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uru poli-nt-a bellezza fiorire PST PRT

Nel documento Il bel matal (pagine 132-136)

10. creatura divina che offre con benevolenza la nobilitante situazione dell’unione sessuale, allontanando l’inferno dimora dei peccati.

mey-k-kalavi: lett. “unione dei corpi” quindi “unione sessuale”, detta tiru-p-patavi

“situazione sacra”, che il commento (p.3) glossa con uyar-patavi “situazione nobilitante” (uyar come verbo significa “essere eccellente, nobile, superiore” e come sostantivo “grandezza, nobiltà”, TL 433).

ta-nt- aru¬-um: “dando con benevolenza”, per il significato di aru¬ v. distico 1.

teyvam: “dio”, “creatura divina”, è una convenzione della letteratura del Cakam

raffigurare la donna come una creatura divina (v. Aka 32; NaÂÂ155; v. anche distico 67).

uru poli-nt-a: lett. “in cui è fiorita la bellezza” quindi “bello”, da legare a mati “luna”

del distico successivo.

Nei distici 11 - 61 si snoda la descrizione della donna relativamente a tutte le parti del suo corpo. Come spesso accade nella letteratura del Cakam, la donna viene esaltata

nella sua straordinaria bellezza dall’amante stesso76 (Mariaselvam 1988: 195). La descrizione ripropone anche le convenzionali caratteristiche della bellezza femminile, come stabilite dalla tradizione letteraria precedente. E’ a tal proposito significativa la descrizione di una cantante nel PorunaråÂÂuppa ai (vv. 24-45), molte metafore e

immagini della quale si ritrovano anche nei distici del Cittira ma al, “Strofinando,

toccheggiando, pizzicando e cambiando le corde, / effondendo con bravura begli accenti eleganti, la suona / la cantante, avvenentissima nell’aspetto di pavoncella: / capelli come sabbia nera, bella fronte come falce di luna, / sopracciglia come archi assassini, freschi

76 Può capitare, ma meno frequentemente, che nella letteratura del Ca∫kam il ritratto della protagonista

femminile venga tracciato da lei stessa, soprattutto quando costei parla dello sfiorire della propria bellezza causato dalla sofferenza amorosa (v. ad esempio NaÂÂ 177, 244; KuÂu 159, 195, 205; Aka 290, 398), o talvolta dalla sua amica e confidente, soprattutto per scoraggiare l’eroe ad intraprendere un lungo viaggio in terre lontane (v. ad esempio Aka 179, 307, 319, 387) o per confortare l’eroina nei momenti di separazione dall’amato (v. ad esempio Aka 74, 177, 197, 223, 253, 295), dalla madre (v. ad esempio Aka 35, 275, 315), dalla nutrice (v. ad esempio Aka 7, 117, 153, 189, 385, 397) o dai viandanti, che descrivono la bellezza della donna in relazione alla sua fuga e alle difficoltà del viaggio nel deserto (v. ad esempio

occhi leggiadri, / rosse labbra dal dolce favellare simili a petali di ilavu, / denti bianchi e perfetti come una fila di fitte perle, / orecchie adatte a reggere l’oscillare dei begli orecchini / e graziose come gli anelli delle forbici per tagliare i capelli, / collo magnifico piegato con modestia, floride braccia / come ondeggianti bambù e polsi ornati di tenera peluria, / dita morbide come petali di kånta¬ delle alte vette montane, / unghie appuntite, curve e lucenti come becchi di pappagalli, / bei seni giovani e rigogliosi, divisi nel mezzo / nemmeno per lo spazio del gambo di una foglia di palma, / petto adorno di macchioline disseminate a dar turbamento, / ombelico perfetto come un gorgo d’acqua piovana, / vita sottile da parer estenuata, quasi invisibile, pube / adorno di molte file di gemme simile a un favo di api, cosce / tornite, accostate, come massicce proboscidi di grosse elefantesse, / gambe ben fatte soffuse d’acconcia peluria, degne dei piedi / piccoli, di grande bellezza, simili a lingue di cani ansimanti” (traduzione in Panattoni 1995: 30-31).

