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Voto segreto e consociativismo

1.3. La nascita della Repubblica

1.3.1. Voto segreto e consociativismo

La prima fase dell’esperienza repubblicana venne comunemente definita come “ democrazia bloccata ”, caratterizzata dall’operare di due convenzioni, che condizioneranno e non poco, lo svolgimento delle vicende politiche e sociali in Italia.

Da un lato, la cosiddetta “ conventio ad excludendum ”, sulla base della quale i partiti di sinistra, ed in particolare il Partito comunista italiano ( per il quale operò in modo più lungo e rigido ), ma anche il Movimento sociale italiano, erano ritenuti inidonei ad entrare nell’aera di governo, in quanto carenti di adeguata legittimazione.

Dall’altro lato, la cosiddetta “ conventio ad includendum ”, sulla base della quale il Parlamento diventava sede per avviare un progressivo recupero all’interno del Governo, di partiti che riuscivano a guadagnarsi in esso una riconosciuta legittimazione.

Queste due convenzioni, come si può ben notare, impedirono l’alternanza di forze politiche in seno all’Esecutivo, o comunque ridussero il novero delle alleanze a quelle volute ed aggregate alla Democrazia cristiana che, fin da subito, si collocò al centro del sistema come partito di maggioranza relativa. In tale contesto, fu sostituito il normale regime dell’alternanza, con una sorta di stabilità consociativa.

Il voto segreto era caduto in desuetudine nell’Italia statutaria, basti pensare che, prima di una seduta dell’Assemblea Costituente dell’aprile 1947, erano ben 65 anni che non si faceva applicazione della norma sulla prevalenza dello scrutinio segreto.

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Stessa situazione accadde con l’avvento del fascismo ma, questa modalità di votazione, conobbe con la fase repubblicana una nuova stagione e si poté dire funzionalissima a determinate prassi, poiché garantiva accordi sottobanco ed una mediazione tra maggioranza ed opposizioni portata avanti nelle segreterie dei partiti invece che nelle aule parlamentari, dove si evitavano così facendo, palesi e manifeste divisioni.

Come in ogni situazione, però, vi erano dei pro e dei contro e, il rovescio della medaglia, fu la possibilità di imboscate al Governo attraverso il fenomeno dei “ franchi tiratori ”, soggetti della maggioranza che, grazie allo scrutinio segreto, votavano contro il proprio partito di appartenenza.

Tutto ciò fu il risultato della scelta di mantenere in auge il voto segreto, nonostante fosse cambiato il volto delle istituzioni italiane dopo il referendum che, due anni prima, aveva visto prevalere la Repubblica. Bisogna comunque dire che, nella prima era repubblicana, il mantenimento del voto segreto per la maggior parte delle leggi certo non poteva definirsi un antico residuo della tradizione statutaria. Poteva dunque esser comprensibile nei primi anni, quando ancora era vivo il mito della continuità istituzionale con le Camere prefasciste, ma comunque non spiegherebbe le difformità tra Camera e Senato. Il voto segreto fu fondamentale per la tutela decisionale dei singoli parlamentari dalle pressioni del Re, dei governi e delle dittature ( infatti ad un certo punto della storia fascista fu istituito l’appello nominale ), cose che ora provenivano, invece, dai partiti politici quali “ moderni principi ”.

Nato, infatti, come ultimo baluardo dell’autonomia del singolo parlamentare, il voto segreto nel periodo repubblicano andò piuttosto

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assumendo connotazioni ulteriori, funzionali alla prassi consociativa, “ consentendo quel divorzio tra potere e responsabilità che di tale modalità di voto costituisce l’intima essenza ” 23 .

Da un lato, il voto segreto, si confermò come elemento di distorsione del circuito parlamentare, dato che impediva il controllo degli eletti da parte degli elettori; dall’altro, contribuì allo spostamento della titolarità effettiva della sovranità, dagli elettori, agli eletti.

Anziché esser strumento di tutela delle libertà, il voto segreto il più delle volte servì a condurre interne lotte di partito, a stringere accordi trasversali con le varie rappresentanze politiche, a mediare con vari gruppi di pressione e lobbies. Sicuramente tutto ciò accadde senza che pendesse sulle teste dei parlamentari la spada di Damocle della pubblicità, dato che, col voto segreto, essi furono al riparo dalle critiche di elettori e opinione pubblica.

Il voto segreto favoriva, oltre ai singoli parlamentari, le “ correnti ” presenti all’interno della maggioranza, che potevano così condizionarne l’operato tutelando la propria identità e forza politica. Anche i partner di governo potevano rivendicare, all’interno della coalizione, un peso politico maggiore rispetto alla loro effettiva forza elettorale.

