio intervento limitativo del diritto di proprietà avesse una latitudine ampia è dal caso Sporrong e Lonnroth che la Corte ha cominciato ad applicare il criterio del giusto equilibrio e lo spazio di libera valutazione degli Stati ha “cominciato a cedere terreno”53.

4.3. Le nozioni autonome.

A questi criteri ermeneutici, che sono una diretta espressione dell’approccio finalistico già citato, si aggiungono altre due prassi interpretative della Corte di Strasburgo che ai fini di questa trattazione hanno una grande rilevanza.

Il primo consiste nelle cd. “nozioni autonome” (o principio di autonomia). La giurisprudenza della Commissione e della Corte ha da sempre affermato il carattere autonomo dei termini utilizzati nella Convenzione per individuare diritti e libertà rispetto al significato dei medesimi termini nei singoli Stati convenuti in giudizio54. Questo strumento viene utilizzato dalla Corte al fine di

impedire ad uno Stato di sottrarsi agli obblighi della Cedu avvalendosi di definizioni giuridiche formalmente estranee al campo di applicazione del diritto oggetto di tutela. Quindi, nel concreto, la “nozione autonoma” è uno strumento di determinazione del campo di applicazione dei diritti garantiti e

53 Condorelli L., Premier protocole additionnel: Article 1, in La Convention

européenne des droits de l'homme: commentaire article par article, (a cura di)

Emmanuel Decaux, Pierre-henri Imbert Louis-edmond Pettiti, Parigi, Economica, 1995, pag. 997

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quindi della competenza degli organi di controllo55 che tendono a favorire un’applicazione uniforme del diritto convenzionale e ad evitare “frodi” degli Stati all’osservanza della Cedu.

Circa i criteri utilizzati in concreto per individuare il significato autonomo delle disposizioni, la giurisprudenza ha fatto ricorso all’oggetto e allo scopo del trattato nonché ai principi comuni agli ordinamenti interni degli Stati contraenti. Con riferimento a quest’ultimo parametro la Corte ha chiarito, nel caso König del 1978, che non si riferisce direttamente alla legislazione interna degli Stati, ma riguarda la ricerca di un “denominatore comune” emergente dall’analisi comparativa tra gli ordinamenti56.

I principi interpretativi analizzati sono stati utilizzati dalla giurisprudenza per estendere la nozione di bene richiamata dall’art. 1, prima frase. Già dalle prime sentenze che hanno applicato questa norma la giurisprudenza ha chiarito come “la notion de ‘bien’ (en anglais ‘possessions’) de l’article 1 du Protocole n° 1 a une portée

autonome” […] “aux fins de l’article 1”57. Nel secondo capitolo si

procederà all’analisi caso per caso degli effetti dell’applicazione del principio di autonomia all’art. 1.

4.4. Principi comuni del diritto e la dottrina dell’european consensus.

L’altro strumento utilizzato di frequente dalla Corte EDU è il ricorso al diritto interno degli Stati contraenti ed in particolar modo ai principi generali di diritto riconosciuti in questi paesi. A differenza dell’ordinamento comunitario in cui si fa un esplicito richiamo a detti principi, il testo della Cedu non ne fa alcuna

55 Sudre F., Le recours aux "notions autonomes”, in L’interprétation de la

Convention, cit. pag 107

56 Giudice Matscher, in Corte, 31 maggio 1978, König c. Germania, Serie A, n. 27,

par. 89.

57 Corte, 16 settembre 1996, Matos e Silva, Lda., e altri c. Portogallo, Recueil, 1996,

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menzione, se non nel suo preambolo dove si parla di “patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto”. Più in generale è possibile affermare che il ricorso al diritto comparato è un utile strumento per la giurisprudenza al fine di orientare le sue decisioni: la dottrina dell’european consensus consiste infatti nella ricerca di un orientamento comune all’interno degli ordinamenti nazionali, di modo che maggiore è il livello di consenso minore sarà il margine di apprezzamento concesso agli Stati. La comparazione giuridica non rappresenta quindi “solamente uno strumento attraverso cui valutare il grado di condivisione di regole e principi tra i Paesi del Consiglio d’Europa, ma costituisce un momento strategico per orientare le decisioni giudiziarie sovranazionali”58 in quanto funge

da indicatore della compatibilità di scelte interpretative uniformi con i particolari contesti di ciascun ordinamento nazionale.