Secondo l’ideale tamil, la bellezza femminile, designata comunemente dal termine cåyal

(TL 1381), provoca nell’uomo un’esperienza unica e irripetibile, dando appagamento a tutti e cinque i sensi, come è stabilito in Tiru 1101 in cui Va¬¬uvar dichiara “in questa donna dai lucenti bracciali trovano soddisfazione tutti e cinque i sensi – vista, udito, gusto, olfatto e tatto”. Il concetto è ripreso in Cilap 2:73-74 in cui KØvala˜ si rivolge alla moglie Kaˆˆaki con queste parole: “Oh purissimo oro, perla della conchiglia dalla perfetta spirale, fragranza senza difetto, mia canna da zucchero, mio miele”; il colore e la lucentezza dell’oro soddisfano la vista, le fresche e lisce perle il tatto, il profumo l’olfatto, il sapore dolce della canna da zucchero il gusto e il miele, che simboleggia la dolcezza delle parole femminili, l’udito.

L’apparizione di una donna bellissima suscita contemporaneamente attrazione e timore: è allo stesso tempo un’esperienza magnifica ma dolorosa, in quanto la bellezza della donna sfiora la natura divina e per questa sua irraggiungibilità provoca sofferenza nell’uomo (Mariaselvam 1988: 199-200). A tal proposito è significativa la parola

aˆaku (distico 61), che significa “dolore, sofferenza” (TL 61; DEDR 112) ma anche

(sotto una forma omografa per DEDR 116) 1.“divinità, donna celestiale, donna bellissima che assomiglia a una dea”, 2.“decoro, ornamento, bellezza”77.

77 E’ da notare che DEDR 116, differentemente da TL 61, non riporta il significato di “divinità, donna

La struttura sintattica di questa parte del poema è interessante, infatti le varie sezioni, che costituiscono la descrizione delle membra della donna, sono costruite secondo lo stesso schema sintattico: la parola sulla quale si costruisce ogni sezione è un nome personale o talvolta participiale, collocato sempre alla fine del periodo e determinato da participi e gerundi che, susseguendosi, vengono a creare nella mente del lettore un’immagine sempre più complessa e ricca di particolari. Il nome personale è sempre78 costituito dal nome della parte del corpo o della caratteristica descritta + il suffisso di 3° persona femminile singolare -å¬: kËntalå¬ “lei dalle trecce” (distico 16); neÂÂiyå¬ “lei dalla fronte” (distico 17); puruvattå¬ “lei dalle sopracciglia” (distico 18); kaˆˆi˜å¬ “lei dagli occhi” (distico 25); kuÒaiyå¬ “lei dalle orecchie” (distico 26); tuˆ attå¬ “lei dal naso” (distico 27); våyå¬ “lei dalla bocca” (distico 28); nakaiyå¬ “lei dal sorriso” (distico 29); tØ¬å¬ “lei dalle braccia” (distico 31); kuvimulaiyå¬ “lei dai rotondi seni” (distico 43);

vayiÂÂå¬ “lei dal ventre” (distico 44); untiyå¬ “lei dall’ombelico” (distico 49);

ta˜imarukå¬ “lei dalla singolare vita” (distico 50); alkulå¬ “lei dal pube” (distico 51);

kuÂakå¬ “lei dalle cosce” (distico 52); aÒakå¬ “lei dalla bellezza” (distico 53); para  i˜å¬

“lei dalle caviglie” (distico 54); puÂava iyå¬ “lei dalla parte superiore del piede” (distico 56); ceppattå¬ “lei dalla regolarità” (distico 57); c¥ra iyå¬ “lei dai bei piedi” (distico 58);

t¥ñcollå¬ “lei dalle dolci parole” (distico 59); måÂÂi˜å¬ “lei dal colore della carnagione” (distico 60). Lievi variazioni sintattiche si notano nei distici 30, 32 e 48 in cui al posto dei nomi personali si trovano dei nomi participiali, rispettivamente pa aittå¬ “lei che ha ottenuto”, formato dal primo tema del verbo pa ai “ottenere” (TL 2445) + il suffisso

temporale di passato –tt- + il suffisso di 3° persona singolare femminile -å¬ (distico 30 e 32) e vi¬akuvå¬ “lei che eccelle”, formato dal primo tema del verbo vi¬aku “eccellere”

