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Vincoli temporali e le strategie contro l’esclusione

L’uso del tempo consente di concentrare l’attenzione su un aspetto del

disagio e della deprivazione che non si esaurisce semplicemente nei classici

indicatori monetari della povertà materiale ma consente di allargare lo sguardo

anche su quegli aspetti che vanno ad incidere sulla vulnerabilità relazionale e

sulla salute delle donne. Come diverse ricerche hanno messo in evidenza [Paci

1993], la struttura del bilancio del tempo, ossia la quantità di tempo dedicata alle

diverse attività nell’arco della giornata è un elemento in base al quale è possibile

definire la posizione degli individui nel sistema della stratificazione sociale. Non

è tanto la quantità di tempo libero a disposizione a fare la differenza, bensì la

possibilità di autodeterminare e organizzare quest’ultimo.

Come sostiene Paci al fondo della scala sociale, il tempo libero non è più

scarso bensì più residuale. La residualità per le donne è ancora più accentuata,

assorbendo il lavoro dentro e fuori casa la gran parte del tempo di cui esse

dispongono. Così ci racconta Elena:

Per la fine del mese attacco con un lavoro per una ditta di pulizie dalle sette alle nove e mezza di sera, perché la mattina dal lunedì al sabato momentaneamente sono impegnata a fare le pulizie dalle signore e quindi dovrei attaccare dalle cinque di mattina e lasciare all’una e secondo me poi non ce la faccio ad andare dalle signore. Io ce la metto tutta ma le forze sono quelle, si comincia alle cinque e ritorno all’una e mezza, poi il pomeriggio libero e alle sette torno a lavorare. Quando ho il pomeriggio libero è a posto perché ho tutto il tempo di fare qualcosa in casa, lascio cucinato, e poi non ho il pensiero che devo mettermi a cucinare alle dieci di sera se poi la mattina devo uscire di nuovo presto, cioè hai capito, secondo me è un po’ dura, non penso di farcela, però io ci provo. (Elena)

Il tempo, o meglio ancora la possibilità di disporne con un certo margine di

libertà, costituisce una risorsa determinante per consentire di instaurare

relazioni, dedicarsi alla cura di sé. È rispetto a questa risorsa lo svantaggio delle

donne è più forte, ma anche più plastica la loro capacità di fronteggiamento

quando questa risorsa diventa scarsa.

Al capannone mi facevo lasciare il lavoro e lo facevo di notte, andavo dalle tre alle sette, cercavo di…e più il lavoro delle signore e all’ufficio, insomma mi sono organizzata in uno modo che magari alle due di notte per vedere casa pulita lavavo i vetri, stendevo panni alle due di notte, stiravo alle due di notte, alle due di notte lavavo i lampadari, insomma ehhh è stata una vita davvero sacrificata. In attesa del bimbo piccolo nonostante la maternità io dovevo stare a casa, no!invece no! io andavo negli uffici o dalle signore, pensa che poggiavo la pancia sulle scrivanie, per fare il corredino del piccolo, per i dolci che dovevo prendere quando nasceva il piccolo, sono stata una donna che non ho potuto morire, ho dovuto sempre darmi da fare (Mirella)

L’ottica di lungo periodo consente di mettere in evidenza gli ambiti e le

dinamiche che si pongono alla radice dei percorsi di disagio e di impoverimento

grazie alla possibilità che essa ci offre di incrociare i vissuti delle donne che ci

parlano con quelli dei membri della famiglia d’origine, di connettere la loro storia

con quella delle loro madri. Nell’esempio riportato, Rosa, penultima di sette figli

racconta e ricorda a se stessa la sua infanzia, la deprivazione, la vulnerabilità

relazionale, restituendoci così, oltre al suo passato, quello della sua famiglia:

