A questo proposito, nel 2006, Marianne Brekke, in qualità di dottoranda, ha intrapreso uno studio presso la comunità di giovani rifugiati di Tromsø, la città più grande del Nord- Norge (Norvegia settentrionale), che conta all’incirca 70.000 abitanti. In Young refugees in a network society, la studiosa dichiara che ogni anno arrivano nella cittadina norvegese dai 70 ai 90 richiedenti asilo appartenenti a svariati Paesi e coloro ai quali dedica il suo studio sono in gran parte eritrei, ruandesi e congolesi tra i 17 e i 20 anni. Questi giovani partecipano tutti a un “induction programme” che prevede l’apprendimento del norvegese e un percorso di educazione civica ai fini dell’ottenimento del permesso di soggiorno. Tromsø, nelle parole di Brekke, ha la fama di essere una città aperta e inclusiva i cui spazi pubblici sono abitati da norvegesi così come da lavoratori immigrati, richiedenti asilo, rifugiati, turisti e visitatori, i quali restituiscono un panorama multiculturale e colorito che si staglia sul grigiore artico. Non ci sono spazi-ghetto, strade o quartieri vissuti in prevalenza da un solo gruppo etnico. Tuttavia, mentre è facile incontrare “locals e non locals” nei centri commerciali, in autobus e in biblioteca, non è altrettanto facile incontrare i non locals in pub, bar e caffè. Inoltre, benché gli spazi pubblici siano condivisi non risulta che in essi ci sia un’effettiva interazione tra la comunità autoctona e quella dei richiedenti asilo.
Brekke analizza le ragioni di questo intervistando un gruppo di giovani richiedenti asilo proprio in biblioteca, un posto nel quale dichiarano di sentirsi a proprio agio. Innanzitutto essa emerge come spazio pubblico in cui fattori quali l’etnia, il colore della pelle, l’età, l’appartenenza di genere e lo status sociale non sono rilevanti in quanto vi si sviluppa una “unfocused interaction”, per usare le parole di Goffman, che prevede lo stare in presenza di altri senza necessariamente comunicare verbalmente con essi. Ciò porta tutti i presenti a modificare, anche se inconsciamente, il proprio comportamento in quanto consapevoli di essere osservati e allo stesso tempo porta tutti indistintamente ad adottare una certa condotta consona ai codici imposti dal luogo. Dunque, la biblioteca permette innanzitutto di condividere uno spazio in cui interagire in modalità extra-verbale e ciò la rende un posto
164 in cui chiunque può sentirsi a proprio agio anche se da solo e anche se non conosce nessuno dei presenti. In secondo luogo recarsi in biblioteca non sottintende spendere del denaro cosa che invece sottintende recarsi al pub, al bar o in un caffè. In terzo luogo la biblioteca è il posto in cui vengono mantenuti quelli che Brekke chiama i “transnational networks”; ovvero in biblioteca i richiedenti asilo hanno accesso ai computer e a Internet per chattare con gli amici e i famigliari, possono leggere riviste internazionali, i quotidiani dei loro rispettivi Paesi e incontrare altri richiedenti asilo. Tutto ciò rende la biblioteca uno spazio ponte tra la realtà locale e le realtà transnazionali nelle quali sono coinvolti i richiedenti asilo. Riguardo ai rapporti con la comunità autoctona gli intervistati sostengono di non entrare facilmente in contatto con i locali e adducono una serie di ragioni. Julia dichiara:“I feel it harder to get in touch with Norwegians than with foreigners […] and they (Norwegians) are very quiet”.216
Agli occhi dei richiedenti asilo i comportamenti dei norvegesi sono strani se non addirittura scortesi. Emmanuel racconta:“(When I arrived in Tromsø) people were completely strange, because every morning I used to greet people I met outside my house, but they did not respond […] I wondered why they did not say anything, because back in Africa you greet every person you meet […] After that, I stopped greeting”.217
Inoltre subentrano difficoltà comunicative dettate dalle differenze linguistiche e dai conflitti culturali. Kenny spiega:“I come into town only if I have an appointment with someone, otherwise I do not hang out in town. I do not go out so much, maybe sometimes with my mum, for doing some shopping and just to look around. I am thinking of if I got (Norwegian) friends here in Norway. […] Maybe they like going in cafés. Me, in my native country, I haven’t experienced such things. I am not used to going out and I feel a little insecure and maybe I will get problems doing that”.218
Più avanti sempre lo stesso ragazzo dichiara che la religione gioca un ruolo fondamentale nella sua vita e che vivere seguendone i dettami lo tiene lontano da tutta una serie di pratiche messe in atto dai giovani norvegesi, come per esempio bere alcol o andare in club promiscui dove tutti ballano e si comportano con disinvoltura.
