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Le tre zone della coesione sociale

Nel documento Programmazione unitaria (pagine 85-91)

Il gruppo di acquisto solidale (GAS) Giuliano Angotzi*

5. Le tre zone della coesione sociale

Il modello di welfare che si sta consolidando in Italia si basa su un’analisi semplificata della società italiana e delle condizioni economiche della fa- miglie italiane. Si immagina che la maggior parte della popolazione possa essere progressivamente esclusa da una parte consistente delle prestazioni pubbliche di welfare in quanto, superati questi anni di crisi, potrà disporre di una parte del suo reddito per assicurarsi prestazioni sociali e sanitarie private di qualità, realmente protettive rispetto ai rischi della non autosuf- ficienza, di una malattia prolungata.

La realtà è molto più articolata: la società italiana non riesce a rendere compatibile le esigenze dello sviluppo con la qualità del lavoro, i livelli retributivi e la qualità delle relazioni umane, a governare le dinamiche, gli squilibri e i nuovi raggruppamenti sociali che continuamente produce. I risultati dell’indagine annuale Eu–Silc (ISTAT 2017) mostrano che nel 2016 il 30,0% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclu- sione sociale, registrando un peggioramento rispetto all’anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%. Il 20,6% (in aumento rispetto al 19,9% del 2015) delle persone risulta a rischio di povertà. Oltre la metà (53%) dei redditi individuali è compresa tra 10.001 e 30.000 euro lordi annui, circa un quarto (il 24,4%) è al di sotto dei 10.000 euro e il 18,5% è tra 30.001 e 70.000; solo nel 2,8% dei casi si superano i 70.000 euro.

Le tre zone di coesione sociale individuate da Robert Castel (2003) in suo saggio molto noto, possono essere utilizzate per rappresentare i cambiamenti intervenuti in Italia in questi ultimi decenni e i rischi sociali emergenti. Castel individua una zona di integrazione caratterizzata da con- tratti di lavoro a tempo pieno, possibilità di partecipazione alla vita sociale e benefici di welfare adeguati, una zona di vulnerabilità, la zona della pre- carietà, del lavoro temporaneo, dei lavori mal retribuiti, di insufficienti risorse di welfare e fragilità delle relazioni primarie. Secondo Castel, la zona di integrazione si sta riducendo, la zona di vulnerabilità e precarietà si sta espandendo e alimenta continuamente una terza zona, la “zona della disaffiliazione” o dell’esclusione (esclusi dal mercato del lavoro e spesso perdita di buona parte delle tutele sociali).

In Italia, fino alla prima metà degli anni Novanta, la zona dell’integra- zione era molto estesa, comprendeva le persone con redditi elevati, le classi medie e buona parte della classe operaia. Se ci riferiamo agli studi

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più accreditati sulla stratificazione sociale, possiamo stimare che un 70 per cento della popolazione condivideva questa condizione di integra- zione (Sylos Labini 1975). La stabilità lavorativa e le retribuzioni medie consentivano di soddisfare le tradizionali aspettative di queste famiglie: la proprietà della casa, l’accesso agevole alle cure sanitarie, l’istruzione per i componenti più giovani, opportunità di mobilità sociale, la sicurezza di una pensione adeguata, la possibilità di vacanze anche brevi. Le disu- guaglianze nei redditi e nelle ricchezze ricominciava a risalire, ma ancora comunque non determinava una frammentazione elevata del tessuto so- ciale. Le prestazioni di welfare erano sostanzialmente stabili o crescenti. La seconda zona, quella della vulnerabilità si presentava sostanzialmente circoscritta (stimabile nel 20 per cento della popolazione) e riguardava i lavoratori con limitate tutele contrattuali, precarietà, condizioni di lavoro e retribuzioni molto inferiori da quelle condivise dai lavoratori protetti. Anche la zona dell’esclusione riguardava gruppi sociali ben individuabili (il restante 10 per cento), che vivevano condizioni di povertà per lungo tempo, esclusi dal mercato del lavoro, ma con qualche possibilità di rien- tro in lavori a bassa retribuzione e scarsamente qualificati.