In ogni caso, la Corte ne ha fatto ricorso in particolare come parametro oggettivo per l’applicazione del principio di proporzionalità e, più in generale, ogni qual volta si è trovata davanti a specifici termini il cui significato fosse di dubbia determinazione59. In entrambi i casi i giudici di Strasburgo hanno

compiuto un’indagine su quale fosse il criterio più utilizzato nel diritto interno per poi elevare questo standard comune a parametro di interpretazione ed applicazione. È utile rilevare come la Corte, al fine di dare fondamento al richiamo ai principi comuni di diritto interno, faccia leva su una finalità generale della Convenzione, vale a dire quella di fungere da “sistema normativo che si aggiunge e che tende a migliorare i sistemi nazionali di protezione dei diritti dell’uomo” e “ad elevare il livello complessivo di protezione

58 Viglione F., Dubbi e ambiguità sul ruolo del diritto comparato nella

giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Europa e Diritto Privato, I, 2015, pag. 185.

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assicurato dagli ordinamenti interni”60. Da qui nasce il naturale e

implicito coordinamento che deve intercorrere tra i sistemi giuridici nazionali e la Convenzione stessa: alcuni autori hanno evidenziato come il metodo comparativo del diritto nazionale sia lo strumento di principale attualizzazione della Convenzione la quale, per la sua natura di trattato normativo, non può essere interpretato facendo riferimento alla sola volontà originaria degli Stati contraenti (interpretazione consensuale in senso stretto) ma deve ricercare una progressiva convergenza dei diritti interni (interpretazione evolutiva)61.

Tuttavia la dottrina del consensus non è sempre stata declinata nello stesso modo, e proprio con riferimento al diritto di proprietà se ne può avere un riscontro. Infatti la Corte di Strasburgo nell’interpretare l’art. 1 ha fatto un uso prudente di questo criterio: è stato osservato come l’interpretazione estensiva del campo di applicazione della norma ha trovato fondamento tal volta nel richiamo delle tradizioni comuni degli Stati membri, tal altra prescindendo esplicitamente, tramite il ricorso al principio di autonomia, da quel medesimo richiamo62. In questo senso il

principio di autonomia e la dottrina del consensus sembrano criteri che operano in direzioni opposte quando si tratta di dare contenuto alla nozione di bene che ha lo scopo di demarcare l’ambito di applicazione della disciplina a tutela della proprietà: da una parte si cerca di enucleare un concetto di proprietà che rappresenti un minimo comune denominatore delle esperienze giuridiche degli Stati contraenti mentre dall’altra si sgancia completamente la

60 Pustorino P., Op. Cit., pag. 123

61 Rigaux F. Interprétation consensuelle et interprétation évolutive, in Sudre F.,

L’interprétation de la Convention… cit. pag 45: “Entendue en sens plus large, l’interprétation consensuelle se confond avec l’interprétation évolutive: un élément décisif de l’évolution est déduit du mouvement convergent des droits internes des Etats partie au traité”.

62 Moscarini A., Proprietà private e tradizioni costituzionali comuni, Giuffré, 2006,

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nozione di “bene” dalle tradizioni giuridiche nazionali per costruire una nozione “ontologicamente differente”63 da quella presente nei

codici civili e nelle carte costituzionali degli Stati membri.

5. Nozione di beni come nozione “autonoma” e la difficoltà di rinvenire una nozione di comune ai diversi sistemi giuridici da parte della giurisprudenza.

5.1. Premessa.

Prima di analizzare in che modo gli strumenti interpretativi abbiano influenzato la Corte nel dare contenuto alle nozioni vaghe enunciate nell’art. 1, I Prot. occorre premettere che la definizione giuridica delle entità che rientrano o stanno fuori alla categoria dei beni produce un effetto ulteriore rispetto a definire in cosa consiste un bene in altri settori del sapere scientifico (economia, filosofia morale, ecc.). Il bene nel linguaggio del diritto, in quanto categoria giuridica, svolge una funzione demarcativa, indica cioè “l’ambito di applicazione di una disciplina specifica, e, viceversa [esclude] l’applicazione di altre discipline specifiche”64. Secondo parte della

dottrina65 quando si qualifica un qualcosa come bene l’effetto

giuridico più significativo è riconducibile alla scelta politica della società di indicare ciò che è suscettibile di appartenenza da ciò che non può appartenere a nessuno (res communes omnium)66. Questo

problema di demarcazione tra bene (e non) si pone logicamente

63 Viglione F., Dubbi e ambiguità sul ruolo del diritto comparato… cit. pag. 185. 64 Gambaro A., Dai beni immobili ai beni virtuali, in XXI Secolo, 2009, su

www.treccani.it.