Mamma faceva i servizi dalle signore, orari assurdi, dalle quattro di mattina alle otto alla Sip, poi alle otto andava dalle signore, rientrava, cucinava e poi usciva di nuovo per andare a lavorare con questa ditta e quindi rientrava verso le sette, le sette e mezza di sera, cucina e assisti sette figli, insomma è stata sbattuta pure lei, è stata sbattuta pure lei come donna, ce ne vuole a tenere un famiglione e ad andare a lavorare, ha avuto due crisi di pazzia, magari poi l’esaurimento si fa sentire, e quindi magari chi se l’ha goduto un pochino in più è chi era più grande, magari io che ne avevo bisogno quando ero piccola, mamma per me non c’era mai (---) forse i due esaurimenti che ha avuto, magari poi si era pure stancata (--) anche se adesso ha settanta anni e li porta benissimo (Rosa)

Nonostante il carico fisico e psicologico per il lavoro dentro e fuori casa

dalla completa dedizione ai figli e alla cura della casa si trae una fonte

importante per l’autostima personale, dal lavoro domestico e da tutte le piccole

grandi attività per il soddisfacimento delle esigenze quotidiane della famiglia

esse traggono senso e significato per loro storia.

non mi piace andare in giro, sono una ragazza che pensa alla casa, ai figli, non mi piace andare in giro o in pizzeria, non sono una ragazza che (---) non mi piace! Preferisco stare dentro, giusto una passeggiata con i bambini, altre cose no, non mi piace (Elena)

Per i figli il tempo libero resta, ne resta tempo, anche andando a letto alle due alle tre di notte il tempo per i figli resta. Per me al primo posto il tempo ai figli, non da dedicare a me o all’amica. Prima per me la famiglia era sacra, oggi come oggi sono i figli (Rosa)

Quell’ insieme di attività che definiscono il lavoro di cura svolto dalle

donne nella famiglia identificato con l’immagine del patchwork [Balbo 1982]

descrive anche l’esperienza delle nostre intervistate. Quando le risorse da

combinare sono più scarse il lavoro di patchwork non è meno articolato, anzi

tutt’altro. La composizione delle risorse risulta non solo più complessa, ma

richiede più fatica, strumenti e capacità differenti, creatività e immaginazione che

rendono il disegno complessivo non meno bello ed «equilibrato». Il «mettere

insieme», il «dare ordine e senso» alla esperienza quotidiana che connotano il

lavoro femminile di cura in condizioni di deprivazione economica e relazionale,

richiedono capacità di fronteggiamento e strategie più ampie. Il lavoro di cura

non si esaurisce in una serie di attività materiali in casa e per la casa, e/o di tipo

emozionale e affettivo. Esso è un gioco dell’intelligenza necessario per

rispondere alla complessità quotidiana e che assume un’importanza «concreta»

sia per chi da, sia per chi riceve cura [Piazza 1999].

È il caso di Mirella che racconta come la capacità di far fronte alle

esigenze quotidiane «nonostante i momenti duri» costituisca per lei motivo di

orgoglio e la base per definirsi e riconoscersi come «una brava donna».

Mantenere la casa e la famiglia, appagare desideri, combinare strategie e risorse

per Mirella significa resistere, garantire continuità alla propria esistenza e a

quella degli altri intorno a sé, significa impedire che i problemi e le difficoltà

trascinino via la famiglia, significa porre in essere una strategia contro quella

perdita del Sé sperimentata nei momenti più bui:

Praticamente in casa non manca niente però mi do da fare, ai miei figli non è mai mancato niente nemmeno quando mio marito ha avuto quei problemi che è stato in casa ha perso il lavoro che non trovava lavoro che dovevo lavorare io e sai che facevo? andavo dalle suore e le suore mi davano le robe belle nuove, in cui io tornavo a casa, le lavavo, le stiravo e i mie figli uscivano con jeans Levis, con tute Diadora, con scarpe della Nike, però non erano loro ma nessuno lo sapeva /((sorride))/ ecco sono stata una brava donna solo per questo! mio marito andava lavato, stirato, sistemato fuori, anche io andavo ben sistemata, nessuno si

accorgeva del disagio che c’era in famiglia perché sono stata una donna che non volevo che il quartiere sapesse o che vedesse, ai miei figli non gli è mancato niente però ho lavorato di giorno e di notte che adesso mi sento vecchia, ormai consumata, mi sento stanca (Mirella)