In anni più recenti, e soprattutto dopo la crisi economica e finanziaria, la situazione è cambiata radicalmente, incidendo profondamente nella so- lidità delle tre sfere di vita (famiglia, lavoro, welfare) nelle quali si costru- isce l’integrazione sociale. La zona dell’integrazione è diventata molto ri- dotta (può essere stimata nel 30 per cento della popolazione) e comprende le persone con redditi alti e una parte limitata della classe media (ISTAT 2017a; ISTAT 2017b; Siza 2017). In questa zona, la precarietà delle relazio- ni primarie non è vissuta mediamente come rischio incombente, talvolta è una scelta, i suoi effetti, nella maggioranza dei casi, rimangono nell’am- bito della sfera affettiva. La zona della vulnerabilità è diventata, invece, molto estesa (attorno al 50 per cento della popolazione) comprende una parte rilevante delle classe media e quasi tutta la classe operaia. Processi di dualizzazione e la riduzione delle prestazioni di welfare hanno indebolito fortemente la capacità operativa del welfare. Questa parte della popola- zione utilizza crescentemente prestazioni private nell’ambito della sanità, dell’istruzione: in molte regioni una applicazione dell’ISEE rigorosa ha escluso una parte significativa di queste famiglie dall’accesso agevolato a molti servizi comunali (asili nido, sostegno domiciliare, servizi residenzia- li). Precarietà e rottura delle relazioni diventano un rischio che coinvolge

Dal welfare attivo al welfare condizionale 87 profondamente il vissuto delle persone, il reddito, l’abitazione e tutte le sfere di vita.

Infine la zona della esclusione e della povertà (il restante 20 per cento) composta dai gruppi sociali stabilmente esclusi dal mercato del lavoro, con possibilità di rientro molto basse, che hanno subito in questi anni una riduzione significativa di tutte le prestazioni welfare. Accanto alle pover- tà persistenti si consolida la presenza di famiglie e persone che vivono condizioni di povertà transitorie — di breve durata, occasionale oppure oscillante — con oscillazioni di reddito frequenti fra povertà e severe ri- strettezze finanziarie, che vivono una fragilità delle condizioni di vita per il diffondersi di instabilità nel mercato del lavoro e nelle relazioni familiari, di isolamento dalle rete informali di aiuto. Persone che vivono situazioni particolarmente fluide, dai contorni non ben definiti, in cui tutti i soggetti sono consapevoli che le cose possono mutare, in un senso o in un altro, non sono stabilmente acquisite o stabilmente perse.

Le società italiana non ci appare a questo punto caratterizzata soltanto da una elevata povertà e disuguaglianza, polarizzata tra poveri e ricchi, ma anche una società caratterizzata dalla presenza di molte posizioni inter- medie fortemente impoverite, con condizioni di vita instabili, che non co- stituiscono più un tessuto connettivo di relazioni e di valori su cui poggia il vivere sociale e il legame tra differenti gruppi sociali (come storicamente sono state la classe operaia e le classi medie). A queste esigenze il welfare risponde molto parzialmente, sebbene queste condizioni di vita costitui- scano una delle criticità più rilevanti per la coesione sociale.

6. Conclusioni

Il benessere delle persone e la promozione delle responsabilità collettive non dipende soltanto dalle combinazioni fra stato e mercato, tra pubblico e privato, coinvolge i cittadini, la capacità di mobilitare le risorse di cura di cui dispongono. Relazioni informali, lavoro, welfare sono le tre sfere di vita nelle quali si costruisce l’integrazione sociale. Le politiche sociali non sono riducibili alle politiche del lavoro e il termine attivazione non signi- fica soltanto formazione e inserimento nel mercato del lavoro. Il welfare to work può diventare l’accettazione obbligatoria di qualsiasi lavoro, pena l’interruzione di ogni forma di sostegno economico, un avvio forzoso a

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lavori scadenti, e la contestuale riduzione di tutte le altre spese di welfare. Oppure una politica sociale di accompagnamento e di responsabilizzazio- ne che tenga conto delle differenze, l’avvio di un percorso di recupero alla vita sociale e lavorativa, che sostiene la persona e la sua famiglia nella pluralità delle sue esigenze. In questa seconda prospettiva, alle persone povere può essere richiesto di essere più responsabili, ma questo può esse- re l’obiettivo dell’intervento, nella prima prospettiva, invece, è il requisito per un primo accesso ai programmi di welfare.