65 Cfr. Gambaro A., La proprietà: beni, proprietà, comunione, Giuffrè, 1990, pag

5-9

66 Anche questo aspetto deve essere parzialmente sottoposto a vaglio critico con

l’emergere del dibattito contemporaneo sui beni comuni. Tra i molti contributi v. Mattei U., I beni comuni. Un manifesto, Bari, 2011; Marella M.R (a cura di), Oltre

il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012. Lo stesso

Gambaro avrà modo di ritrattare l’esclusione delle risorse inappropriabili dalla categoria di bene in Gambaro A., I beni, in Trattato di diritto civile e commerciale

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prima e indipendentemente dal problema riguardante le forme di appartenenza a cui un bene è assoggettato ed a maggior ragione dal problema successivo di stabilire quali siano le tecniche di tutela delle diverse forme di appartenenza. In tempi meno recenti la scelta di assoggettare una entità materiale ad un regime di appartenenza è dipeso dal problema che in economia prende il nome di scarsità. Laddove c’è scarsità di una certa entità allora nasce il problema del conflitto tra gli individui per la sua appropriazione a cui consegue la necessità di assoggettare tale entità ad una forma di appartenenza e quindi di definire l’oggetto di quest’ultima come un bene in senso giuridico. Quale sia il miglior regime giuridico di appartenenza è quindi una questione che si pone in seconda battuta rispetto alla scelta politica di fondo di rendere una certa entità appropriabile da parte di un soggetto giuridico in ragione della sua scarsità. Anche questa impostazione del problema, mutuata dalla scienza economica, viene però messa in crisi dall’avanzare nella realtà moderna dei cosiddetti beni immateriali: un’opera di ingegno non è in natura un bene scarso, ma è anzi il monopolio legale su essa a renderla tale.

Questa sintetica ricostruzione, che sarà ripresa anche in seguito, è necessaria per mettere in luce quello che è il problema di fondo di un approccio interpretativo estensivo da parte del giudice Cedu cioè quello di assoggettare, entità materiali e immateriali, situazioni giuridiche e tal volta addirittura meri interessi (come vedremo in seguito) al regime giuridico di “rispetto dei beni” ex art. 1. Una volta accertato questo, sarà lecito interrogarsi su quanto la disciplina giuridica predisposta dal legislatore (in questo caso dalla Cedu) si conformi ai beni che a questa disciplina sono assoggettati e dunque quanto un’eventuale approccio estensivo sia opportuno.

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5.2. La nozione autonoma di bene.

L’itinerario seguito dalla giurisprudenza Cedu è stato quello della progressiva “autonomizzazione” del concetto di bene rispetto alle esperienze giuridiche nazionali. Piuttosto che sforzarsi di ricercare tramite lo strumento del diritto comparato una nozione di bene che conciliasse le diversità statali con l’esigenza di uniformità della Convenzione, la Corte ha scelto di applicare il principio di autonomia. Nonostante sia opinione diffusa nella dottrina odierna che “le esperienze nazionali europee in tema di protezione del diritto di proprietà sarebbero coinvolte in un processo di progressiva convergenza”67 è possibile riscontrare che le sentenze

della Corte Edu in materia di proprietà non siano state assoggettate alla dottrina del consensuse quindi al metodo comparatistico come strumento per la costruzione del concetto europeo di bene. Ad avviso di alcuni commentatori68, il fatto di considerare la nozione di bene come nozione autonoma non è affatto incompatibile con lo sforzo di valorizzare il riferimento ai principi generali di diritto: affermare l’indipendenza dell’art. 1 dalle discipline giuridiche nazionali non significa per forza che l’opera di costruzione giuridica della Corte Edu non possa prendere le mosse proprio dalle tradizioni giuridiche degli Stati contraenti. In effetti, è stato osservato come la giurisprudenza in altre occasioni abbia fatto riferimento ai principi comuni del diritto anche al fine di escludere la possibilità di ricavare una “notion européenne uniforme”69 ma

con riferimento all’istituto proprietario questo sforzo ricostruttivo non è stato neanche accennato. A detta di alcuni commentatori invece, stante la riconosciuta tendenza evolutiva di avvicinamento dei vari modelli proprietari, una ricostruzione che si agganci al