216 Brekke M., 2008, p. 108. 217 Ibid., p. 109.
165 C’è poi un altro punto che gioca a sfavore dell’incontro tra richiedenti asilo e autoctoni facendo sì che molti dei ragazzi intervistati preferiscano andare dritti a casa dopo la scuola, se non fare un salto in biblioteca: il clima. Il freddo, la neve, le condizioni atmosferiche artiche non favoriscono la socialità. Molti dichiarano di sentirsi in un isolamento forzato proprio a causa dalla rigidità climatica e di non vedere l’ora di potersi spostarsi più a sud. Sempre Kenny descrive così il suo arrivo a Tromsø:“It was polar nights and a lot of snow and the first time I saw snow. It was so cold that we needed a lot of clothes”.219
Se pensiamo che la maggioranza dei giovani richiedenti asilo intervistati da Brekke proviene dall’Africa sub-sahariana, possiamo ben immaginare il loro sconcerto di fronte al clima artico. Questo aspetto concorre a fare sì che i richiedenti asilo non pensino di stabilizzarsi a Tromsø e vivano il loro soggiorno in città come una parentesi temporanea, un “place in transit” facente parte del loro ciclo migratorio, un sacrificio necessario all’ottenimento del permesso di soggiorno per poi dirigersi altrove. Non avendo intenzione di rimanervi a lungo i richiedenti asilo sono demotivati dal costruire una rete di rapporti sociali in loco. Molti sublimano la propria voglia di socialità attraverso le pratiche digitali. Brekke afferma: “For many young refugees, the Internet provides a way out of loneliness and marginalization when they arrive in Tromsø. By using the Internet they are not so dependent upon finding friends and developing social networks in their geographical proximity, and regard online friends as being just as adequate as the people they meet face-to-face”.220
Chattare diventa il modo migliore per tenersi in contatto con gli amici e per fare nuove conoscenze, ma sempre con altri richiedenti asilo, connazionali o meno, con migranti o persone rimaste in madre patria; non emergono invece contatti online con autoctoni norvegesi. Per quanto riguarda il mantenimento dei contatti con la famiglia, il mezzo privilegiato resto il telefono perché soprattutto chi proviene dalle zone rurali non può contare sulla connessione Internet per comunicare con i parenti a casa. Maria dichiara:“I started with chatting because I had no friends here… and I wanted to spend my time doing something. It is a boy that I chatted with from Kenya. He started to talk about God. I want to hear about God from other people… So we chatted about God, about jokes. We
219 Ibid., p. 107. 220 Ibid., p. 111.
166 exchanged songs. I give him songs from my native country and he gives me English Christian music. We ring each other sometimes”.221
Ne risulta quindi che Internet funge da deterrente all’inclusione sociale dei richiedenti asilo? Secondo Fog Olwig, professoressa di Antropologia presso l’Università di Copenhagen l’immigrazione non porta necessariamente all’integrazione nel Paese ospitante. Il transnational network (set di connessioni a distanza in grado di superare i confini geografici), può sia facilitare l’inclusione sociale dei migranti/richiedenti asilo, sia dissuaderli dal costruire una rete di legami sul posto. Il suddetto network, infatti, supporta i soggetti coinvolti nel processo migratorio, fornendo loro assistenza logistica, economica, emotiva e ne può soddisfare anche le necessità di socializzazione, perlomeno su breve termine. Ci si può dunque aspettare che i migranti i quali vivono come parentesi temporanea il proprio soggiorno in un determinato luogo ricorrano in maggiore misura a modalità comunicative mediate da Internet, che permettono loro di superare l’isolamento fisico nel quale si trovano ricorrendo a una socialità virtuale, inclusiva, rassicurante e comunitaria.
Non mancano comunque nella ricerca di Brekke casi di amicizie in presenza instaurate sul posto, veri e propri esempi di intercultura, sviluppatisi tra gruppi di migranti appartenenti a differenti Paesi di origine e credo religiosi. Tuttavia sono pochi i norvegesi coinvolti in queste amicizie miste. La ricercatrice racconta di essere stata in visita presso la casa di una famiglia di rifugiati eritrei e di avere potuto constatare com’è la loro quotidianità e come gestiscono i rapporti sociali a distanza e in presenza. Nelle parole di Brekke:“In the living room two personal computers are located very centrally and these are in constant use. Two televisions are on very loud, one in the kitchen area and one in the living room, showing American soaps subtitled in Norwegian. They are cooking Eritrean food and the apartment is filled with cooking smells that are unknown in Norwegian homes. Friends from a refugee background from Afghanistan and Rwanda are also present. Different languages are being spoken in this multi-ethnic setting, including local Eritrean languages, English and Norwegian”.222
Brekke continua spiegando che le amicizie inter-etniche sono un aspetto importante della vita dei rifugiati a Tromsø. Cristiani eritrei e musulmani afgani, per esempio, si
221 Ibidem. 222 Ibid., p. 110.
167 frequentano abitualmente senza che le reciproche differenze rappresentino un problema. Ciò dimostra quanto affermato dall’antropologo sociale Viggo Vestel, secondo cui le persone in contesti multiculturali enfatizzano gli aspetti comuni piuttosto che le loro diversità. Gli incontri e le interazioni tra i rifugiati di Tromsø si basano, dunque, su ciò che essi condividono e cioè proprio la loro condizione di rifugiati che da un lato li mette in una posizione marginale nei confronti della comunità autoctona, dall’altro crea un senso di “fratellanza” che trascende l’appartenenza etnica, religiosa e culturale.