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Come ha affermato Iachello, gli anni Settanta rappresentarono «nella vita dello stato unitario italiano una fase di revisione dei criteri e dei valori che erano stati alla base dell‟unificazione».104 Non venivano per questo messi in discussione i principi «liberali»,

base ideologica della classe politica che aveva condotto il Risorgimento ma, ora che il processo unitario era compiuto territorialmente, si poneva la necessità di un confronto con nuove problematiche dell‟Italia ormai unita, relative ai cambiati equilibri politici e sociali.

La vittoria della Sinistra meridionale del 1874 aveva costituito un momento traumatico per la Destra, poiché valeva quale concreto responso del malessere generale e della disillusione maturati in quei primi quindici anni di vita unitaria presso tutte le classi isolane nei confronto del governo alla guida del Paese.

Tuttavia la politica – nonostante avesse compreso «il carattere protestatario di quel voto»105 – interpretò quanto accaduto secondo la logica della conservazione del potere;

gridando al rischio del sovversivismo, invocò un nuovo ricorso a poteri eccezionali: si sceglieva di non cogliere l‟occasione per avviare un‟analisi di ciò che stava accadendo e una conseguente riflessione sull‟opportunità di abbracciare altre scelte rispetto ai provvedimenti fino a quel momento presi relativamente alla gestione delle province più difficili (per condizioni sociali, culturali e politiche); la Destra, piuttosto, continuò ad

102 Cfr. G. Giarrizzo, L‟Ottocento: il secolo grande, in La Sicilia moderna dal Vespro al nostro tempo, Firenze, Le

Monnier, 2004, p. 104 e sgg.

103 G. Giarrizzo, Introduzione a La Sicilia, cit., p. XXV.

104 E. Iachello, Stato unitario e disarmonie regionali, Napoli, Guida editori, 1987, p. 7.

105 M. Corselli, Un esempio di ideologismo nella questione meridionale: l‟inchiesta di Franchetti e Sonnino, in

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adottare misure che, in quanto percepite come prevaricatorie, le alienarono definitivamente le simpatie del Mezzogiorno.

Atteggiamento diverso fu tenuto dalla pubblicistica politica e culturale. Gli studiosi di formazione liberale manifestavano un‟esigenza diffusa di conoscenza dello stato di fatto venutosi a creare dopo l‟Unità, che precedesse l‟avvio di qualsiasi trasformazione; tale conoscenza doveva essere legata alla prospettiva della costruzione di un nuovo assetto sociale, che s‟integrasse profondamente con la realtà del Paese. 106

Essi avvertirono l‟insufficienza della politica adottata dalla Destra, che non stava approfondendo lo studio della reale situazione e neanche avviando una politica di conciliazione nazionale; e ciò non si sarebbe raggiunto neanche attraverso le inchieste parlamentari, poiché esse stentavano a collegarsi realmente con la realtà che pure avrebbero voluto esaminare e capire.

Era necessario – secondo i riformisti liberali – che in Sicilia si consolidassero le istituzioni nazionali ispirandole a principi liberali: così, attraverso «una politica di equilibrio e di cauto riformismo»,107 si sarebbe allargato il consenso sociale. «Era questa

una posizione illuminata che rifletteva il senso di preoccupazione per una politica miope, ma, nello stesso tempo, la fiducia nella bontà delle istituzioni, del metodo e dello spirito liberale».108

Alla base di tale convinzione era l‟idea che esistesse una stretta connessione tra studio e problema109 e che, attraverso la pubblicizzazione del problema, si dovesse giungere,

consequenzialmente, a una presa d‟atto delle classi dirigenti, per il cui giusto indirizzamento bisognava perciò lavorare. In questo quadro vanno collocate – perché se ne colga la corretta prospettiva – le opere più rilevanti tra quelle realizzate con questi intenti, cioè le Lettere meridionali di Pasquale Villari, del 1875, e i risultati dell‟inchiesta privata condotta in Sicilia, nel 1876, da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino.

Non erano certo mancate prima determinate riflessioni (specie in connessione con momenti di crisi molto forte), ma erano esse troppo viziate dalle impellenze del momento e soprattutto dall‟urgenza di giungere a un compimento territoriale effettivo. Solo dopo questa fase si posero le questioni relative all‟amministrazione, ai compiti che lo stato doveva svolgere nella società e alle modalità stesse attraverso cui farlo. Di fatto

106 Cfr. M.A. Fabiano, Le inchieste sociali del parlamento tra 1860 e il 1911, cit., p. 241.

107 M. Corselli, Un esempio di ideologismo nella questione meridionale: l‟inchiesta di Franchetti e Sonnino, cit., p. 19. 108 Ibidem.