67 Viglione F., Dubbi e ambiguità sul ruolo del diritto comparato… cit. pag. 187. 68 Padelletti M.L., La tutela della proprietà… cit., pag. 97-98

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diritto nazionale al fine di giustificare la disciplina concreta relativa all’art. 1 sembrerebbe possibile; ciò anche a costo di privilegiare una tradizione giuridica a discapito di un’altra70. In particolare, la

tradizione di Common Law, come si vedrà meglio in seguito, si presta maggiormente ad essere utilizzata, in quanto adotta una nozione di proprietà che prescinde dal dato della corporalità del bene e ricomprende al suo interno un “fascio di diritti, poteri, facoltà, privilegi”71.

Le decisioni della Corte in materia di proprietà infatti si pongono spesso in contraddizione con i diritti nazionali e questo spiega il motivo del mancato richiamo della dottrina del consensus soprattutto con riferimento all’ambito di applicazione dell’art. 1. La definizione di proprietà dettata dall’art. 1 ha consentito alla corte di “ampliare l’orizzonte dominicale nella duplice dimensione dell’oggetto da un lato e delle regole di protezione dall’altro”72 ma

questo ha comportato un’inevitabile rottura con le tradizioni giuridiche statali sia di civil law che di common law. Questo approccio estensivo, disinteressandosi completamente del raffronto con le proprietà “nazionali”, ha portato a dei risultati molto innovativi: un dato comune delle pur differenti nozioni proprietarie della cultura giuridica occidentale consiste nell’escludere che un qualsiasi “interesse” economico individuale possa giustificare una protezione assoluta come quella proprietaria73. La Corte Edu al

contrario sembra rompere con la tradizionale distinzione tra tutele

70 Padelletti M.L., La tutela della proprietà… cit., pag. 99: partendo dalla

convinzione che delle nozioni europee comuni di proprietà e di bene siano impossibili da enucleare a causa della inconciliabile divergenza tra i sistemi di

common law e civil law, l’Autrice si auspica uno sforzo ricostruttivo che tenda a far

coincidere l’ambito di applicazione dell’art. 1 con la property. Per una visione ottimista circa la possibilità di ricostruire una nozione comune europea di sintesi v. Viglione, Op. cit.

71 Gambaro A., Ontologia dei beni e jus excludendi, in Comparazione e diritto civile,

giugno 2010, pag. 6.

72 Viglione F., Dubbi e ambiguità sul ruolo del diritto comparato… cit. pag. 187. 73 Ivi pag 188.

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proprietarie assolute ed esclusive da una parte e tutele relative dei diritti di credito dall’altra e ciò in netta contrapposizione con la tradizione giuridica di civil law. Un modello in cui si ha una “sovrapposizione di sensi tra l’oggetto dei diritti di proprietà ed i

diritti soggettivi, siano essi reali o di credito”74 tale da rischiare di

svuotare il concetto di proprietà fino al punto di farlo coincidere con quello di titolarità. Ma a ben guardare, come si vedrà in seguito, anche la più elastica concezione di property del diritto anglo-americano, per quanto più affine, sembra discostarsi in parte dal modello proposto dal giudice di Strasburgo.

Prima di cercare di tirare le somme circa il risultato dell’attività ermeneutica della Corte, è utile ripercorrere brevemente le tappe dell’evoluzione della nozione di bene nei sistemi giuridici occidentali per meglio apprezzare i limiti di un possibile tentativo di conciliazione tra tradizioni differenti. Tradizioni che in tempi più recenti, e anche grazie ai moderni trattati di diritto internazionale, sono state protagoniste, in materia di diritto di proprietà, di un vero e proprio fenomeno di circolazione dei modelli che ha contribuito ad appiattire molte divergenze.

