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Ungaretti in Egitto (1931)

Nel documento L ITALIANO IN EGITTO E ITALIANI D EGITTO (pagine 175-183)

GIUSEPPE UNGARETTI IN EGITTO

3. Giuseppe Ungaretti in Egitto

3.2. Ungaretti in Egitto (1931)

Come già accennato, nell'estate del 1931, Ungaretti torna di nuovo in Egitto per scrivere una serie di articoli pubblicati prima sul giornale torinese della «Gazzetta del Popolo», per essere raccolti per far parte prima dell'edizione di Il deserto e dopo del 1961 e poi della Vita di un uomo.

Viaggi e lezioni del 2000, cui faremo riferimento.

La parte dedicata al viaggio in Egitto è intitolata Quaderno egiziano, composta di dodici parti361.

Ungaretti riscopre il suo paese natale, dopo anni di assenza, con nuovi occhi. Non è più quell'oasi di memoria lirica, ma un paese povero al centro degli interessi delle potenze internazionali.

Ungaretti si presenta come un giornalista e a volte come un esperto in politica estera. Il che non nega di tanto in tanto far lasciare la penna ai suoi ricordi infantili e giovanili.

Un testo misto insomma, tra il giornalista e commentatore occidentale in terra araba/africana e il poeta che ritorna alla sua terra natale per assistere all'amara scoperta della rovina del suo paese immaginario.

Infatti alcuni critici affermano che dopo questo viaggio, l'Egitto non avrà più quel spazio che aveva prima nella poesia di Ungaretti.

Si può parlare di varie letture di questo testo, ad esempio Giacomo Gambale l'ha preso come esmpio per affermare la sua visione riguardo gli elementi arabo-coranici in Ungaretti, partendo dal giudizio ungarettiano

«puntuale a proposito del processo d'inurbamento dei figli del deserto, deserto che è sentito come fonte ispiratrice della poesia e musica arabe»362.

361 1. Per mare intero 2. Una grande avventura 3. La colonna romana 4. Pianto nella notte 5.

Rivalità di tre potenze 6. Il lavoro degli italiani 7. Chiaro di luna 8. Il deserto 9. La risata dello dginn rull 10. Il povero nella città 11. Il cotone e la crisi 12. Giornata di fantasmi

362 Giacomo Gambale, Giuseppe Ungaretti «Allibisco all’alba» Elementi arabo-coranici, Firenze, Firenze Atheneum, 2006, p. 29

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Nella prosa Il deserto, Ungaretti esprime altri giudizi estetici sulla poesia arabo-islamica, dimostrando il rapporto intimo tra la sua poesia e quella araba, specialmente per i concetti dello spazio e della sete.

E nella prosa La risata dello dginn rull, possiamo incontrare una delle figure emblematiche della memoria ungarettiana legate alla tradizione islamica, cioè la figura dei Ginn, che sono i geni, o folletti del deserto, la cui credenza pagana fu integrata anche nella religione islamica, e si è continuata tra i musulmani fino ai nostri giorni; laddove quel Rull non è che l'arabo Ghul, una delle più sinistre figure della demonologia del deserto363.

Un'altra figura emblematica da ricordare è rappresentata dallo shek al-Arab, che Ungaretti evoca nella cantilena beduina dal sapore ermetico

«Uen, uen, sceeh el Arab, uen?» (Dove, dove sei Sheikh degli Arabi, dove sei?). La figura indica semplicemente il capo degli arabi; ma per Gambale può anche significare addirittura il Qutb, che secondo la tradizione simbolica dei mistici musulmani indica il «Polo gravitazionale che rettifica l'erranza del pellegrino/viaggiatore, precisamente, il Maestro che inizia il discepolo alla via divina, secondo un processo di conquista di virtù-stazioni, quale quello della povertà»364.

Seguendo questa logica, si può arrivare al Povero nella città, un'altra prosa di Ungaretti durante il suo viaggio in Egitto.

Si tratta del fachir (o faqir), ovvero:

L'uomo che testimonia che solo vive chi vede l'Angelo: non si sa cosa vogliano significare i suoi gesti e le sue parole, e potrebbe darsi che siano semplicemente manie. Ma gli Arabi sono sempre in attesa d'un miracolo, il cui presagio potrebbe nascondersi in quei gesti e parole oscuri e non normali. Non ho trovato

363 Francesco Gabrieli, Ungaretti e la cultura araba, in Atti del convegno internazionale su Giuseppe Ungaretti, Urbino 3-6 ottobre 1979, 4 Venti, 1981, p. 660.

364 Giacomo Gambale, Giuseppe Ungaretti «Allibisco all’alba» Elementi arabo-coranici, cit., pp.

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un popolo che credesse di più nella veggenza, nella veggenza dell'invisibile: il fachir gli ricorda dunque l'origine, la sorte, le vicende della sua storia, brevi glorie in lunghi periodi di miseria; ma soprattutto il fachir è per lui il segno vivente del sacro, uno che è libero perché è protetto da gesti e da parole strani, incomprensibili; di più: uno che è sorto a simbolo di libertà365.