L’esigenza è quella di contrastare la povertà e l’impoverimento con azioni realmente attivanti le capacità delle persone, con progetti di inse- rimento personalizzati, promuovere relazioni collaborative fra i cittadini, riaffermare interventi più ampi che riguardano i valori e le regole della convivenza. Per la maggioranza delle famiglie italiana si pone l’esigenza di difendere il principio universalistico che regola i più significativi settori del welfare italiano nella consapevolezza che un ulteriore indebolimento del welfare pubblico aggraverebbe le condizioni di vita della maggioranza delle famiglie italiane: sono famiglie che rischiano di non poter disporre di sufficienti servizi pubblici, che avranno scarse possibilità di accesso ad un welfare integrativo, non hanno lavoro o hanno inserimenti in aziende di piccole dimensioni che non assicurano ai loro dipendenti prestazioni di welfare, hanno condizioni lavorative difficilmente conciliabili con la vita familiare anche in presenza di un programma di sostegno.

Un welfare civile consistente e consapevole delle sue ragioni, può pro- porre e sostenere un’altra rappresentazione delle esigenze delle persone, può mettere in discussione la logica delle attuali combinazioni tra pub- blico e privato, operando concretamente e proponendo in molti ambiti di welfare modalità di intervento che coinvolgono relazioni umane e le risorse di cura che esprimono. La crisi finanziaria ed economica che stia- mo vivendo ha creato un disorientamento profondo, ma nel medio e nel lungo periodo potrebbe consentire il consolidamento di nuove relazioni collaborative e rappresentare nuove opportunità di crescita sociale e un nuovo modo di vedere il mondo.

Riferimenti bibliografici

Castel R. (2007) La metamorfosi della questione sociale, Avellino, Sellino Edi- tore.

Dal welfare attivo al welfare condizionale 89 Dean H. (2003) Reconceptualising welfare to work for people with multiple

problems and needs, «Journal of Social Policy», n. 32, pp. 441–59. Istat (2017a) Rapporto annuale 2017, Roma.

Istat (2017b) Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie nel 2016, Roma.

Siza R., Deeming C. (a cura di) Il Declino della classe media: i limiti delle po-

litiche sociali, numero speciale di «Sociologia e politiche sociali», n. 2. Sylos Labini P. (1975) Saggio sulle classi sociali, Bari, Laterza.

91 Il sistema dell’Economia del Mare rappresenta un’inestimabile risorsa economica di non facile definizione, alla luce del suo vasto dominio di espansione all’interno del sistema produttivo globale. Significativa, al ri- guardo, è la definizione che viene data dalla guida del Maritime Industry Museum at Fort Schulyler (State University of New York Maritime Colle- ge Campus), in cui si descrive un lungo elenco di attività di produzione e servizi che in essa possono essere comprese:

— i servizi di accesso ai porti;

— i servizi alla movimentazione delle merci; — i servizi di trasporto passeggeri;

— la navigazione interna;

— la costruzione e riparazione di imbarcazioni; — l’istruzione e la formazione nautica;

— la pesca;

— l’attività di assicurazione; — la comunicazione;

— le filiere innovative del turismo nautico; — della tutela ambientale;

— estrazione minerarie dai fondali marini.

Questa definizione, piuttosto vaga ai fini di una precisa analisi scien- tifica, mette tuttavia in evidenza l’ampiezza e la complessità delle filiere del mare che da sempre materializzano interessi, flussi ed aspirazioni dei territori interessati.

Economie del mare e prospettive per la Sardegna

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