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Non sappiamo con precisione quando l’uomo ha iniziato a mostrare un’attenzione particolare nei confronti di una “cultura del morire”42. Ciò ci resta sono i materiali scheletrici giacenti nei depositi archeologici e quando va bene qualche deposizione strutturata43. Tutto gioca alla scomparsa di quelle

41 Recchia 2009

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Martini (a cura di) 2006 e relativa bibliografia

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informazioni che ricadono sotto la categoria di “cultuale”. Citando Leroi- Gourhan44, “occorre attenersi ai fatti archeologici” per non cadere in ipotesi

eccessivamente fantasiose che vanno al di là del dato in sé. Sappiamo che un cranio poteva essere depositato all’interno di una struttura di pietre come a Ronde Du Barry, in Haute-Loire, oppure modellato con due dischi ossei all’interno delle orbite, come per Mas D’Azil, Midi-Pyrénées in Francia. Non conosciamo né i motivi di questi interventi né i rituali, altro non ci rimane che il dato archeologico e l’interpretazione. Uno dei metodi più usati per gran parte del Novecento è stato senza dubbio il comparativismo etnografico, vale a dire quel confronto basato sull’osservazione del comportamento dei popoli primitivi attuali, per cercare di spiegare le dinamiche di quello preistorico, soprattutto per quanto concerne l’ambito magico-rituale. I limiti di un confronto etnografico sono però molteplici, oltre che pericolosi ai fini dell’analisi del contesto. Confrontate popolazioni distanti tra loro migliaia di anni, infatti, non sempre è utile a una visione oggettiva d’insieme. In opposizione all’eccessiva utilizzazione del passato, Leroi-Gourhan45 poneva in risalto il cattivo uso di tale metodo e le forti limitazioni. Occorre dunque estrema cautela, ben sapendo che certe analogie che si osservano nel comportamento di popoli attuali, potrebbero essere solo un vago accenno di ciò che dovevano essere le pratiche rituali di centinaia di migliaia di anni prima. I limiti del confronto etnografico emergono anche dalla considerazione che varia e complessa è la storia dei popoli attuali46. E’ da evitare la trasposizione generalizzata e automatica, così come si considera ormai superata la posizione della novecentesca scuola storico-culturale che sosteneva la stretta coincidenza fra cicli culturali e le diverse epoche preistoriche. Occorre quindi usufruire dell’etnografia con le giuste precauzioni, sapendo che le analogie ottenute dal confronto potrebbero essere niente di più lontano da ciò che in realtà era il bagaglio rituale dell’uomo pleistocenico. Preso atto delle lacune conoscitive, un comparativismo con popoli attuali potrebbe, in un certo senso, fornirci un aiuto per cercare di, se non per far luce, almeno rischiarare qualche ombra che cela la ritualità preistorica. Sappiamo, ad esempio, cosa rappresenti un culto della reliquia in epoca storica, ma sfugge completamente per quanto concerne la fase preistorica, sempre che si possa realmente parlare di un vero

44 Leroi-Gourhan 1964

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Leroi-Gourhan 1975

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culto delle reliquie per queste epoche. I numerosi resti umani trattenuti nel mondo dei vivi potrebbero essere visti come una sorta di culto degli antenati, come prova tangibile della nuova “vita” del defunto, come potente talismano, trofeo di guerra o ancora come amuleto da indossare o da utilizzare in qualche rituale. Le ipotesi sono molteplici.

Il cranio di Mas D’Azil47 con placchette vertebrali di cervo all’interno delle orbite, ad esempio, non potrebbe forse lontanamente ricordare i crani manipolati del Neolitico del Vicino Oriente? L’usanza di modificare i crani, ossia di modellare con creta le sembianze del volto umano sul cranio e di rimpiazzare gli occhi con conchiglie o pezzetti di ossa, si diffuse a patire dal Natufiano nella costa Levantina e nel Vicino Oriente48. Nel Pacifico della Melanesia questa pratica è sopravvissuta fino ai giorni nostri come culto degli antenati.

Diversi resti ossei del Paleolitico superiore presentano fori deliberati di sospensione, erano destinati a essere indossati o appesi come i vari denti forati, la mandibola di Tres Feres49 o il parietale di Veyrier50? Radcliffe Brown51, trattando delle pratiche funerarie presso il popolo degli Andamani nell’Oceano Indiano, ci dice che utilizzano le ossa dei propri morti come amuleti da portare con sé. Dopo la prima inumazione, gli Andamani riesumano le ossa e conservavano solo mandibole e crani della famiglia del defunto. Successivamente, tali resti venivano forati per essere indossati dai parenti più stretti. Le altre parti del corpo, continua l’autore, non sembrano esser stati oggetto di alcuna attenzione speciale e venivano spezzate o perdute. Usanze simili, si osservano anche presso certe tribù australiane che espongono i cadaveri su piattaforme e solo dopo la putrefazione della carne, conservano la mandibola per essere portata al collo dai parenti del defunto. Tra i Fang52 si registrano pratiche simili: il cranio del defunto è prelevato dopo una scarnificazione attiva o naturale e successivamente inserito in supporti lignei che ne riproducevano il corpo. Sappiamo che un interesse verso il cranio era assai diffuso anche in varie civiltà storiche, se ne conserva traccia tra i Celti ed i Germani che talvolta utilizzavano la testa del nemico, o ancora tra le civiltà mesoamericane come i