Certamente poterono approfittare ancor di più del voto segreto le opposizioni, consapevoli da un lato, delle preclusioni ideologiche che ne impedivano l’accesso al Governo e rendevano il sistema bloccato attraverso la già citata “ conventio ad excludendum ”; dall’altro, grazie alla loro forte coesione interna, preferirono condizionare in modo costruttivo le scelte della maggioranza, invece che contrastarle in

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S. CURRERI, Il voto segreto: uso, abuso, eccezione, in Il Parlamento, Einaudi, Torino, 2001, p. 525.

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modo frontale e pregiudizialmente ostile, così da giungere, attraverso compromessi di reciproca soddisfazione politica ( il già citato consociativismo ), a soluzioni socialmente più accettabili e condivise dalla maggior parte degli elettori.

Il voto segreto divenne dunque lo strumento attraverso il quale, la maggiore forza politica e le opposizioni, portarono avanti le loro diverse visioni della dialettica politica, scegliendo quindi questa forma di associazionismo invece della pura alternanza tra maggioranza ed opposizione ( situazione che inizierà a verificarsi proprio con l’obbligo dello scrutinio palese introdotto nel 1988 ) .

In un simile contesto, il voto a scrutinio segreto, rappresentò la condizione essenziale che consentiva il raggiungimento di accordi e convergenze tra una maggioranza non molto unita al suo interno, e perciò favorevole a trovare, grazie al segreto delle urne, le principali intese politiche, ed una opposizione non così forte da governare, ma nemmeno tanto fiacca da poter essere ignorata dalla maggiore forza politica.

Da non trascurare infine che, il voto segreto, favoriva la centralità del Parlamento inteso nel suo complesso, il quale poteva così trovare in esso uno strumento utile per rivendicare la necessaria indipendenza ed autonomia da ogni altro potere od organo costituzionale, in primis dal Governo.

Tutti questi interessi analizzati son eterogenei ed a volte contrastanti ma, alla fine, convergono tutti nel solo obiettivo delle opposizioni di rendere precaria ed instabile l’azione governativa. Queste, infatti, consapevoli della scarsa capacità di abnegazione ed unità da parte di maggioranze fragili e quindi politicamente frammentate, le esposero continuamente alle “ imboscate ” tese dai “ franchi tiratori ” che, come

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visto in precedenza, erano quei parlamentari della maggioranza che approfittando dello scrutinio segreto, votavano contro il Governo per metterlo in minoranza costringendolo così alle dimissioni con conseguenti nuove elezioni, tramite le quali, speravano di entrare a far parte del nuovo Esecutivo ( esteriorizzando quel principio che già definimmo come “ conventio ad includendum ” ) .

Tramite il voto segreto si consolidò, dunque, quella tendenza al compromesso tra maggioranza ed opposizione che, poi, ha rappresentato il fine fondamentale dell’organizzazione interna dello Stato, da realizzarsi attraverso il concorso di partiti tra di loro ( come stabilisce l’articolo 49 della Costituzione ), per la determinazione della politica nazionale.

Quindi, sempre per sottolineare la grande incidenza delle modalità di votazione sulle dinamiche delle vicende politiche, possiamo statuire che il voto segreto, insieme ad altri numerosi strumenti legislativi, rappresentò la regola fondamentale grazie alla quale si è sviluppata la tendenza del sistema politico italiano verso il compromesso parlamentare e perciò verso una più marcata divisione tra potere politico e responsabilità degli eletti.

Dunque voto segreto non come una contraddizione interna, ma come un elemento fondamentale e funzionale all’evoluzione della forma di governo parlamentare in chiave consociativa ed assembleare, in cui gli interessi degli eletti, di partito e delle loro correnti, prevaleva sul senso di responsabilità e di trasparenza dell’azione politica nei confronti degli elettori.

Dall’altro lato della medaglia, però, proprio questo mettere in secondo piano le responsabilità dei parlamentari, non può certo dirsi un pregio per una forma di governo democratica. Inoltre, già si è visto che, con

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questa modalità di votazione, la maggioranza parlamentare prestò il fianco per decenni alle celeberrime “ imboscate ” per mano dei “ franchi tiratori ”. Il principio dell’obbligatorietà e della prevalenza dello scrutinio segreto, in vigore dal 1848, rimase in auge fino alla radicale riforma del 1988; quindi modalità di votazione prescelta e prevalente per quasi un secolo e mezzo.

La sua ratio è rimasta sempre inalterata nel tempo perché ha risposto continuamente ad esigenze via via diverse: l’indipendenza dal sovrano, il trasformismo parlamentare, l’ autonomia degli eletti, la dialettica consociativa tra i partiti.

Per questi motivi, si può parlare del voto segreto come di una peculiarità tutta interna al sistema parlamentare italiano, non essendosi mai estesa né negli ordinamenti regionali, né nelle costituzioni o regolamenti vigenti negli altri Paesi.

Ciò, infatti, costituisce il punto di partenza per arrivare a dire che, nel nostro ordinamento, non si è mai concretizzato appieno alcuno dei due modelli in cui generalmente si articolano le forme di governo parlamentari, vale a dire il modello di consociazione o quello dell’alternanza.