109 Era questo quanto sosteneva soprattutto Pasquale Villari, per il quale era inevitabile che lo studio

illuminasse i problemi del presente e, addirittura, agisse in funzione del presente (cfr. M.L. Salvadori, Il

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si era «incrina[to] l‟ottimismo […] e si rendeva necessario un adeguamento degli strumenti culturali propri della classe dirigente».110

Fu Pasquale Villari a farsi iniziatore di una corrente, culturale e politica, che pose, al centro della propria riflessione e della politica nazionale, in un momento storicamente molto delicato, il Mezzogiorno, quale realtà in cui, nel modo più manifesto, emergevano i limiti del processo di unificazione nazionale; fu lui a segnare la nascita di quel meridionalismo liberale che volse la propria attenzione al forte malessere sociale, vissuto dalle masse, per il quale era necessario si cercassero – da una prospettiva conservatrice e per mano della borghesia illuminata, postasi quale classe liberatrice – soluzioni che portassero a un rafforzamento della nuova nazione, con l‟allargamento del consenso delle masse contadine.

Tale rafforzamento si sarebbe ottenuto non per mezzo di metodi repressivi,di cui era stata già dimostrata l‟inutilità,111 ma piuttosto attraverso rimedi preventivi,112 attraverso

riforme sociali (secondo i modelli tedesco e inglese), con cui si sarebbe avuta una società più ordinata e istruita113 e si sarebbe soprattutto allontanato lo spettro del socialismo,114

da lui definito come «di certo la più pericolosa malattia delle società moderne»,115 in

quanto non rispondente ai valori espressi dalla borghesia.

Il timore del socialismo era tornato ad aleggiare – presso le classi conservatrici – a partire dall‟esperienza della Comune di Parigi del ‟70-71: fu quello il motore che fece prendere piena consapevolezza, a uomini come Villari, Franchetti e Sonnino, dell‟esistenza di una questione sociale. Questa presa d‟atto li spinse «a indagare con maggiore profondità i problemi non risolti della società nazionale» e a far sentire loro il dovere di «aprire gli occhi della classe dirigente, con continui ammonimenti, fondati ora sulla solidarietà umana ora sul timore del pericolo che sarebbe potuto venire […]

110 E. Iachello, Stato unitario e disarmonie regionali, cit., p. 10.

111 In questo senso Villari poteva dire che «In politica siamo stati buoni chirurghi e pessimi medici» (P.

Villari, Il Brigantaggio in Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, a c. di L. Chiti, Torino, Loescher, 1971, p. 110. A questa edizione faremo riferimento).

112 Cfr. Villari, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, a c. di L. Chiti, Torino,

Loescher, 1971, p. 56 e sgg; p. 98 e sgg.; p. 110 e sgg.

113 Nella Lettera sulla Mafia siciliana, Villari ammetteva la difficoltà di coglierne la natura, il perché del

suo esistere e la stessa via da seguire per eliminare quel male, ma – secondo il giudizio espresso da un inglese – un dato certo era che «i provvedimenti eccezionali, farebbero più male che bene. Il rimedio stava nel tempo; nelle opere pubbliche, cui la Sicilia aveva diritto, e finalmente nelle scuole, l‟eterna panacea di tutti i mali» (P. Villari, La Mafia in Le lettere meridionali, cit., pp. 79-80).

114 Cfr. M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno, cit., pp. 34-7 e F. Barbagallo, Introduzione a P. Villari, Le

lettere meridionali ed altri scritto sulla questione sociale in Italia, Napoli, Guida Editori, 1979, p. 5 e sgg.

115 P. Villari, Prefazione alla prima edizione del 1878 de Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale

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dall‟esplosione del malcontento popolare».116 Del resto, alla borghesia – il cui dominio

doveva fondarsi «sulla forza materiale e sulla forza morale, sulla propria cultura e sulla giustizia»117 – spettava il ruolo di guida di quella società, rispetto alla quale, specie per la

parte più in difficoltà, si sarebbe dovuto assumere un atteggiamento certamente diverso rispetto al passato, di maggiore interesse e attenzione (spesso sfociante, tuttavia, in atteggiamenti paternalistici).

I fatti parigini portarono a maturazione la sensibilità sociale di Villari, che da lì cominciò un‟instancabile attività di pubblicista sociale, specie con le Lettere inviate, nel 1875, a Giacomo Dina, il direttore del giornale moderato di Torino l‟«Opinione», poi pubblicate in volume nel ‟78.

In quest‟opera, come nelle successive, Villari manteneva costante il suo interesse verso la condizione delle plebi e la questione sociale, per i quali problemi faceva ricorso a un‟osservazione cruda della realtà, ritenendo imprescindibile la conoscenza profonda, e non filtrata, dei mali del Paese.118

Nella prima Lettera inviata a Dina, ad esempio, Villari dichiarava di avere raccolto «notizie intorno allo stato delle classi più povere, specialmente nelle province meridionali»,119 dove a dominare erano i mali della camorra, del brigantaggio e della

mafia, frutto dell‟oppressione lungamente esercitata sulla società. Compito dello studioso e della classe politica doveva essere capire dove aveva origine quell‟oppressione: solo lo studio del male poteva portare all‟individuazione dei rimedi più opportuni.