5.3. La nozione di bene nei sistemi giuridici europei (Common Law e Civil Law).

Nella tradizione giuridica di common law è difficile fare una sintesi di ciò che costituisce oggetto del diritto di proprietà in quanto la nozione di property si discosta molto dalla nozione elaborata della tradizione continentale. Il primo motivo di questa divergenza risiede nel modo di ragionare del giurista anglo-americano: questo infatti ha per secoli costruito le categorie giuridiche, non “su base sostanzialistica”75 ma usando lo strumento

74 Ibidem.

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dei writs, seguendo cioè una prospettiva rimediale. L’opposizione tra real property e personal property che costituisce la summa divisio all’interno della cd. law of property non si basa né sul tipo di bene oggetto della situazione di appartenenza né sulla differente struttura di quest’ultima quanto piuttosto sui tipi di rimedi – rispettivamente recuperatori e risarcitori – che l’ordinamento appresta al singolo per tutelare la sua situazione giuridica. Di fronte a casi nuovi il giurista inglese ha per analogia applicato rimedi “vecchi” forzandoli, tramite vere e proprie finzioni, all’interno di fattispecie astratte pensate per casi concreti differenti; a questo fattore si aggiunse la “debolezza” del diritto delle obbligazioni in questo ordinamento giuridico. Per queste ragioni, all’interno della categoria della law of property si andarono a collocare situazioni giuridiche che in Europa Continentale sarebbero ascrivibili alla materia obbligatoria (situazioni soggettive di vantaggio nascenti da rapporti contrattuali quali la locazione, i crediti liquidi e trasferibili, Know-How, goodwill ecc.). La nozione di patrimonio è quindi rimasta confinata all’interno della law of property il cui oggetto è costituito da tutti gli elementi attivi di un patrimonio76. Solo con

l’avvento della società industriale nascerà il concetto di ownership – pensato per avere ad oggetto i beni mobili materiali prodotti nella fabbrica – il cui contenuto si avvicina alla “proprietà individuale e compatta che si era affermata in Europa continentale”77.

76 Ivi pag. 53.

77 Gambaro A., Ontologia dei beni e jus excludendi, cit. pag. 16: “La società

industriale è la società del macchinario e del manufatto. Il prodotto dell’industria sia esso un bene finale sia esso un bene strumentale, è dotato di una fisicalità talvolta massiccia. […] In generale è da osservare che queste conferme provenienti dalla civiltà materiale che si radicò nei paesi europei occidentali nel XIX secolo andavano di pari passo con l’affermarsi di regole del traffico giuridico che facevano leva sul possesso, ossia sul controllo fisico di un bene materiale […]. I prodotti della civiltà industriale infatti sono in gran parte beni mobili ad uso rivale, rispetto ai quali la

compattezza del domino nel senso di attribuzione ed un solo soggetto di tutte le utilità che la cosa può generare appare la soluzione più razionale.”

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Volendo trarre le prime conclusioni di questa breve ricostruzione e ai fini di questa trattazione occorre cercare di definire i confini oggettivi della law of property. Senza potersi spingere ad analizzare dettagliatamente le sottocategorie, è possibile però fissare i principali criteri identificativi delle situazioni giuridiche che ne fanno parte: da una parte l’incondizionatezza (o irrevocabilità) del diritto ad usufruire (anche in futuro) di certe utilità che ne sono oggetto e dall’altra l’elemento della trasferibilità della situazione vantata dal titolare78.

Al contrario, negli ordinamenti di civil law le nuove forme di ricchezza emergenti nella modernità sono state collocate dai giuristi di tradizione romanistica all’interno della categoria del diritto delle obbligazioni. Di conseguenza il diritto patrimoniale (e la nozione stessa di patrimonio) “si pone ibridamente a cavallo tra due macrocategorie: quella dei diritti reali e quella delle obbligazioni”79. Questa capacità dei giuristi di civil law di riuscire

a sistematizzare le nuove ricchezze emergenti nella società nel settore contrattuale fu anche il motivo della “vittoria” del diritto romano sui vari diritti locali consuetudinari (cosa che invece non si è verificata nel mondo anglosassone). Questa sintetica ricostruzione ha delle inevitabili implicazioni sulla teoria dei beni – intesi come punto di riferimento oggettivo delle situazioni proprietarie. Anche su questo aspetto non si può prescindere dalla prospettiva storica delle diverse culture giuridiche occidentali che, nelle varie tappe del processo materiale di civilizzazione, hanno dovuto affrontare il problema dell’appartenenza e della appropriazione delle risorse scarse. La diversa ratio sottesa alla law of property in common law rispetto alla materia dei diritti reali in civil law “non poteva infatti non riflettersi sulla determinazione dei ‘beni’ e delle situazioni

78 Su quest’ultimo punto v. Candian, Gambaro, Pozzo, Op. cit., pag. 44. 79 Ivi pag. 51.

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giuridiche di vantaggio che possono essere oggetto di un diritto ‘proprietario’”80.