Anche Mario Petrucciani in un suo saggio, parte da queste tre prose: Il deserto, La risata dello dginn rull, Il povero nella città, con l'idea di usarle come chiave di lettura per capire meglio l'Allegria di Ungaretti, e in generale la sua idea di poesia, il suo «stimolo d'origine»366.

Petrucciani trova in queste prose di Ungaretti, il nesso, o meglio l'astrazione che sta dietro la prima fase della poesia ungarettiana.

Anche perché «se la parola , nel primo Ungaretti, è il risultato di una scelta di libertà, ove tensione morale e tensione espressiva - scardinando secolari incrostazioni - si fondono nel recupero di una innocenza primigenia intesa non già come stasi, ma come moto incessante verso un

«espoir inassouvi d'innocence», primitività raggiunta in intensità, proprio da questa sua purezza, o povertà, ai confini dell'ineffabile, essa trae le sue oscure, strane, «non normali» risonanze»367.

Le parole e i gesti del fachir hanno un vasto margine d'ombra, ove vanno a situarsi come barlumi, di un messaggio sepolto che altrimenti andrebbe perduto: segni, dunque, miracolosamente sopravvissuti, forse magici.

Il che coincide con il concetto ungarettiano del poeta: quello che «torna alla luce con i suoi canti», che hanno un «inesauribile segreto».

E così alla luce di queste prose del 1931, anche i notissimi versi dell'Allegria, possano acquistare un più profondo significato368.

365 Giuseppe Ungaretti, Il deserto e dopo. Quaderno egiziano, UV, p. 90

366 Mario Petrucciani, Il condizionale di Didone. Studi su Ungaretti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985, p. 256

367 Ivi, pp. 258-259

368 Ivi, p. 259

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Altri studiosi hanno tentato di rileggere queste prose di Ungaretti, non con l'ottica della critica poetico-letteraria, ma con quella dei culture studies.

È il caso di Vittorio Caratozzolo nel suo saggio dedicato ad Ungaretti viaggiatore.

L'autore qui parte da un diverso punto di vista, percorrendo vari testi dedicati al viaggio in Egitto a cavallo tra l'800 e il 900, ove esplodeva la Tutmania, cioè la mania di Tutankhamun. Non era solamente l'epoca dei Faraoni, ma anche di Lawrence d'Arabia. E così si può arrivare agli anni trenta con i viaggi africani di Marinetti e Ungaretti.

Caratozzolo commenta il testo di Ungaretti severamente accennando alla sua scelta stilistica quando descrive ad esempio il modo di vestire degli egiziani così:

Noi e loro, sembra inevitabile, soprattutto se si specifica: noi occidentali.

Ungaretti descrive con attributi decisamente negativi lo stato del vestiario che osserva (miserabile, lercio), ma ancor più s’indigna perché l’occidentalizzazione spinge il popolo egiziano ad abbandonare le antiche tradizioni. In questo biasimo si manifesta in maniera piuttosto canonica lo sguardo estetico dell’osservatore europeo amante di valori e ideali mitizzati, ricercati, apprezzati e al tempo stesso talora disprezzati come primitivi, presso la società ritenute ancora depositarie di culture arcaiche369.

Qui Ungaretti viene letto senza mettere in considerazione la sua nascita e crescita in Egitto, è uno come tanti viaggiatori occidentali che visitano questa terra magica per scrivere poi dei testi esotici e azzardano a dare dei giudizi frettolosi su un paese e un popolo che non conoscono abbastanza.

369 Vittorio Caratozzolo, Viaggiatori in Egitto. Vicente Blasco Ibànez, Eca de Queiros, Giuseppe Ungaretti, Torino, Ananke, 2007, p. 87

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Molto interessante portare un brano in cui Ungaretti descrive qualche donna che vede per una strada ad Alessandria, e subito dopo il commento di Caratozzolo, per poter giudicare il suo metodo.

Ecco prima il testo di Ungaretti:

C'è in mezzo alla strada anche qualche donna. Anch'esse si occidentalizzano.

Alcune non portano più il nobile manto tradizionale col velo nero, dalla metà del viso in giù, retto dal tubo di rame dorato che prolunga sulla fronte il naso.

Sono, queste moderne, una specie di fagotto di roba da lavare. E coll'affetto per il colore tenero: colorino banana, colorino pistacchio, colorino lavanda, colorino lampone, colorino rosa! E le scarpe, l'idea chi gliel'ha messa in testa di portarle?

Con quel passo schiacciante! E le gambe, messe in mostra dalle vesti corte, non sono belle, fanno angolo al ginocchio, forse per l'abitudine di starci a sedere sopra. La vecchia foggia l'aveva dettata un'esperta civetteria. Di bello, esse non hanno che gli occhi: bellissimi! Essa non lasciava vedere che quelli. Anche il tubo di rame era lì per farli più belli370.