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Meroc 1961, Pettitt 2011

48 Rubio de Miguel 2004 e soprattutto Croucher 2012 che tratta ampiamente del fenomeno 49 Begouen 1937

50 Lagatola 1920 51

Radcliffe Brown 1952 e 1964

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Nauathl e gli Aztechi53, e ancora oggi è in uso la pratica della ‘riduzione del cranio’ fra gli Shuar, la più grande e numerosa tribù dell’Amazzonia, oltre alla decapitazione rituale fra alcune popolazioni del Borneo. In India i Kapakala, letteralmente “portatori del teschio”, erano asceti che ricevevano l’elemosina sotto forma di cibo solo dentro un cranio umano. Si ritrovano anche veri e propri santuari dedicati alla pratica di manipolazione del cranio, è il caso del santuario gallico pre-romano di Gournay-Sur-Aronde, Picardie, Francia, con all’interno vari crani con segni di decapitazione e scarnificazione. Nell’analisi di Boulestin54, si dimostra come in realtà le tracce riportate sul campione osteologico di epoca gallica, siano assolutamente simili a quelle riscontrate nei crani di tanti siti preistorici. Interessante potrebbe essere anche l’aspetto deposizionale dei defunti nel Paleolitico. Sappiamo, infatti, che non tutti i morti erano destinati alla sepoltura, alcuni subivano una deposizione temporanea probabilmente in attesa che il corpo si disarticolasse naturalmente. Certe pratiche si ritrovano ancora oggi: in Tibet i defunti venivano lasciati insepolti sulle montagne55, per poi aspettare che gli uccelli rapaci corrompessero la carne disarticolando lo scheletro56. Infine, vorrei citare le “Torri del silenzio” persiane, che ancora oggi sopravvivono in Iran e in India, torrette lignee dove si collocavano i morti in attesa della disarticolazione naturale. In definitiva, è indubbio l’interesse intrinseco che le ossa umane da sempre rivestono in tutte le epoche, specialmente se consideriamo tutte quelle pratiche attorno al cranio dei defunti. Si potrebbe anche notare l’esistenza di un filo conduttore tra le varie fasi cronologiche che confermerebbe il ripetersi di una certa ritualità nel tempo, almeno dal punto di vista ipotetico. In ogni caso, onde evitare la pura speculazione, occorre concentrarci sul dato archeologico tangibile e conferire il giusto peso al metodo della comparazione.

53 Vedi Chacon e Dye 2007 e relativa bibliografia 54 Boulestin et al. 1996

55

Le cosiddette “Sky burials”

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Figura 5: esempio etnografico del trattamento speciale dei crani presso la popolazione dei Fang, Africa centrale.

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III - TAFONOMIA

3.1 Resti umani disarticolati

La morte e il decadimento fisico sono processi inevitabili. Oltre alla fine dell’esistenza biologica, ci forniscono la chiave di lettura per comprendere i meccanismi funerari in relazione alla struttura simbolica e culturale della società preistorica. Le pratiche funerarie si intrecciano inevitabilmente con la società umana. Accanto a una vasta serie di sepolture di corpi più o meno completi, si segnalano numerosi resti umani sparsi nei diversi contesti culturali, all’interno di tombe e insediamenti. Ossa umane disarticolate possono quindi ritrovarsi sotto forma di elementi isolati, frammentari o ammucchiati in depositi di più individui. Le interpretazioni riguardo questi contesti sono molto suggestive, sebbene per molto tempo si è continuato a non considerare la storia tafonomica dei resti e a reputare la morte come qualcosa di estremamente statico. Morte e sepoltura rappresentano un processo socialmente dinamico e non statico. Negli ultimi anni si registra però un cambio di tendenza in quanto il riconoscimento che le ossa disarticolate possono darci, sotto il profilo delle pratiche funerarie, sta diventando luogo sempre più comune. Le ossa umane disarticolate posso dunque rappresentare il prodotto di una serie di diverse pratiche funerarie che coinvolgevano un certo numero di manipolazioni intorno al cadavere1. Prima della disarticolazione, infatti, i corpi potevano essere stati esposti o sepolti in terra, e dopo il periodo necessario alla scheletrizzazione, i resti sono stati esumati da agenti tafonomici naturali e/o culturali. Nonostante la presenza di un certo numero di resti umani disarticolati da contesti preistorici, fino a qualche decennio fa non sono mai stati avanzati grandi tentativi per comprendere in che modo e perché questi resti furono disarticolati. Oltre ad alterazioni di tipo naturale, i corpi potevano essere manipolati, gli scheletri ricollocati e le ossa umane selezionate per deposizioni secondarie2. I resti umani così estrapolati dai

1 Gray Jones 2011, Wallduck 2013

2 Rimozioni deliberate di ossa selezionate sono pratiche identificate in molti siti della preistoria

europea. Evidenze simili si ritrovano anche nel nord Africa, ad esempio, nel sito Iberomauritiano di Grotte de Pigeons (Taforalt, Marocco), la successiva sepoltura di alcuni corpi fu accompagnata da un’incorporazione intenzionale di ossa disarticolate da altri contesti all’interno della medesima

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contesti di origine, potevano dunque essere incorporati nel mondo dei vivi o nuovamente depositate in quello dei morti. Così come tafonomia ci permette di capire quali processi, naturali o culturali, hanno originato un deposito, talvolta è possibile ricostruire anche la “storia” dei resti umani isolati. Non di rado, infine, si segnalano evidenze di segni di taglio antropico realizzati sul cadavere fresco per disarticolare i distretti scheletrici.