5.4. (segue) il rapporto tra “bene” e “cosa”.

Un altro grande profilo di divergenza che complica un’auspicabile convergenza di modelli è il problema del rapporto tra il concetto di “bene” e quello di “cosa” e in particolare il carattere di fisicità del diritto di proprietà in (alcuni sistemi di) Europa continentale. Affrontando la questione da una prospettiva storica è stato rilevato come le forme giuridiche di appartenenza sono state pensate in riferimento a quello che per secoli è stato la principale fonte di ricchezza dell’economia agricola occidentale, la “terra”, il bene immobile per eccellenza considerato da un punto di vista economico e sociale più importante della ricchezza mobiliare. È stato autorevolmente rilevato81 come due siano stati i modi di concepire il legame tra la terra e le utilità da essa prodotte. Da una parte l’idea della terra come un bene fruttifero, per cui la res naturalmente produce le utilità (o i frutti) di cui l’uomo può godere; in quest’ottica il diritto di proprietà aveva come aspetto caratterizzante il fatto di garantire al titolare di utilizzare e disporre direttamente di una res corporales. Ma in una seconda prospettiva la terra poteva essere concepita “come un territorio le cui utilità erano mediate dalle attività umane dei suoi abitanti”82. Per tutto il periodo feudale questa fu la mentalità dominante nell’Europa occidentale: la parte più importante della signoria non era costituita dalla terra, bensì dai diritti che il signore poteva esercitare a titolo di “governo del territorio” su di essa (diritto di esigere pedaggi, di amministrare la giustizia, di imporre il rispetto di monopoli, ecc.) e

80 Padelletti M.L., La tutela della proprietà… cit., pag. 43. 81 Gambaro A., Ontologia dei beni e jus excludendi, cit. pag. 6-8 82 Ibidem.

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che poteva parzialmente trasferire ad altri soggetti per mezzo della tecnica dell’investitura; gli oggetti di questi privilegi consistevano in utilità che non derivavano direttamente dalla terra in sé considerata ma piuttosto dall’attività di chi abitava il territorio. Tali diritti riferiti al territorio sono però beni immateriali e questo spiega il perché, con il passaggio dal concetto di signoria a quello moderno di proprietà, quest’ultima fu concepita nei sistemi di common law – i meno influenzati dalla concezione fisicalista di proprietà del diritto romano – come un fascio di diritti, poteri, facoltà, privilegi83.

All’idea romanistica di una proprietà individuale che permette al suo titolare di godere di tutte le utilità del bene, il sistema di circolazione della ricchezza feudale ha contrapposto per secoli una pluralità di dominia ciascuna espressione di differenti facoltà sulla terra. Nonostante l’evoluzione storica verso un’economia industrializzata abbia imposto agli ordinamenti di common law una riforma dell’assetto proprietario in senso fisicalista, questo cambiamento non ha inciso sulle concezioni di base della law of property che concepiva gli oggetti delle situazioni di appartenenza “astrazioni e non già cose”84. Anche oggi i rapporti giuridici che

fanno parte della Real Property non hanno ad oggetto entità materiali bensì diritti di godimento di un’utilità scaturente direttamente o indirettamente da un bene materiale85. Il contenuto

della Personal property invece è più eterogeneo in quanto ricomprende i cd. chattels (contrazione orale di et cetera) consistenti in tutto ciò che, in ragione del mezzo di tutela (risarcitorio) azionabile, non rientrava all’interno della Real property. Si tratta dunque di una categoria residuale e in quanto tale

83 Cfr. anche Candian, Gambaro, Pozzo, Property – Propriété – Eigentum, cit., pag.

64: “in quanto generata da rapporti feudali la real property, ha accanto alle altre, una dimensione ‘territoriale’ e non solo una dimensione ‘fondiaria’”.

84 Gambaro A., I beni, cit. pag. 54

85 Moscarini A., Proprietà private e tradizioni costituzionali comuni, cit. pag.

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