Ed ecco il commento di Caratozzolo:

Il paradosso va colto nella sua integrità. La donna egiziana non è mai bella, solo gli occhi sono bellissimi: il senso estetico dell’osservatore rifiuta i mutamenti del costume, perché lo obbligano a soffermare lo sguardo anche su elementi che offendono la sua sensibilità. L’esotismo, insomma, deve rispettare certi canoni, l’iconografia esotica deve restare fedele a se stessa, immutabile, cristallizzata nel raffinato gusto dell’osservatore europeo. La somiglianza, l’occidentalizzazione, difettano di estraneità, e la mancanza di étrangeté corrisponde alla violazione d’un cancone del genere narrativo egotistico.

L’ideale del come era e del come dovrebbe restare si sovrappone alla presa di coscienza del come è e del come diventa; in altre parole, lo sguardo estetico nasconde e mistifica la percezione della realtà. Il desiderio di bellezza dell’osservatore tradisce a priori qualsiasi dissertazione sulla segregazione delle

370 Giuseppe Ungaretti, Il deserto e dopo. Quaderno egiziano, op. cit, pp. 32-33

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donne, la nostalgia della vecchia foggia ignora lo stretto legame tra abbigliamento e cultura sessista, attribuendo le scelte estetiche delle donne piuttosto ad un’esperta civetteria che ad una costrizione culturale.

Ma è giusto andar avanti su questo sentiero, che si basa su testi come Letteratura. Esotismo. Colonialismo di A. Licari e R. Maccagnini, anche se il caso è così diverso.

A nostro parere, la relazione tra gli italiani e l'Egitto sia nell'Ottocento, che nel Novecento, non si deve considerarla parte della letteratura del colonialismo. L'Egitto non è stata una colonia italiana.

Quello che forse Caratozzolo non ha compreso bene è che Ungaretti si aspettava di vedere la sua terra natale, con la sua originalità e il suo carattere tipico.

Tutto il testo è pieno di questo sentimento di rammarico e tristezza, possiamo anche parlare della fine di un'era. La delusione per la fine del sogno egiziano. Infatti, dopo questo viaggio l'Egitto non occuperà più lo stesso spazio che aveva prima nella poesia di Ungaretti.

Ne è testimone la poesia 1914-1915, datata 1932, cioè l'anno successivo al viaggio di Ungaretti in Egitto:

Ti vidi, Alessandria,

friabile sulle tue basi spettrali Diventarmi ricordo

In un abbraccio sospeso di lumi.

Da poco eri fuggita e non rimpiansi L’alga che blando vomita il tuo mare, Che ai sessi smanie d’inferno tramanda.

Né l'infinito e sordo plenilunio Delle aride sere che t'assediano, Né, in mezzo ai cani urlanti, Sotto una cupa tenda

Amori e sonni lunghi sui tappeti.

- 179 - Sono d’un altro sangue e non ti persi, Ma in quella solitudine di nave Più dell’usato tornò malinconica La delusione che tu sia, straniera, La mia città natale.

A quei tempi, come eri strana, Italia, E mi sembrasti una notte più cieca Delle lasciate giornate accecanti.

Ma il dubbio, ebbro colore di perla, Come avviene nelle ore di tempesta Spuntò adagio ai limiti,

E s'era appena messo a serpeggiare Che aurora già soffiava sulla brace.

Chiara Italia, parlasti finalmente Al figlio d'emigranti.

Vedeva per la prima volta i monti Consueti agli occhi e ai sogni Di tutti i suoi defunti;

Sciamare udiva voci appassionate Nelle gole granitiche;

Gli scoprivi boschiva la tua notte;

Guizzi d'acque pudiche,

Specchi tornavano di fiere origini;

Neve vedeva per la prima volta;

In ultimi virgulti ormai taglienti Che orlavano la luce delle vette E ne legavano gli ampi discorsi Tra viti, qualche cipresso, gli ulivi, I fumi delle casupole sparse, Per la calma dei campi seminati Giù giù sino agli orizzonti d'oceani Assopiti in pescatori alle vele, Spiegate, pronte in un leggiadro seno.

Mi destavi nel sangue ogni tua età, M'apparivi tenace, umana, libera E sulla terra il vivere più bello.

Colla grazia fatale dei millenni Riprendendo a parlare ad ogni senso, Patria fruttuosa, rinascevi prode, Degna che uno per te muoia d'amore371.

371 Giuseppe Ungaretti, 1914-1915, in Sentimento del Tempo, ora in UP, pp. 159-160

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Una dichiarazione di identità italiana, in cui Ungaretti riconosce ad Alessandria il merito di essere la sua città natale, ma prima la definisce come straniera, esprimendo la sua delusione.

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Nel documento L ITALIANO IN EGITTO E ITALIANI D EGITTO (pagine 175-183)