Nell‟osservazione dello stato delle classi umili risiedeva l‟interrogativo se, dal 1860 in poi, la loro condizione fosse peggiorata. Riteneva Villari non fosse in ogni caso possibile attribuire ogni responsabilità ad «alcuni uomini buoni e generosi» dal momento che, «quando una società ha preso il suo indirizzo, non è più in [loro] potere […] il fermarla o deviarla dal pericoloso cammino».120 Sembra del tutto evidente che qui Villari si

riferisse agli uomini di quella Destra a cui egli stesso apparteneva, verso cui mostrava solidarietà: andavano ridimensionate le responsabilità del governo di fronte a forze maggiori, a ostilità e diffidenza radicata. Non era del resto «raro il caso di vedere quegli

116 M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno, cit., p. 41.

117 P. Villari, Prefazione alla prima edizione del 1878 de Le lettere meridionali, cit., p. 4.

118In questo approccio metodologico soprattutto si nota il clima in cui l‟opera sua e anche quella di

Franchetti e Sonnino nacquero: quello positivistico, che presupponeva il ricorso a indagini condotte di prima mano.

119 P. Villari, La Camorra, in Le lettere meridionali, cit., p. 40. 120 P. Villari, Il Brigantaggio in Le lettere meridionali, cit., p. 111.

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stessi [i contadini], in favore dei quali si [sarebbe voluto] operare, per diffidenza o per ignoranza reagire, ed anche far causa comune coi loro tiranni, combattere quelli che [avrebbero voluto] essere i loro benefattori».121

Nonostante l‟attenzione e l‟interesse mostrati verso le classi più umili, obiettivo dei suoi scritti rimanevano i borghesi conservatori, a cui si rivolgeva perché si aprissero a fermenti innovatori: «Villari vuole riformare per conservare, cosciente che la storia ha dei passi obbligati […]; e vuole che all‟appuntamento ci sia la borghesia e non il proletariato nelle mani dei socialisti».122 La borghesia, fattasi garante dei valori civili,

doveva cercare di attirare nell‟ambito della legalità le forze che potevano tendere alla sovversione.

Alla sovversione, infatti, Villari riteneva si sarebbe prima o poi potuti arrivare, quando cioè quell‟«incanto», fatto della sottomissione del contadino al proprietario, si fosse rotto; allora, «orde di schiavi» si sarebbero trasformate in «orde di cannibali».123

Bisognava stare cauti e certamente non si dovevano temere le conseguenze del ragionare liberamente intorno a quei problemi, dal momento che i diretti interessati erano analfabeti e, per questo, non si correva il rischio si risvegliassero le loro coscienze, con tutte le conseguenze negative che ciò avrebbe potuto comportare per il predomino borghese.

Villari riteneva pertanto ancora lontani gli scontri di classe nel 1875. Toni più concitati avrebbe adottato nel 1883 quando, recensendo un libro di Turiello – che aveva condotto una propria riflessione sulle condizioni del Sud – aveva con lui rilevato il generale malcontento che travagliava il Paese. In questo contesto in cui la Sinistra era ormai una piena e forte realtà e prendevano sempre più piede il partito radicale e socialista, che ricevevano esempi da tutta Europa, era forte il senso del pericolo a cui poteva andare incontro l‟Italia, nel momento in cui «i nostri contadini, che sono pure la grande maggioranza del paese, fatti consapevoli della loro forza dalla istruzione obbligatoria, dalla nuova legge elettorale e dai tribuni, si [sarebbero organizzati] per insorgere».124

Preoccupato dell‟aspetto sociale e politico, lo storico non condusse un‟indagine del mondo della produzione, limitandosi, fondamentalmente, a rilevare ancora la centralità,

121 Ivi, p. 112.

122 M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno, cit., p. 52. 123 P. Villari, I rimedii, in Le lettere meridionali, cit., p. 132.

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per il Paese, della produzione agricola,125 non tenendo nella giusta considerazione –

poiché non ne comprendeva il valore – lo sviluppo capitalistico e dell‟industrializzazione che stava coinvolgendo, prevalentemente, le regioni settentrionali.126

Molta parte della responsabilità dell‟esistenza della questione sociale veniva ricondotta al perdurare dei latifondi, che erano alla base della miseria dei contadini. Una soluzione veniva individuata – in questo subendo, Villari, l‟impostazione di Franchetti e Sonnino – nella realizzazione del «contratto di mezzerìa»,127 secondo il modello toscano,

quale unica risposta che potesse contrastare il collettivismo marxista e, insieme e soprattutto, rafforzare l‟ordinamento borghese.

L‟opera di Villari è pervasa da una vibrante protesta che, tuttavia, trovava nel moralismo il suo sprone ma anche il suo limite; del tutto insufficienti appaiono soprattutto le sue proposte, che rimangono generiche e astratte.128

Rimaneva comunque il merito di Villari quello di essere stato un sollecitatore e organizzatore culturale, che sentì come non più rimandabile una riflessione che cercasse di porre rimedio alla profonda frattura esistente tra istituzioni politiche e strutture sociali.