L’estratto di intervista appena riportato mette in evidenza il significato più

profondo del lavoro di cura che non si esaurisce nello svolgimento di semplici

attività manuali, ma che è indirizzato a «dare forma al vivere, a costruire un

ambiance (…)un’ambientazione per far vivere bene» Piazza [1999: 84-85]

L’essenza del lavoro di cura risiede nell’attivazione di capacità di communion,

ovvero in un orientamento all’azione fondato sulla capacità di ascolto,

sull’attenzione all’Altro, sulla condivisione e l’empatia, capacità che si distaccano

dall’ agire di tipo solo strumentale che contraddistingue l’agency. Come scrive

Johnson [1995] «il pensiero materno si distacca dallo strumentalismo e dallo

scientismo perché nel salvaguardare una fragile vita enfatizza il sostenere

rispetto all’acquisire. Il modo di pensare materno comporta la pratica dell’umiltà

in risposta al riconoscimento dei limiti e dell’imprevedibilità; richiede anche una

costante buona disposizione o buon umore di fronte al continuare della vita e alla

necessità di andare avanti (…)». Il carico per sostenere i bisogni di cura non si

distribuisce in modo uniforme nella vita familiare delle nostre intervistate. Esso

può essere diverso a seconda dei diversi ruoli assunti. In proposito le storie

raccolte ci dicono di un sovraccarico che si aggancia soprattutto al passato nella

famiglia di origine delle donne con cui abbiamo dialogato, in corrispondenza del

loro ruolo di figlie e/o sorelle in contesti familiari profondamente vulnerati dalla

povertà economica e relazionale, lungo un cammino di soggezione ripercorso in

alcuni casi attraverso il rapporto con il partner.

Per Patrizia, per esempio è la perdita del lavoro conseguente alla sua

gravidanza e attribuibile non certo a quest’ultima ma ad un contesto lavorativo e

istituzionale che disconosce i diritti soggettivi delle donne a scatenare la crisi. In

altri casi è l’assenza di una rete relazionale di supporto e sostegno vicina per

affrontare i compiti di cura, a partire dalla mancata condivisione con il proprio

partner, in altri è la fatica per lo svolgimento di lavori duri e malpagati. Più di

frequente è una combinazione di tutti questi fattori insieme.

Le nostre intervistate hanno fornito tutta la storia di una vita per

dimostrare di essere portatrici di quelle capacità di communion, così necessarie

per andare avanti nonostante tutto e per conservare la famiglia nei momenti più

difficili. Mentre il termine agency si riferisce all’azione individualistica volta

all’autoconservazione, all’agire strumentale e all’affermazione personale rispetto

agli altri e al proprio ambiente, quello di communion indica azione empatica con

gli l’altro da sé: «la agency si esplicita con l’isolamento, l’alienazione e la

solitudine; la communion con il contatto, l’apertura e l’unione. L’agency comporta

uno stimolo a dominare; la communion è cooperazione contrattuale»

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. Senso

pratico, capacità di gestire e tenere sotto controllo variabili tra loro molto diverse,

attitudine all’ascolto, capacità relazionali, pazienza, capacità di adattamento e

flessibilità, determinazione e senso di responsabilità sono risorse personali che

le donne intervistate mettono in campo per gestire le difficoltà quotidiane e lo

fanno ormai da lungo tempo (anche se ancora molto giovani), da quando ancora

bambine o ragazze hanno imparato la complessità della vita che, la povertà rivela

e a cui socializza presto.

Ho lottato però ce l’ho fatta! Io lotto dall’età di venti anni, mo per una cosa, mo per l’altra, lotto sempre, è la vita. Ogni passo me lo sono dovuto conquistare, con molta fatica pure (Rosa).

Grazie a queste risorse le donne intervistate fronteggiano vincoli, difficoltà

e le incertezze della vita quotidiana, risorse e capacità di cui, come abbiamo

messo in evidenza, non sono affatto povere ma che sono esposte al rischio di

spegnersi quando il contesto relazionale circostante si impoverisce troppo o

diventa particolarmente ostile e la pressione sale soffocando l’energia in

rassegnazione, l’instancabile carica creativa in statica alienazione, la capacità di

rapportarsi, la disponibilità e il desiderio di reciprocità in chiusura e depressione.