La disciplina dell’inibitoria introdotta dal codice del 1940 non ebbe vita lunga.
Invero, profonde riflessioni di natura sostanziale e processuale, unite alla necessità di porre rimedio ad esigenze prettamente pratiche, determinarono un progressivo ripensamento del problema dell’esecuzione provvisoria della sentenza e (necessariamente anche) dell’inibitoria.
Da un lato, infatti, successivamente all’entrata in vigore del codice, il legislatore dovette confrontarsi (già illo tempore) con il progressivo aumentare dei tempi di definizione del processo civile (derivanti anche dalla proposizione di appelli pretestuosi, con il solo e unico fine di “ritardare” il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado e, quindi, di escludere
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l’efficacia esecutività di quest’ultima)111, con la conseguenza che tutti i governi che si succedettero dal dopoguerra in avanti tentarono di rispondere a siffatta esigenza attraverso, inter alia, l'anticipazione di taluni effetti del sentenza112.
Dall’altro, è pur vero che un decisivo impulso alla modifica della disciplina in esame derivò anche dalla meritevolezza degli interessi in gioco in determinate controversie, che spinse il legislatore a rafforzare la loro tutela (anche) da un punto di vista processuale.
Di talché, prima della definitiva riforma del 1990, il panorama processuale fu costellato da una serie di interventi normativi, per lo più di carattere settoriale, volti ad attribuire esecutività provvisoria ipso iure alla sentenza di primo grado.
Tra questi113, quello che spiccò maggiormente fu senz’altro la riforma del rito del lavoro, avvenuta con la legge 11 agosto 1973, n. 533114: per quel che
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Numerosi autori hanno sottolineato che fu proprio la necessità di porre fine a giudizi di impugnazione meramente dilatori uno degli aspetti che condusse alla riforma del 1990. In tal senso, cfr., ex multis, P. COMOGLIO – C. FERRI – M. TARUFFO, Lezioni sul processo
civile, Padova, 2005, 633; C.CONSOLO, Commentario alla riforma del processo civile, in C. CONSOLO –F.P.LUISO –B.SASSANI, Milano, 1996, 260. Sul punto, va anche ricordato che il problema della eccessiva durata dei processi civili aveva causato numerose condanne dello Stato italiano da parte della Corte europea per i diritti dell'uomo, per la violazione dell'art. 6, comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che sancisce la necessaria osservanza di un termine ragionevole di definizione dei processi.
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In tal senso, cfr. F.RUSSO, Inibitoria processuale e la sua reclamabilità: problemi vecchi
(e nuovi?) in un travaglio normativo di quasi settant’anni, in Gius. proc. civ., 2009, 592 –
593. In proposito, si richiamano i dati forniti da G. MONTELEONE, Manuale di diritto
processuale civile, 4a ed., I, Padova, 2007, 331 e nota 4, ove si precisa, in via
esemplificativa, che i tempi per la definizione del giudizio di primo grado davanti al Tribunale passarono dai quattrocentocinquanta giorni del 1947 ai circa tre anni del 1974.
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Non è questa la sede per ripercorrere la cronologia delle novelle che precedettero la riforma del 1990. Tuttavia, a titolo esemplificativo, si può richiamare la legge n. 300 del 1970 (cd. “Statuto dei lavoratori”), che previde l’immediata esecutività delle sentenze dichiarative dell’illegittimità del licenziamento, o anche l’art. 5-bis del D.L. 23 dicembre 1976, n. 857, che rese provvisoriamente esecutive le sentenze di condanna al pagamento delle indennità dovute in conseguenza di incidenti stradali. In ogni caso, per questi ed altri riferimenti, si rinvia a G.IMPAGNATIELLO, La provvisoria esecuzione, cit., 171 ss.
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In linea generale, per comprendere meglio le ragioni sottese alla riforma del rito del lavoro nel suo complesso, vanno tenuti in considerazione due aspetti: da una parte, il tempo di definizione delle liti lavoristiche, che nel biennio 1967-1968 registravano una durata media di 824 e 634 giorni rispettivamente per il primo e il secondo grado di giudizio;
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interessa, il nuovo art. 431 c.p.c. attribuì esecutività provvisoria alle sentenze “che pronunciano condanna in favore del lavoratore per crediti derivante dai
rapporti di cui all’art. 409 c.p.c.” e a quelle emesse nelle controversie
previdenziali e assistenziali.
Ebbene, proprio la riforma del processo del lavoro fu esemplificativa della progressiva modifica dell’atteggiamento del legislatore al problema dell’esecuzione provvisoria e dell’inibitoria.
Per un verso, è indubbiamente vero che la previsione dell’esecutorietà provvisoria secundum eventum litis della sentenza di primo grado costituì una risposta all’esigenza di rafforzare la tutela della parte economicamente più debole del rapporto di lavoro115.
Per l’altro, non può tuttavia negarsi che prima della suddetta riforma si manifestò in alcuni autori una certa sfiducia nei confronti della struttura del processo civile designata dal legislatore del 1940: la causa della sempre più ampia dilatazione dei tempi della giustizia civile venne infatti individuata nella mancata centralità del giudizio di primo grado e nell’erronea “glorificazione dei giudici di gravame”116; da qui la considerazione per cui l’attribuzione dell’esecutorietà provvisoria ex lege alla sentenza di primo grado potesse costituire un efficace strumento per la rivalutazione del giudizio di prime cure.
dall’altra, il mancato adeguamento della normativa processuale agli evidenti, per non dire dirompenti, progressi ottenuti dai lavoratori a livello sostanziale (con la disciplina sui licenziamenti individuali introdotta dalla legge 15 luglio 1966, n. 604 e con la legge 20 maggio 1970, n 300, cd. Statuto dei diritti del lavoratore).
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Sulla considerazione che fu questo il principale criterio ispiratore del nuovo art. 431 c.p.c., cfr. F. CARPI, La provvisoria esecutorietà, cit., 198, che esclude anche i dubbi di legittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.; L. MONTESANO –R.VACCARELLA, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, 264 ss.; G.TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1999, 264 ss.
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In particolare, cfr. M. CAPPELLETTI, Parere iconoclastico sulla riforma del processo
civile italiano, in Giur. it., 1969, IV, c. 81 ss., spec. c. 84. In generale, sulle ragioni sottese
alla riforma del processo del lavoro e, in particolare, all’introduzione dell’art. 431 c.p.c., anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, cfr. G. IMPAGNATIELLO, La provvisoria
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Il dado era quindi ormai tratto: un rito (sì speciale ma) a cognizione piena era stato completamente riscritto dai conditores della riforma in un’ottica completamente diversa dalla precedente117 e, in tal senso, era stato per la prima volta scardinato il generale principio dell’effetto sospensivo dell’appello.
I tempi sembravano pertanto maturi per un’ampia riflessione anche sul processo ordinario di cognizione.