(TL 3726) + il suffisso temporale di futuro –v- + il suffisso di 3° persona femminile singolare -å¬ (distico 48). Anche nel distico 55 c’è una variatio, infatti sono usati tre nomi personali kutiyå¬ “lei dal calcagno”, na aiyå¬ “lei dalla camminata”, mikutiyå¬ “lei dall’eccellenza” e il nome participiale meyttakuviyå¬ “lei che adatta il corpo”.

Fabricius (p.11) attribuisce ad un’unica forma aˆa∫ku i significati di 1.“divinità minore”; 2.“donna”; 3.“dolore”.

78 Le uniche eccezioni sono nei distici 53 e 57 in cui i sostantivi a partire dai quali sono formati i nomi

kËntal

Le trecce

I distici 11-16 descrivono i capelli della donna, che sono neri, spessi e ricci, e acconciati in trecce secondo l’usanza femminile indiana, ripresa dalle convenzioni letterarie del

Cakam, in cui i capelli sono descritti come profumati e abbondanti (v. ad esempio Aka

39 e 257), massicci e scuri con il profumo di fiori di kuva¬ai (v. ad esempio KuÂu 300),

lunghi e ricci che ondeggiano liberamente (v. ad esempio Aka 390), acconciati in cinque trecce (v. ad esempio NaÂÂ 160), simili alla proboscide di una elefantessa (v. ad esempio

Aka 9), scuri come zaffiri e profumati (v. ad esempio NaÂÂ 166), scuri come fitte nuvole (v. ad esempio Aka 126), ondulati come i neri strati di sabbia lungo le rive dei fiumi (v. ad esempio KuÂu 286 e Aka 35), ondeggianti come le penne blu di un pavone (v. ad

esempio NaÂÂ 264 e 265). Le donne descritte nei testi del Cakam sono orgogliose delle

loro lunghe trecce, le lavano usando la sabbia dei fiumi o del mare per rimuovere lo sporco (v. ad esempio KuÂu 113 e 372) e le ungono regolarmente con olii profumati per

mantenerne il profumo e la lucentezza (per i prodotti applicati sui capelli, v. distico 154). L’acconciatura viene generalmente fatta dividendo i capelli in un certo numero di parti e acconciando ogni parte separatamente. Talvolta (v. ad esempio KuÂu 229 e NaÂÂ

140) la capigliatura femminile è detta aimpål (TL 579), termine che si riferisce ai cinque

modi in cui i capelli possono essere acconciati. Nadarajah (1969: 158-60) spiega il termine facendo riferimento alla definizione di Naccinårkki˜iyar nel suo commento al verso 2437 del C¥vakacintåmaˆi, in cui aimpål è detto riferirsi alle seguenti cinque

pettinature: kural “spirale” (TL 1011), a¬akam “ricciolo” (TL 168), koˆ ai “ciuffo” (TL

1145), pa˜iccai “nodo o ciuffo alla nuca” (TL 2573) e tuñcai “crocchia fermata nella

parte posteriore della testa” (TL 1957). Inoltre non è da escludere la possibilità che le donne creassero pettinature sempre nuove combinando fra loro due o più delle cinque acconciature sopra descritte.

I capelli della donna richiamano quelli di Íiva, con cui viene stabilito un paragone. Anche se la prima parte della descrizione (distici 11-13) si riferisce più specificamente al dio e la seconda (distici 14-16) alla donna, tuttavia il confronto si snoda in tutta la sezione e le caratteristiche della donna si intrecciano indistricabilmente a quelle di Íiva, fino all’effettiva esplicitazione del confronto nel secondo verso del distico 13 con la

frase nirantaramum cËla tara˜pØl tulakiy„ “splendendo come colui che tiene il tridente della distruzione”. Il confronto tra la donna e il dio Íiva è più volte ripreso nel corso del poema (v. anche distici 17, 29, 31, 89).

Nel documento Il bel matal (pagine 132-136)