Il nostro sistema costituzionale rappresenta meglio, invece, una tipologia a sé stante: il modello della democrazia incompiuta. Le cause di tutto ciò vanno ricercate nella mancanza di ricambio della classe politica e nell’egemonia, durata oltre quarant’anni, dello stesso partito anche se attraverso governi di coalizione, nonché nel divieto al maggior partito d’opposizione di candidarsi ( “ conventio ad

excludendum ” ) .

Dalle elezioni del 18 aprile 1948 alla nascita dei primi governi di centro - sinistra, avvenuta un decennio dopo, il sistema fu

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caratterizzato da una rigida delimitazione della maggioranza e dall’assunzione del ruolo di “ centro motore del sistema ” spettante al Governo, con il Parlamento relegato a mera “ cassa di risonanza ” delle volontà governative.

Il fallimento del tentativo posto in essere dalla Dc degasperiana con la legge del 31 marzo 1953, n. 148 ( la famosa “ legge truffa ” )24, di

legittimare attraverso il sistema elettorale tale forma di governo, segnò l’inizio di un processo evolutivo che si manifestò nella costruzione di nuovi rapporti tra maggioranza ed opposizione parlamentare. Proprio all’interno delle assemblee parlamentari, si manifestò quello scambio diretto di influenze tra maggioranza ed opposizione, che rilanciò l’autonomia dell’indirizzo politico da parte del Parlamento e che culminerà nella complessa “ stagione delle riforme ”.

Fallita la “ legge truffa ” e chiusa ogni strada a destra ( anche se dei monarchici si fece più volte uso anche in modo clandestino ), la via obbligata fu l’apertura a sinistra: prima con il centro - sinistra, poi nell’emergenza dell’attacco brigatista allo Stato, con la solidarietà nazionale e l’inclusione del maggior partito d’opposizione, il Partito comunista.

Ancora prima, il coinvolgimento del Pci, era stato a lungo ricercato a livello parlamentare ed il sistema delle Commissioni in sede legislativa, e soprattutto il voto segreto, risultarono funzionali a questo scopo. Contro il Pci era molto difficile governare, con il Pci non era possibile governare ( almeno fino alla fine degli anni Ottanta, per via

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Con la citata legge la Dc voleva rafforzare il suo ruolo, che era di maggioranza relativa ( assoluta solo al Senato ), tramite una legge elettorale con premio di maggioranza concepita al solo fine di liberare il suddetto partito da coalizioni sgradite o alleanze troppo faticose ( in primis quella con l'estrema destra della quale all'epoca erano fautori influenti sfere dei circoli vaticani ) .

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della già citata “ conventio ad excludendum ” ) : dunque la scelta fu di esaltare la presunta centralità del Parlamento in modo che, quel partito di formale opposizione ( tale almeno fino al 1977 ), potesse concorrere alle scelte più importanti della politica nazionale, tranne la politica di difesa e quella estera.

In ogni caso la forma di governo italiana continuò ad essere caratterizzata dall’assenza di alternative all’egemonia della Dc, accompagnata da lunghe crisi di Governo, frequenti scioglimenti anticipati ( la regola dopo il 1968, invece prima di quell’anno le legislature erano sempre giunte alla loro naturale scadenza quinquennale ), ed in ultimo, forme palesi o sottobanco, di associazionismo al potere di gran parte dell’opposizione parlamentare ( il noto consociativismo ) .

In un simile contesto, il voto segreto, venne sempre più usato in Parlamento. Infatti, alla Camera, da una votazione a scrutinio segreto ogni undici sedute della III legislatura ( 1958 - 1963 ), si passò al voto segreto una volta ogni tre sedute nella legislatura seguente ( 1963 - 1968 ) .

Ciò accadde per vari fini e varie motivazioni, ma quasi mai davvero a tutela dell’autonomia di espressione nel voto dei parlamentari, a fronte di vere o presunte prevaricazioni altrui. Il voto segreto servì per minare la già debole compattezza della maggioranza al Governo tenendola costantemente “ sotto tiro ” o, al contrario, per far confluire i voti dell’opposizione su provvedimenti del Governo in cambio di altri vantaggi o compensazioni, o infine per contrastare l’assunzione di decisioni sgradite in sé, magari sotto l’inconfessabile desiderio di far cadere la maggioranza per prenderne il posto alle redini del Governo.

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Dopo queste valutazioni possiamo dunque notare che, la prevalenza del voto segreto nelle due Camere, e soprattutto alla Camera dei Deputati ( perché al Senato venne utilizzato indiscutibilmente in modo più parco ), risultò a lungo congeniale e funzionale ad una interpretazione del regime parlamentare che può esser definita “ a tendenza assembleare ”. In tale contesto si inseriscono, ed in questa direzione si muovono, le riforme regolamentari del 1971.